Alterazioni della coscienza e “qualia” emozionali in epilessia

Altered states of consciousness and emotional "qualia" in epilepsy

F. Monaco, M. Mula, A. Cavanna

Dipartimento di Neurologia, Università "A. Avogadro", Novara

Key words: Consciousness • Epilepsy • Qualia
Correspondence: Dr. Andrea Cavanna, Clinica Neurologica, Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, A.O. “Maggiore della Carità”, corso Mazzini 18, 28100 Novara, Italy – Tel. +39 0321 3733731 – Fax +39 0321 3733298 – E-mail: cavanna77@tin.it

La coscienza – la presenza di sé a sé – è generalmente ritenuto il tema ultimo della riflessione
Levinas E. La filosofia e l’idea dell’infinito. Revue de Metaphysique et de Morale, 1957

Introduzione. Lo studio scientifico della coscienza

Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito a un rinnovato interesse per lo studio scientifico della coscienza (1) (2). Ciò è testimoniato da un aumento esponenziale della letteratura scientifica sull’argomento, oltre che dalla creazione di riviste specializzate (JCS, Journal of Consciousness Studies (3)), fondazioni dedicate (ASSC, Association for the Scientific Study of Consciousness (4)) e congressi di risonanza mondiale (TSC, Towards a Science of Consciousness (5)) a partire dal 1994. In considerazione della complessità dell’argomento, sono stati avviati programmi di ricerca di tipo multidisciplinare, che comprendono contributi provenienti da settori in precedenza lontani e reciprocamente isolati, come la psicologia, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la filosofia, la linguistica e l’antropologia (6). In particolare, oggi i neuroscienziati si avvalgono degli strumenti concettuali forniti dalle scienze astratte (stati fenomenici, rappresentazioni mentali) per indirizzare lo studio sperimentale delle basi biologiche della coscienza (7). Parimenti, i filosofi della mente fanno riferimento, in misura sempre maggiore, ai dati neuropsicologici per caratterizzare la natura dell’esperienza cosciente (8).

Un assunto fondamentale è che ad ogni istante la nostra esperienza soggettiva (stato mentale) è associata a un corrispondente pattern di attivazione neuronale (stato cerebrale); è impossibile che si verifichi una alterazione di uno stato mentale in assenza di una modificazione dello stato cerebrale corrispondente. In filosofia della mente, questo principio è noto come tesi della “sopravvenienza” dell’attività mentale sull’attività cerebrale (9). L’esistenza di una relazione tra gli stati mentali e gli stati fisici ha indotto i ricercatori ad indagare la natura di tale relazione attraverso l’individuazione dei correlati neurali della coscienza (“neural correlates of consciousness”, NCC) (10).

In questo modo, l’indagine empirica è in grado di fornire una risposta a quesiti precisi, come i seguenti: in quale area cerebrale si trovano questi correlati? Di che tipo sono i neuroni coinvolti? Presentano delle caratteristiche di scarica particolari, anche in relazione agli altri neuroni?

In generale, vi è accordo circa il fatto che lo studio sistematico dei correlati neurali della coscienza possa fornirci un valido aiuto per comprendere la natura e le funzioni della coscienza. Tuttavia, non è ancora stato possibile pervenire a una definizione univoca dell’oggetto della ricerca, tradizionalmente elusivo e sfuggente a ogni tentativo di concettualizzazione.

Definire la coscienza

I tentativi di definire la coscienza hanno portato a risultati assai diversi tra loro. Esiste una secolare tradizione di dibattito filosofico circa la natura della nostra esperienza cosciente (11). I filosofi dell’antichità hanno collocato la coscienza ora tra i fondamenti costitutivi dell’”essere”, ora nell’ambito della sfera spirituale, associandole il concetto religioso di anima. Il problema è stato riformulato nel corso del XVII secolo con il dualismo mente-corpo teorizzato da Cartesio (12), il quale sollevò il problema di come la mente (“res cogitans”, sostanza spirituale) potesse interagire con il corpo (“res extensa”, sostanza materiale). Da allora, i filosofi e gli psicologi hanno cercato di risolvere il problema del dualismo cartesiano, descrivendo la coscienza come uno schema comportamentale (13), un artefatto del linguaggio (14), una proprietà epifenomenica della materia (15) o una proprietà emergente dall’attività cerebrale (16).

Negli anni recenti, con intento deliberatamente provocatorio, il Premio Nobel Francis Crick ha avanzato a più riprese la proposta di adottare il termine anima come sinonimo di attività mentale cosciente. È infatti l’anima – e non la coscienza – a comparire nel titolo del suo libro più famoso e discusso, “The astonishing hypothesis. The scientific search for the soul”, in cui difende la tesi del riduzionismo, ovvero della sistematica “traduzione” di tutti i fenomeni psichici nei corrispondenti fenomeni neurobiologici che si verificano a livello cerebrale (7).

Ancora oggi, nonostante il termine “coscienza” venga comunemente utilizzato per indicare l’attività mentale intuitivamente più familiare a ogni individuo, nessuna delle definizioni proposte può essere considerata esauriente. Il filosofo della mente Daniel Dennett ne coglie la contraddittoria sfuggevolezza da ogni tentativo di inquadramento, descrivendola come “la più ovvia e la più misteriosa caratteristica della nostra mente” (17). Le difficoltà sono indubbiamente amplificate dal fatto che è necessario fronteggiare l’eccezionale problema della coincidenza tra lo strumento di indagine (pensiero cosciente) e il suo oggetto (coscienza) (18).

Plum e Posner, seguendo una tradizione che risale allo psicologo William James (19), definiscono la coscienza come “la consapevolezza (awareness) di sé e dell’ambiente esterno, organizzata nelle categorie del tempo e dello spazio” (20). Tuttavia, neppure questo tentativo di definizione si sottrae alla critica di autoreferenzialità, dal momento che fa ricorso a un altro concetto (awareness) tutt’altro che univoco. Altre definizioni, adottate nei testi di neurofisiologia (21), finiscono per scomporre il concetto di coscienza in una serie di componenti cognitive (vigilanza, attenzione, sensazione e percezione, integrazione percettivo-motoria, auto-consapevolezza, sistemi motivazionali, memoria) e sono di scarsa utilità pratica.

In una recente ed approfondita revisione sull’argomento, Zeman (22) distingue il concetto di coscienza da quello di autocoscienza, ed attribuisce al primo tre significati diversi (vigilanza, esperienza soggettiva, consapevolezza) e al secondo ben cinque (capacità di provare imbarazzo, auto-monitoraggio, riconoscimento della propria identità, meta-consapevolezza, autoconoscenza)!

In considerazione delle insormontabili difficoltà, è evidente che la strategia migliore consiste – secondo la maggior parte degli studiosi – nel definire la coscienza di volta in volta in termini differenti, a seconda del particolare aspetto di questo fenomeno che si intende analizzare.

Un modello per lo studio delle alterazioni della coscienza

In termini molto generali è possibile ricondurre tutte le definizioni a un comune schema operativo.

Le modificazioni – fisiologiche e patologiche – dello stato di coscienza possono essere analizzate mediante un modello bidimensionale, costruito sulla base di un parametro di tipo quantitativo e di uno qualitativo. Il primo individua il livello di coscienza (stato di vigilanza, sonno, coma, morte), il secondo i suoi contenuti (tipologie di esperienze soggettive: sensazioni, pensieri, emozioni).

Nella pratica medica quotidiana il concetto di coscienza comprende lo stato di veglia e le capacità di percepire, interagire e comunicare con l’ambiente esterno e con gli altri. In questo senso, la coscienza si misura in livelli: la scala dei livelli di coscienza varia dallo stato di vigilanza, al sopore, al sonno e al coma. Questi livelli possono essere quantificati mediante misure oggettive, utilizzando criteri comportamentali, come quelli forniti dalla Glasgow Coma Scale (23). Pertanto, espressioni di uso comune quali “perdita di coscienza”, “diminuzione del livello di coscienza”, “recupero della coscienza” e così via, fanno riferimento a questa accezione del termine, sovrapponibile al concetto di awareness (vigilanza).

Il livello di vigilanza è controllato, almeno in parte, dall’attività della sostanza reticolare pontomesencefalica. Già gli studi pionieristici eseguiti da Moruzzi e Magoun verso la metà del secolo scorso avevano identificato le basi neurofisiologiche dello stato di vigilanza con il sistema reticolare ascendente a funzione attivante (ARAS, Ascending Reticular Activating System) (24). Ulteriori studi condotti su modelli sperimentali animali hanno dimostrato che tra le altre strutture cerebrali implicate nella modulazione dello stato di vigilanza figurano il locus coeruleus, a proiezione adrenergica, la porzione posteriore dell’ipotalamo, a proiezione istaminergica, altri nuclei troncoencefalici, a proiezione serotoninergica e dopaminergica e, soprattutto, i nuclei intralaminari del talamo (25). Questi ultimi svolgono la funzione fondamentale di relay sinaptico per le afferenze corticali diffuse, che regolano la sincronizzazione dell’attività elettrica corticale registrata dall’elettroencefalogramma (EEG). Lesioni a livello di questi centri possono determinare l’insorgenza di coma e stati vegetativi. Il livello di coscienza può essere modificato, oltre che dalle variazioni fisiologiche del ritmo sonno-veglia, anche da fattori esogeni, come l’assunzione di farmaci anestetici (diminuzione del livello di coscienza) o di sostanze psicoattive (aumento). La Tabella I mostra i principali livelli di coscienza e le classi di sostanze in grado di influenzare il passaggio da un livello all’altro.

Il secondo aspetto fondamentale della coscienza riguarda il contenuto dell’esperienza soggettiva, che varia di momento in momento ed è accessibile solamente dal soggetto, mediante l’introspezione (26). Tali contenuti sono determinati dall’interazione tra fattori esterni, come gli stimoli provenienti dall’ambiente, e fattori interni, come l’attenzione selettiva, e comprendono le percezioni degli oggetti che ci circondano, i ricordi degli eventi passati, i progetti per le azioni future, in generale tutti i pensieri, le sensazioni e le emozioni (22).

È noto che i contenuti dell’esperienza cosciente sono associati all’attivazione di specifiche aree corticali. Ad esempio, l’esperienza cosciente delle immagini in movimento si associa all’attivazione di un’area della corteccia visiva denominata V5, situata a livello della giunzione parieto-occipito-temporale, mentre la rievocazione di eventi passati richiede l’integrità delle strutture del lobo temporale mesiale e delle sue afferenze (27).

Grazie agli studi di neuroimaging funzionale (28) e all’analisi dei potenziali elettrofisiologici evento-correlati (29), la conoscenza della specializzazione funzionale delle diverse aree corticali ha compiuto importanti progressi nel corso dell’ultimo decennio.

In sintesi, l’ARAS è responsabile del mantenimento dello stato di veglia, mentre i diversi contenuti delle esperienze soggettive rappresentano il prodotto dell’attività corticale. La relazione tra il livello di vigilanza e i contenuti dello stato di coscienza è assai complessa e non è ancora stata indagata a sufficienza. Tutte le modulazioni fisiologiche e patologiche dello stato di coscienza possono essere descritte in termini di riduzione/aumento del livello di vigilanza, associato alla presenza o assenza di contenuti esperienziali soggettivi (Fig. 1).

In ambito clinico le patologie che rivestono un maggiore interesse per lo studio scientifico della coscienza sono quelle che coinvolgono la corteccia cerebrale (30). Già nel secolo scorso Hughlings-Jackson aveva intuito che l’epilessia, caratterizzata da una incontrollata attivazione di specifiche aree corticali, costituisce una vera e propria “finestra” spalancata sui meccanismi neurofisiologici responsabili dei diversi tipi di esperienza cosciente (31).

L’epilessia come patologia della coscienza

L’attività epilettica è stata da tempo correlata alle alterazioni della coscienza. È ampiamente riconosciuto che la valutazione dello stato di coscienza è essenziale ai fini della descrizione fenomenologica, della diagnosi e della classificazione delle crisi epilettiche (32).

L’epilessia, che deriva da alterazioni funzionali di varia genesi delle strutture neocorticali, può essere definita come patologia della coscienza, sia in senso quantitativo (crisi generalizzate) che in senso qualitativo (crisi focali).

Al fine di evitare ogni controversia, la comunità neurologica ha definito la coscienza di un paziente affetto da crisi epilettica in termini operativi come la responsività del paziente durante lo stato ictale. L’obiettivo è quello di fornire una valutazione oggettiva (terza persona) di una esperienza prettamente soggettiva (prima persona). Attorno alla metà del secolo scorso, la scuola epilettologica francese aveva definito la compromissione della coscienza che si verifica in diversi tipi di crisi epilettiche come una transitoria “perdita di contatto” (tra il soggetto e l’ambiente esterno) (18).

È evidente che questo concetto di coscienza si concentra, per finalità pratiche, sulla misurazione del livello quantitativo di coscienza (stato di vigilanza o awareness) e non prende in considerazione le modulazioni qualitative (contenuti) dell’esperienza soggettiva. Si tratta di una omissione importante secondo quanto osservato, tra gli altri, dal filosofo Thomas Nagel: “ogni strategia utilizzata per spiegare la coscienza che non ne contempli la natura soggettiva fallisce il suo scopo” (33).

Inoltre, l’utilizzo della responsività del paziente come unico parametro per la determinazione dello stato di coscienza del paziente presenta limiti evidenti (34). Taluni disturbi percettivi, cognitivi, mnesici, attentivi, oltre alle paralisi motorie e ad una modalità inadeguata di stimolazione, possono selettivamente compromettere la responsività ictale, pur in presenza di una attività psichica conservata. Gloor (35) cita una serie di casi, in cui è stata posta diagnosi di “perdita di coscienza” sulla base di una presunta “non responsività”, che ad un’analisi più accurata mostrano evidenze di un’attività mentale durante la fase ictale. Per esempio, la presenza di un’afasia di tipo motorio o sensitivo può determinare uno stato ictale di non rispondenza, seppure in assenza di un reale disturbo della coscienza. Analogamente, un episodio di amnesia anterograda in corso di crisi può essere all’origine di un fuorviante resoconto post-ictale da parte del paziente.

In considerazione di ciò nel presente lavoro l’analisi del rapporto tra epilessia e coscienza verrà condotta facendo costante riferimento al modello bidimensionale livello/contenuti di coscienza.

Alterazioni della coscienza in corso di crisi epilettiche

Le alterazioni quantitative dello stato di coscienza (livello di vigilanza) possono essere dovute ad una compromissione del sistema reticolare di attivazione (ARAS) oppure ad una disfunzione di entrambi gli emisferi cerebrali. Lesioni a livello della sostanza reticolare ponto-mesencefalica possono causare alterazioni dello stato di coscienza, che vanno dal sopore al coma. In assenza di una disfunzione bilaterale, le lesioni corticali determinano modificazioni dei contenuti di coscienza in modo congruo con la loro specializzazione funzionale. La natura delle alterazioni dello stato di coscienza indotte dalle crisi epilettiche è funzione dell’estensione e della localizzazione del coinvolgimento corticale (indicato dalla presenza di attività parossistica all’EEG) (30).

La perdita di coscienza si associa solitamente a scariche bilaterali e diffuse a tutto l’encefalo (36). In assenza di un generatore di scariche epilettiche situato a livello troncoencefalico, o comunque sottocorticale, il coinvolgimento cerebrale diffuso è verosimilmente dovuto alla propagazione generalizzata attraverso le vie di connessione cortico-corticali, a partire da un singolo focus epilettogeno. Tale generalizzazione dell’attività epilettica a livello neurofisiologico si accompagna costantemente al quadro clinico della perdita di coscienza, ovvero uno stato in cui il soggetto non presenta alcun livello di vigilanza, né contenuti mentali. La perdita di coscienza è caratteristica di molte crisi generalizzate, come le assenze e le crisi convulsive di grande male (Fig. 2).

In un recente lavoro, Baars et al. (26) hanno messo a confronto i principali stati fisiologici e patologici accomunati dalla totale assenza di coscienza: il sonno profondo, il coma/stato vegetativo, l’anestesia generale e la perdita di coscienza in corso di crisi epilettica. Sebbene siano generati da meccanismi neurofisiologici differenti, questi quadri clinici condividono una serie di parametri obiettivabili tra cui: 1) attività elettroencefalografica regolare, caratterizzata da voltaggio aumentato e frequenza diminuita; 2) marcato ipometabolismo a livello delle regioni frontoparietali; 3) blocco generalizzato delle connessioni funzionali sia cortico-corticali che talamo-corticali; 4) stato di non rispondenza. La concomitante presenza di questi elementi rende legittimo concludere che il soggetto non presenti attività mentale di alcun tipo.

In assenza di un coinvolgimento cerebrale diffuso, le modificazioni della coscienza si manifestano come alterazioni qualitative dipendenti dalle specifiche funzioni dell’area corticale coinvolta dalla scarica epilettica. Le modulazioni dei contenuti dell’esperienza cosciente sono espressioni della specializzazione delle diverse aree della corteccia, che sono a loro volta responsabili del processo di integrazione degli stimoli esterni ed interni, della memoria a breve e a lungo termine, della comprensione e della produzione linguistica e dell’attenzione selettiva. Le scariche epilettiche esercitano la propria influenza sugli stati qualitativi di coscienza mediante l’interferenza (effetto negativo) oppure la facilitazione (effetto positivo) delle diverse attività associate alle aree corticali (37).

La tradizionale distinzione tra crisi epilettiche parziali semplici e complesse si basava sul criterio della presenza di alterazioni dello stato di coscienza (38). La nuova classificazione proposta dall’International League Against Epilepsy ha sostituito il concetto di crisi parziale con quello, neurofisiologicamente più corretto, di crisi focale (39). Tuttavia, la valutazione dello stato di coscienza rappresenta ancora un elemento fondamentale per differenziare le crisi focali con sintomi sensoriali in “elementari” ed “esperienziali” (queste ultime corrispondono alle crisi parziali complesse della precedente classificazione).

Le crisi epilettiche focali originano a livello di aree specifiche della corteccia cerebrale dopo di che possono rimanere confinate a tali aree oppure diffondere ad altre zone. Le manifestazioni cliniche delle crisi sono correlate all’area della corteccia da cui la scarica epilettica è originata, all’entità della propagazione e alla sua durata (32).

Fin dalle prime osservazioni di Hughlings-Jackson (40), è noto che una attività epilettica focale può generare nel paziente fenomeni mentali a contenuto esperienziale. Tipicamente, tali fenomeni si verificano all’inizio della crisi comiziale e vanno a costituire l’aura epilettica del paziente. Le manifestazioni esperienziali che si verificano nel corso di una crisi epilettica spesso coinvolgono le modalità sensoriali visive e uditive nella forma di illusioni oppure allucinazioni (41). In quest’ultimo caso i pazienti possono assistere a una scena complessa, riconoscere un volto, udire una voce o una sequenza musicale. Solitamente il contenuto di queste allucinazioni presenta dei connotati familiari al paziente, anche se egli non sempre è in grado di identificare ciò che percepisce. Le allucinazioni di tipo olfattivo e gustativo sono meno comuni. Si possono verificare anche dei fenomeni mnesici, soprattutto nelle crisi a partenza dal lobo temporale. Il paziente può avere l’esperienza di rievocare un evento passato, in modo più coinvolgente ed intrusivo rispetto ad un normale ricordo, oppure può provare una sensazione di riconoscimento e di familiarità. Se la sensazione di familiarità si presenta isolata da un contenuto, essa viene erroneamente correlata al momento presente, creando l’illusione che il presente sia una riproposizione di una situazione passata (stati dissociativi: déjà vu, jamais vu). La Figura 3 rappresenta graficamente lo stato di coscienza di un paziente in corso di crisi focale di tipo esperienziale.

Si deve al neurochirurgo Wilder Penfield l’importante scoperta che è possibile riprodurre questi fenomeni mentali attraverso la stimolazione elettrica del lobo temporale in pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia dell’epilessia (42).

Oggi è noto che i fenomeni psichici o esperienziali che coinvolgono i processi percettivi, mnesici ed affettivi vengono evocati dall’attività epilettica del lobo temporale e dalla stimolazione delle medesime aree corticali. Tutti questi fenomeni, benché possano manifestarsi in modi assai diversi tra loro, sono caratterizzati dal fatto che l’esperienza soggettiva viene vissuta dal paziente con grande coinvolgimento e partecipazione emotiva. Ciò non si verifica quando vengono stimolate aree come la corteccia motoria o la corteccia sensitiva primaria. Le prime descrizioni di questi fenomeni furono condotte in seguito alla stimolazione della neocorteccia del lobo temporale, tuttavia studi successivi (43) hanno dimostrato che la loro frequenza è massima quando vengono stimolate le strutture che fanno parte del sistema limbico, in particolare l’amigdala. Gloor (37) ha proposto un modello in base al quale i fenomeni esperienziali originano da una attivazione locale delle strutture del sistema limbico, che sono a loro volta connesse ad una rete neuronale diffusa, comprendente le aree associative della corteccia sensoriale.

È importante sottolineare il fatto che la componente affettiva dei fenomeni esperienziali può associarsi ad allucinazioni percettive e alla rievocazione di ricordi personali oppure può presentarsi in modo isolato, ovvero senza un contesto di riferimento. In quest’ultimo caso si potrebbe affermare che si tratta di “qualia” di tipo epilettico. “Qualia” è il plurale del latino “quale”, termine tecnico introdotto per la prima volta in filosofia da Clarence Lewis nel 1929 per indicare il carattere soggettivo dei fenomeni esperienziali (44). Ad esempio, il “quale” della percezione visiva di una rosa consiste nell’esperienza soggettiva del colore rosso, il “quale” della percezione olfattiva di una rosa consiste nell’esperienza soggettiva della fragranza del suo profumo. Di conseguenza, durante alcuni tipi di crisi del lobo temporale, i pazienti si troverebbero nella condizione di “sentire” il rosso della rosa in assenza sia dell’oggetto fisico (il fiore) che della sua immagine o rappresentazione mentale (come accade nelle allucinazioni visive). Molti neuroscienziati, tra cui il Premio Nobel Gerald Edelman (45), sostengono che sia possibile individuare il correlato neurale di questi fenomeni, fino ad ora oggetto della sola speculazione filosofica (46). L’analisi del pattern di attivazione corticale in corso di crisi epilettica può indirizzarci verso la sede biologica degli stati qualitativi della coscienza di carattere soggettivo, fino ad ora accessibili unicamente attraverso l’introspezione (47).

In realtà, non si tratterebbe di esperienze di raro riscontro. Infatti circa 1/3 dei pazienti con crisi parziali complesse presenta delle manifestazioni affettive con sintomi di tipo ansioso in corso di aura epilettica. Tale paura ictale consiste in una sensazione inspiegabile di terrore o panico, descritta dal paziente come innaturale (48). Anch’essa, oltre che in associazione ad allucinazioni (sia di tipo visivo che uditivo), a fenomeni autonomici (parestesie, tachicardia e sudorazione) e ad automatismi (solitamente di tipo oroalimentare), si può manifestare come fenomeno esperienziale isolato, “quale”. Numerose altre manifestazioni esperienziali possono insorgere come manifestazioni ictali tipiche delle crisi parziali complesse: le sensazioni soggettive elementari di gioia, euforia, eccitazione sessuale o estasi di tipo mistico sono alcuni tra gli esempi più spesso riportati in letteratura.

La descrizione più celebre – e indubbiamente più efficace – di una sensazione di estasi sperimentata in occasione di una crisi comiziale si deve alla penna dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij, che soffrì di epilessia nel corso di tutta la vita. Dostoevskij immortalò nelle pagine del romanzo “L’idiota” gli stati esperienziali da lui provati in concomitanza con l’aura che precedeva le crisi convulsive vere e proprie:

“… Il suo cervello pareva a tratti infiammarsi e tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con impeto eccezionale. Il senso della vita, dell’autocoscienza si decuplicava quasi in quegli istanti, rapidi come lampi. La mente e il cuore s’illuminavano di una luce straordinaria: tutte le ansie, tutte le inquietudini, tutti i dubbi sembravano placarsi all’improvviso e risolversi in una calma suprema, piena di limpida, armoniosa gioia e speranza, piena d’intelligenza e pregna di finalità […] Quegli istanti altro non erano che uno straordinario intensificarsi dell’autocoscienza …” (49).

Nello stato di male parziale complesso di origine temporale, noto anche come stato psicomotorio, si possono riscontrare i medesimi sintomi psichici, caratterizzati da forti connotati di tipo affettivo, spesso in associazione con automatismi buccali, di vestizione e mutismo (50). Dal punto di vista clinico, lo stato psicomotorio consiste in episodi confusionali oscillanti che si accompagnano a crisi parziali complesse ricorrenti. Durante queste crisi possono verificarsi anche altri tipi di alterazioni dello stato di coscienza, che hanno attirato l’attenzione degli studiosi della mente.

Il filosofo statunitense John Searle (51), analizzando le funzioni della coscienza, cita la descrizione di Penfield di pazienti affetti da epilessia del lobo temporale, che pur essendo “assolutamente privi di coscienza” continuano a svolgere le attività intraprese prima dell’inizio della crisi: camminare, guidare l’automobile, persino suonare il pianoforte. Tuttavia, queste azioni vengono svolte “in modo automatico” e “senza creatività alcuna”. Searle riporta l’esempio di un paziente che, durante uno stato di male parziale complesso del lobo temporale, cammina in una strada affollata, facendosi largo tra la gente: egli è vigile, è in grado di evitare gli ostacoli (altri passanti, gradini, semafori) e procede verso una direzione. Tuttavia questo soggetto non “riconosce” nulla, ovvero non prova alcuna sensazione soggettiva alla vista degli stimoli che incontra lungo il suo percorso, non saprebbe affrontare una situazione imprevista e spesso non “sa” neppure dove sta andando. Searle conclude che non è corretto affermare che il paziente si trova in uno stato di totale assenza di coscienza; piuttosto, a fronte di un minimo livello di vigilanza, la crisi ha eclissato la “coscienza fenomenica” del soggetto, l’insieme delle esperienze qualitative (“qualia”) che normalmente colorano la sua vita mentale (Fig. 4). Secondo Searle sarebbe la mancanza di questa coscienza fenomenica a togliere flessibilità e creatività alle sue azioni, riducendolo a una sorta di sofisticato automa (il filosofo della mente David Chalmers utilizza il termine di “zombie” filosofico (15)).

Una situazione simile, ma del tutto volontaria e reversibile, è quella che si verifica, ad esempio, “quando siamo alla guida di un’automobile e concentriamo la nostra attenzione sulla conversazione che stiamo tenendo con il passeggero, anziché sui dettagli della strada e sul traffico. È come se inserissimo il pilota automatico. Anche se non stiamo prestando molta attenzione alla strada e alle altre vetture, non è corretto dire che non siamo affatto coscienti di questi fenomeni. Se così fosse, provocheremmo un incidente stradale” (52).

Gloor (41) ha suggerito che lo stato di non rispondenza presentato dai pazienti durante certi episodi di natura ictale possa essere causato da una mancanza di attenzione selettiva: la crisi comiziale genera una esperienza soggettiva totalizzante, che “sequestra” l’attenzione del paziente, privandolo della capacità di rispondere agli stimoli esterni. Gloor cita il caso un paziente che, durante la stimolazione dell’amigdala di destra, aveva vissuto un’esperienza allucinatoria con estrema partecipazione emotiva. Lo stesso fenomeno si verificava nel corso delle sue crisi spontanee. Per tutta la durata della stimolazione il paziente non era stato in grado di rispondere adeguatamente alle domande dell’esaminatore, con l’eccezione di una risposta di soprassalto in seguito a una stimolazione sonora molto intensa. Al termine dell’esperimento, il paziente presentava un ricordo completo dell’interrogazione dell’esaminatore, malgrado lo stato ictale di non rispondenza. Quando gli fu chiesto come non avesse risposto alle domande, il paziente rispose “Perché mi trovavo di là”, riferendosi alla sua completa partecipazione nell’esperienza allucinatoria.

In un recente studio di fenomenologia ictale condotto mediante 40 accurate decrizioni di crisi parziali complesse, Johanson et al. (53) hanno rilevato che la compromissione del controllo volontario dell’attenzione (“forced attention”) accompagna nella pressoché totalità dei casi la comparsa dei fenomeni esperienziali caratteristici di queste crisi. L’orizzonte attentivo si restringe e la sua direzione viene forzatamente catturata dalla “calamita emozionale” delle esperienze soggettive provate dal paziente. Gli autori denunciano una scarsa considerazione per il fenomeno nella letteratura precedente e ipotizzano che alla base del fenomeno ci possa essere la propagazione della patologica attivazione elettrofisiologica comiziale: essa causerebbe una temporanea interruzione delle vie prefrontali coinvolte nel controllo volontario dell’attenzione e del comportamento. L’ipotesi secondo cui la propagazione della scarica epilettica alla corteccia del lobo prefrontale è in grado di interrompere i circuiti anteriori – e di conseguenza di inibire i processi attentivi volontari – era già stata avanzata da Goode et al. (54).

Episodi analoghi sono stati descritti da Penfield (55) in una serie di pazienti in corso di crisi spontanee e durante stimolazione del lobo temporale. Anche Penfield classificò questi fenomeni di natura esperienziale come allucinazioni, il cui contenuto era determinato dai ricordi personali dei pazienti. Essi riferivano di provare esperienze decisamente più vivide e coinvolgenti rispetto al semplice richiamo alla memoria di un ricordo. Nonostante la loro partecipazione emotiva fosse totalmente assorbita dalle manifestazioni allucinatorie, in qualche modo i pazienti rimanevano per tutto il tempo coscienti dell’ambiente circostante. Penfield ne dedusse che i pazienti presentavano contemporaneamente due “flussi di coscienza” (“streams of consciousness”) separati.

Questi casi dimostrano che esperienze soggettive particolarmente intense, insorte spontaneamente o in seguito alla stimolazione di precise aree corticali, possono occupare la coscienza di un paziente contemporaneamente agli eventi del presente. Tali esperienze possono catturare completamente l’attenzione del paziente, privandolo della capacità di rispondere agli stimoli ambientali. È come se il paziente dovesse scegliere quale flusso di coscienza seguire.

È interessante notare che in precedenza anche Hughlings-Jackson era giunto alla conclusione che le crisi epilettiche a origine dal lobo temporale mesiale determinassero uno “sdoppiamento” dello stato di coscienza (“double consciousness”). Nel 1876 egli per primo descrisse come “stato sognante” (“dreamy state”) questo tipo di crisi (56). Nelle parole di Hughlings-Jackson lo “stato sognante” è uno stato mentale amplificato (“voluminous mental state”; “over-consciousness”), associato a sintomi definiti come sensazioni grezze (“crude sensations”) e ad automatismi oroalimentari, oppure isolato.

Gli automatismi psicomotori associati alle crisi parziali complesse sono pattern comportamentali complessi, ripetitivi e stereotipati, alla cui base potrebbero esistere diversi meccanismi (34). L’ipotesi più verosimile è che gli automatismi siano la conseguenza del rilascio di stimoli a compiere azioni precodificate e relativamente indipendenti dal controllo volontario cosciente, come si deduce dalle sequenze comportamentali (l’atto del bere, del masticare) ben consolidate ed abituali, eseguite da pazienti in stato di non rispondenza (57).

In sintesi, lo spettro variegato delle alterazioni dello stato coscienza dipende dalla localizzazione e dalla propagazione della scarica epilettica. In generale, più l’attività elettrica patologica è diffusa, maggiore è la probabilità che il paziente manifesti una diminuzione del livello di coscienza. Quando invece l’attività epilettica è confinata a un’area localizzata, prima della eventuale generalizzazione, la natura del disturbo della coscienza dipenderà dalla funzione propria dell’area corticale coinvolta. L’attivazione delle strutture del sistema limbico è responsabile della componente affettiva dei fenomeni esperienziali (“qualia” emozionali).

Conclusioni

È stato dimostrato che tanto il livello generale quanto i contenuti specifici dello stato di coscienza vanno incontro a notevoli modificazioni durante le crisi epilettiche del lobo temporale. Pertanto, la descrizione di tali alterazioni in termini di una uniforme “perdita di coscienza” o di vaghe “alterazioni della coscienza”, senza precisare quali aspetti sono alterati e in quale misura, costituisce un fraintendimento, oltre che una eccessiva semplificazione. È necessario proporre delle adeguate metodologie di tipo qualitativo per analizzare gli aspetti psicologici soggettivi delle manifestazioni comiziali nella loro complessità. Qualora venisse inclusa nell’esame neuropsicologico standard dei pazienti affetti da epilessia, l’analisi sistematica di tali fenomeni esperienziali potrebbe aiutarci a comprendere come lo stato di coscienza dei pazienti possa variare in risposta a diversi fattori, come la gravità della patologia, la velocità di propagazione della scarica epilettica, il coinvolgimento di entrambi gli emisferi cerebrali, il tipo e il dosaggio della terapia farmacologica. Essa costituirebbe inoltre un prezioso strumento per raggiungere una migliore comprensione del fenomeno ictale per come viene percepito dalla prospettiva del paziente.

Una migliore comprensione delle alterazioni dello stato di coscienza indotte dall’epilessia può consentire, indirettamente, di comprendere meglio anche gli eventi che accadono a livello dei meccanismi neurobiologici di base e che sono direttamente responsabili dell’esperienza soggettiva. Con espressione più metaforica, potremmo qui anche noi, in accordo con Hughlings-Jackson, confermare l’ipotesi (non del tutto così stupefacente) che l’epilessia costituisca una vera e propria finestra privilegiata sull’anima.

Tab. I. Principali livelli fisiopatologici dello stato di coscienza e classi farmacologiche in grado di indurre il passaggio da un livello all�altro. Principal levels of pathophysiology of the states of consciousness and drug classes able to induce the switch from one level to another.

Livello di coscienza:

Classe farmacologica:

Eccitazione

Psicostimolanti

Veglia

(stato normale)

Sopore

Tranquillanti minori

Sonno

Sedativi-ipnotici

Coma/stati vegetativi /anestesia

Anestetici

Fig. 1. Modello bidimensionale della coscienza. I punti indicano varianti fisiologiche dello stato di coscienza in un soggetto sano, in stato di veglia. Bidimensional model of consciousness. Points show physiological variants of states of consciousness in a healthy subject durino the waking state.

Fig. 2. Modello bidimensionale della perdita di coscienza in corso di crisi epilettica di tipo generalizzato. Bidimensional model of loss of consciousness during generalized epileptic seizures.

Fig. 3. Modello bidimensionale delle possibili alterazioni dello stato di coscienza in corso di crisi focale di tipo esperienziale. Bidimensional model of possibile changes of the state of consciousness during experiential focal seizures.

Fig. 4. Modello bidimensionale delle possibili alterazioni dello stato di coscienza in paziente con stato di male parziale complesso del lobo temporale. Bidimensional model of possibile changes of the state of consciousness in a patient with partial complex gran mal of the temporal lobe

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