Coscienza e psicopatologia

Consciousness and psychopathology

B. Forti, E. Aguglia*

Dipartimento di Salute Mentale, A.S.S. 6 "Friuli Occidentale", Pordenone * Direttore U.C.O. di Clinica Psichiatrica, Università di Trieste

Parole chiave: Coscienza • Problema mente-corpo • Psicopatologia • Neuroscienze • Filosofia della mente
Key words: Consciousness • Mind-body problem • Psychopathology • Neuroscience • Philosophy of mind

Introduzione

La coscienza appare sempre più come l’ultima frontiera lungo il percorso che dovrebbe portarci a svelare i segreti della mente umana, e negli ultimi anni l’interesse su questo argomento si è fatto sempre più intenso. Generalmente la ricerca si svolge ad un livello ampiamente interdisciplinare, coinvolgendo le neuroscienze, l’evoluzionismo, la filosofia della mente, la scienza cognitiva, l’intelligenza artificiale ed altri settori di ricerca. Stranamente, la psichiatria è rimasta ai margini di questo dibattito, come se l’argomento fosse di relativo interesse per una disciplina che si rivolge primariamente ad un ambito patologico. Eppure, molte alterazioni psichiche hanno strettamente a che fare con il livello cosciente, dalle alterazioni del livello di coscienza alle ossessioni, dai disturbi dell’esperienza del sé alla dissociazione. Vi sono comunque ragioni ancor più profonde perché la psichiatria non rimanga estranea ad un ambito di interesse che si sta espandendo con una velocità impensabile fino a pochi anni fa. Queste ragioni si rifanno alla natura stessa dell’approccio psicopatologico, ed al collegamento fra questo livello di conoscenza ed i livelli attinenti all’ambito neurobiologico.

In primo luogo, non possiamo dimenticare che la psicopatologia deriva dalla fenomenologia: i “dati” della psicopatologia sono di natura prettamente fenomenica, provengono principalmente dalle esperienze coscienti degli individui e non possono non essere influenzati dal ruolo e dalle funzioni della coscienza. Nel caso dei sintomi psicopatologi, la coscienza non può essere considerata solo il mezzo, come nel caso del dolore fisico, attraverso cui veniamo a conoscenza che una certa disfunzione sta avvenendo nel corpo, ma anche il luogo dove qualcosa di disfunzionante sta accadendo, e loro manifestazioni fenomeniche sono espressione diretta del funzionamento, o del disfunzionamento, dell'”organo” coscienza. Inoltre, il rilevamento di questi dati coinvolge la coscienza dello stesso rilevatore non solo in veste di osservatore, ma anche per le attitudini di empatia, immedesimazione e comprensione richieste dal processo di raccolta del dato.

In secondo luogo, nonostante i rilevanti progressi degli ultimi decenni, relativi soprattutto all’ambito patologico, la psichiatria non diverrà una disciplina matura fino a che non potrà far riferimento ad una sistematica “fisiologia” del funzionamento mentale normale. Le conoscenze sul diabete verrebbero considerate alquanto inadeguate se dovessero limitarsi alla clinica e all’efficacia terapeutica dell’insulina, senza che conoscessimo il suo ruolo nel metabolismo intermedio dei carboidrati. Tuttavia, perché questo sia possibile, è necessaria una teoria della mente, e a monte di questa una teoria della coscienza, che possa essere almeno sufficientemente delineata, e siamo ancora ben lontani dal raggiungere questo obiettivo.

Infine, una teoria sulla coscienza è un requisito indispensabile per colmare il divario fra le conoscenze e i modelli che si rifanno ad un ambito fenomenico-psicologico e quelli che si rifanno ad un ambito biologico-neurofisiologico, in altre parole per affrontare il problema del rapporto fra mente e corpo. Non si tratta di un problema esclusivamente filosofico. Nonostante il progredire delle nostre conoscenze sul funzionamento cerebrale, sull’azione degli psicofarmaci e sui correlati neuronali delle alterazioni mentali, non riusciremo a comprendere fino in fondo la mente, integrando i dati di cui disponiamo in una prospettiva unitaria, fino a che non ci addentreremo in tale questione.

L’approccio scientifico alla coscienza

Da quando Freud (1) introdusse in maniera sistematica il concetto di inconscio nell’organizzazione psichica, la nozione di processualità inconscia andò allargandosi sempre più, soprattutto nell’ambito della cosiddetta scienza cognitiva (2) ,fino a coinvolgere le attività mentali più elevate e a far ritenere che i processi cognitivi siano completamente inconsci (3) .Quanto sappiamo al giorno d’oggi sulla mente è riferibile a meccanismi non coscienti, sia seriali che paralleli, e si inserisce nel framework dell’Human Information Processing (4) ,compatibile sia con il funzionamento di un processore neuronale che di quelli artificiali. Dai tempi di Freud la situazione si è in qualche modo rovesciata: la scienza della mente contemporanea non ha alcuna difficoltà a riconoscere l’esistenza di stati psichici inconsci in quanto “computazioni” del sistema nervoso, ma al progresso della conoscenza delle basi neurobiologiche della coscienza e allo sviluppo dei modelli cognitivi non corrisponde alcun progresso della questione centrale del perché “faccia un certo effetto” essere coscienti (5) ,tanto che la coscienza è divenuta, molto più dell’inconscio, l’effettivo mistero da svelare (6,7) .

L’enorme difficoltà nell’affrontare la questione della coscienza si riflette già nella definizione (8) ,dove è pressoché impossibile andare al di là di definizioni circolari o tautologiche (9,10) .Questa difficoltà si ripercuote anche sulla scelta dell’ambito di ricerca. Uno degli errori più comuni è quello di far coincidere coscienza con autocoscienza (11) ,quando sappiamo che “per essere coscienti è sufficiente essere consapevoli del mondo esterno” (8) .Una posizione simile è quella che accosta la conoscenza esplicita all’elaborazione simbolica, al linguaggio o al monitoraggio interno di un’attività che negli organismi più evoluti è sempre più interposta fra input e output (12-15) .Tuttavia, l’esperienza fenomenica più vivida e dettagliata è proprio quella a stretto contatto con le afferenze esterne, ed è altrettanto evidente, come dimostrano anche alcuni casi neurologici (16) ,che la coscienza può manifestarsi in assenza completa di linguaggio.

Una delle teorie più accreditate negli ultimi anni è quella che affronta il problema del binding. È molto difficile che le connessioni cerebrali possano garantire quell’unitarietà fra modalità e submodalità diverse che si realizza nella percezione cosciente di un oggetto. Secondo l’ipotesi proposta da Crick e Koch (17) e ripresa da numerosi ricercatori (18) ,il collegamento fra diversi pattern corticali di attivazione sarebbe dato da scariche di oscillazione sincrone, a cui il cervello attribuirebbe significato informazionale (19) .Un modello alternativo a questo, ma che cerca di affrontare anch’esso il problema dell’unità della coscienza, si deve a Penrose (20) ,secondo cui l’ambiente all’interno dei microtubuli che costituiscono il citoscheletro delle cellule sarebbe sufficientemente isolato da poter garantire un’oscillazione quantistica che abbia un effetto non locale e tale da estendersi ad ampie zone del cervello. L’idea di un legame fra meccanica quantistica e consapevolezza ha dato origine a un filone di ricerca che considera la fisica tradizionale insufficiente a far fronte al problema della coscienza (21,22) .

Tradizionalmente un oggetto di interesse, in particolar modo per i neurofisiologi, è la ricerca del possibile substrato neuronale della coscienza (23) .Dennet e Kinsbourne (24,25) ,con la metafora del Teatro Cartesiano, hanno criticato l’idea del luogo dove convergono tutte le rappresentazioni, e propongono che un contenuto divenga conscio se e quando viene a far parte di un’attività temporaneamente dominante nella corteccia cerebrale, il cosiddetto “focus dominante” (26) ,nozione questa strettamente correlata alla funzione attentiva (27,28) .L’interesse viene prevalentemente rivolto alle aree cerebrali coinvolte in aspetti particolari del funzionamento cosciente (29) ,come la visione (30) ,l’immaginazione visiva (31) o il posponimento della risposta (32) .Tuttavia, se nella maggior parte delle lesioni la coscienza rimane inalterata pur venendo privata di contenuti specifici, lesioni molto circoscritte che interessino i nuclei intralaminari del talamo sono associate a perdita di coscienza (33) .Attualmente, l’idea prevalente è che il substrato della coscienza sia diffuso, con l’esistenza di molteplici centri implicati (34) .I dati neuropsicologici (specie nei casi di neglect, visione cieca ed agnosia), le osservazioni sulla microcognizione nei soggetti normali e l’importanza del parallelismo nell’organizzazione cerebrale starebbero ad indicare che la coscienza abbia aspetti modulari (35-37,29) ,anche se rimane aperto il problema dell’integrazione degli elementi in un assieme unitario (38) .

Una funzione attribuita alla coscienza sarebbe proprio quella di integrare fra loro processi diversi e informazioni catturate da diversi circuiti neuronali (39-41) .Noi percepiamo gli oggetti come un tutto integrato, e le sequenze di eventi sembrano formare un flusso fenomenico coerente, e quindi una funzione della coscienza potrebbe essere la disseminazione dell’informazione, un processo attentivo che consente al cervello di rispondere in maniera integrata alle informazioni preselezionate e più pertinenti (42,43) .L’assenza della disseminazione dell’informazione produrrebbe delle dissociazioni nel funzionamento, come nella visione cieca, in cui una parte è in grado di compiere discriminazioni visive, ma il sistema nel suo complesso non sa di saperlo.

Alcuni autori pongono l’accento sul problema del controllo e della metacognizione, proponendo sistemi operativi di alto livello, o processori centrali, che possano controllare l’attività cerebrale e garantire la sua unitarietà (44) .Uno dei modelli più noti è quello di Johnson-Laird (45,46) ,basato su tre assunzioni principali: l’architettura computazionale della mente consiste in una gerarchia di processori paralleli; il processore all’apice della gerarchia è la fonte dell’esperienza conscia; questo processore, il sistema operativo, ha accesso a un modello del sé. Un indizio in questo senso è fornito dagli studi sulla dissociazione fra conoscenza implicita e conoscenza esplicita. I pazienti amnesici, pur mantenendo rilevanti capacità di apprendimento, perdono la capacità di sapere di possedere tali capacità. Di conseguenza, la coscienza sarebbe resa possibile dalla costruzione di metarappresentazioni, cioè di pensieri sui propri pensieri, che renderebbero il soggetto capace di produrre un commento sulle proprie azioni interne o esterne (47) .

Del resto, uno dei problemi principali è proprio quello di conciliare i diversi aspetti strutturali e funzionali. Lo stesso Kinsbourne (48) afferma che le operazioni mentali selettivamente isolate sono automatiche e al di fuori della consapevolezza, mentre quelle coordinate con le altre operazioni mentali contribuirebbero al “campo integrativo della consapevolezza”. L’attributo della consapevolezza sarebbe proprio la contestualità, cioè la capacità di relazionarsi con altri contenuti simultaneamente rappresentati; allo stesso tempo, tali contenuti si integrerebbero nel focus dominante (26,49) .Nell’ambito della funzione talamica, le cellule parvalbuminiche formerebbero la base per la percezione sensoriale, mentre le cellule calbandiniche, diffuse a matrice in tutto il talamo, sarebbero correlate a quel coinvolgimento dei nuclei talamici e di aree corticali multiple, con cui il talamo è riccamente interconnesso, che è essenziale per collegare i molteplici aspetti dell’esperienza sensoriale in un’unica struttura cosciente (50,51) .Il talamo fungerebbe così da fulcro per il quale ogni zona del cervello può comunicare con un’altra. Secondo Baars (52,53) ,la coscienza implica che uno o più processori inconsci specializzati trasmettano l’informazione ad un Global Workspace, il quale a sua volta la rimanda e la distribuisce a tutto il sistema.

Edelman (54,55) enumera una serie di requisiti perché la coscienza primaria possa aver luogo: la capacità di eseguire categorizzazioni percettuali sulla base di azioni e di un insieme abbastanza ricco di canali sensoriali paralleli di modalità diverse, la memoria come processo di continua ricategorizzazione derivante dall’interazione fra sistema talamo-corticale e sistema troncoencefalico-limbico, che consentirebbe la registrazione di “associazioni valore-categoria”, un circuito rientrante particolare che permetta uno scambio ininterrotto fra la memoria di associazioni valore-categoria e le mappe globali, in maniera da collegare gli eventi percettivi riunendoli in una scena, e la discriminazione fra sé e non sé come funzione strutturalmente intrinseca.

Il problema “filosofico”

Anche se alcune delle ipotesi esposte fino ad ora fossero vere, è molto probabile che il problema della coscienza rimarrebbe ben lontano dall’essere risolto. Aspetti come il controllo dell’azione, l’unitarietà e l’integrazione sono indubbiamente correlati alla coscienza, ma sono in egual misura dei requisiti necessari per qualsiasi processore, non necessariamente cosciente, dotato di un certo livello di complessità. La stessa nozione di autocoscienza, qualora venga letta nei termini di autoreferenzialità, può appartenere a qualsivoglia elaboratore di informazioni (56) .E non è un problema esclusivamente teorico. Se dovessimo progettare un automa capace di pattern comportamentali integrati e di un’adeguata responsività all’ambiente, dovremmo tener presenti proprio questo tipo di esigenze, tanto che l’esperimento mentale degli zombie (57,58) suppone l’esistenza di automi privi di coscienza, ma assolutamente indistinguibili da un essere umano, anche nella capacità di riportare esperienze interiori.

Né il focus dominante né la contestualità spiegano perché certe esperienze sono coscienti e certe no (59) .Assumere il controllo dell’azione non è condizione sufficiente perché un processo mentale sia cosciente (60) ,e le ipotesi sulla sincronizzazione possono spiegare il problema del collegamento, ma non che cosa si prova a vedere qualcosa come rossa, quadrata o che si muove verso destra (9) .In generale, teorie di questo genere sembrano lasciare il problema di base, cioè il legame teoretico fra esperienza conscia e substrato neurale del cervello, irrisolto (61) .Una ragione per questo può essere dovuta alla distinzione, evidenziata da Block (9) ,fra coscienza d’accesso e coscienza fenomenica. La prima definisce stati le cui rappresentazioni sono inferenzialmente promiscue, sono cioè disponibili per essere usate nel ragionamento, nel controllo razionale dell’azione e del linguaggio, la seconda può essere solo grossolanamente indicata attraverso dei sinonimi come “esperienza” o “cosa si prova ad essere in un particolare stato”. Molti confonderebbero la coscienza d’accesso con la coscienza fenomenica, attribuendo quella che è un’ovvia funzione della prima alla seconda. Anche nell’ambito dei meccanismi emozionali normali e patologici, le conoscenze sui principali modulatori cerebrali sono riferibili a processi di controllo che non prevedono necessariamente la consapevolezza, e i processi di valutazione legati alle emozioni vengono considerati sostanzialmente inconsci (62) .Le stesse tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale non sono in grado di distinguere fra processi coscienti e processi cerebrali non coscienti.

Quali sono allora le proprietà specifiche della coscienza? Tradizionalmente sono state evidenziate l’intenzionalità (63) ,per cui il carattere distintivo dell’attività mentale si individuerebbe nel rivolgersi a qualcosa di esterno ad essa, la mutevolezza (64) ,il rapporto fra primo piano e sfondo (65,66) ,il contenuto (67) .L’esperimento mentale riguardante “cosa si prova ad essere un pipistrello” (68) ha riportato in primo piano il problema della soggettività, e in ogni caso la coscienza sembra necessitare di un punto di vista (69) .Un altro esperimento mentale, quello della scatola cinese (70) ,cerca di dimostrare come un processo elaborativo con caratteristiche computazionali tipiche dei computer o di una rete neurale presenti solo aspetti sintattici e sia privo di quel significato che caratterizza invece i processi coscienti. Ma la proprietà forse più importante è riconducibile alle qualità monadiche dell’esperienza fenomenica, o qualia (71-74) ,per cui “una cosa è fornire distinzioni neurologiche fra qualia – dire che un gruppo di neuroni è attivato dal blu, un altro dal salato, un altro dal dolore – ma tutt’altra cosa è spiegare in che modo la bluezza come tu o io ne proviamo l’esperienza viene fuori da ciò che i nostri cervelli stanno facendo (75) .Secondo Dennet (76) i qualia sarebbero ineffabili, intrinseci, o in qualche maniera semplici e non analizzabili, privati e direttamente accessibili alla coscienza di chi li rappresenta. La coscienza sembra quindi presentare aspetti vaghi e indistinti, per così dire poco “scientifici”, che appaiono molto difficili da formalizzare e da ridurre a un livello di analisi oggettiva.

Forse è per questo che Levine (77) parla di explanatory gap: per quanto profondamente esploriamo le strutture dei neuroni e le transazioni chimiche che avvengono quando essi scaricano, per quante informazioni obiettive acquisiamo, ci sarà sempre qualcosa che non possiamo spiegare, in particolar modo come e perché tali cambiamenti fisici ed oggettivi, di qualsivoglia natura possano essere, generino tali sensazioni soggettive, o qualsiasi tipo di sensazione soggettiva (78,79) .Si dirà che la coscienza in qualche modo “emerge” dall’attività cerebrale (80) .Searle (81) afferma che “la coscienza è una proprietà di alto livello, o emergente, del cervello nello stesso senso in cui la solidità è una proprietà emergente delle molecole di H2O quando assumono la struttura del ghiaccio. La coscienza è una proprietà mentale, e quindi fisica, del cervello, così come la liquidità è una proprietà di certe molecole”. Tuttavia, la proprietà delle cellule neuronali di interagire le une con le altre attivandosi o inibendosi reciprocamente non sembra tale da poter produrre, a qualsivoglia livello, un “effetto” fenomenico. Le conoscenze attuali sul sistema nervoso non riescono a spiegare la coscienza ed allo stesso tempo non sembrano dover far riferimento ad essa, come qualsiasi funzione che possa essere descritta in termini di elaborazione delle informazioni (43) .

Ma vi è un’ulteriore difficoltà. Anche se la neuroscienza attuale riuscisse a dar conto della coscienza, questa non potrebbe essere causalmente efficace (75) .Le teorie su come viene prodotta l’esperienza fenomenica sono più o meno esplicitamente epifenomeniche, in quanto la funzione viene garantita a livello del substrato cerebrale, l’agente causale della coscienza (82-84) .La coscienza fenomenica va distinta da ogni proprietà cognitiva, intenzionale o funzionale (7,9,85) ,e per Farber e Churchland (86) il concetto di quale, che ben rappresenta gli stati di coscienza, si riferisce a quelle sensazioni grezze di un’esperienza separate da qualsiasi effetto comportamentale o cognitivo che l’esperienza potrebbe avere. Le correlazioni fra l’esperienza cosciente di un soggetto e una certa attività cerebrale o l’azione di una sostanza psicoattiva risultano, nel migliore dei casi, epifenomeniche. Nel momento in cui cerchiamo di tradurre questi dati in chiave funzionale, è molto difficile farlo con una modalità che coinvolga, almeno in parte, la coscienza.

Tuttavia l’epifenomenismo è in contrasto con l’evoluzionismo, e in generale con un approccio naturalistico alla mente. La coscienza dovrebbe avere una funzione e quindi un effetto causale sul sistema neuronale in quanto esperienza fenomenica (67) .Essa è infatti un tratto manifesto degli organismi più evoluti, ed è naturale pensare che si sia selezionata in funzione di un qualche vantaggio adattativo (87,88) .Secondo Richards (89) “la mente deve essere più che un’escrezione del cervello: deve essere (almeno in alcuni aspetti) un processo efficace indipendentemente che è capace di controllare qualche attività del sistema nervoso centrale”.

Infine, la questione della soggettività. Il soggetto diviene, di fatto, homuncolare quando vengono attribuite ad esso tutte le funzioni che la scienza non è in grado di spiegare, come nel caso del Sistema Centrale di Fodor (90) .Oppure, nella maggioranza dei casi, viene scotomizzato e considerato, più o meno implicitamente, trascendente alla funzione, un “misterioso ‘essere che ha esperienze’ al di sopra del cervello” (75) .Non si tratta di una posizione filosofica, ma dell’idea prevalente del senso comune, che troppo spesso si trasferisce acriticamente all’approccio scientifico, per cui noi pensiamo di esistere autonomamente dal nostro cervello e dalle nostre rappresentazioni mentali. È un’idea talmente annidata in profondità da essere radicata, prima ancora che nelle nostre credenze, nella nostra struttura linguistica e concettuale, come quando affermiamo che in conseguenza di determinati processi cerebrali, di natura cognitiva o emozionale, noi siamo coscienti di un certo contenuto: il soggetto rimane invariabilmente al di fuori della spiegazione. Questo ci impedisce ad esempio di cogliere il carattere epifenomenico di tutte le teorie del substrato, in quanto siamo convinti che qualsiasi contenuto cosciente sia in funzione di noi che lo sperimentiamo, e di conseguenza di renderci conto dell’intrinseca assurdità della nozione stessa di substrato, che allude a qualcosa, di cui non c’è alcun corrispettivo in natura, che avrebbe la propria ragione d’essere esclusivamente al di fuori di se stessa.

Nei casi in cui ci si pone il problema, la soggettività diviene un ostacolo insormontabile per un approccio oggettivo, in quanto la coscienza, avendo un’ontologia in prima persona o soggettiva, non può essere ridotta a qualcosa che presenti un’ontologia in terza persona (6) .Oppure, si ritiene che per garantire la soggettività sia sufficiente rappresentare in qualche modo aspetti del soggetto (91) .Ma in questo modo non si risolve il problema di chi rappresenta tali rappresentazioni, del chi è ad essere cosciente (39) .

Non resterebbe che negare l’esistenza della coscienza. È una posizione storica (92) ,riproposta recentemente da autori come Dennet (25) e Churchland (93) ,che ha il vantaggio di proporre una soluzione ad un problema che, come abbiamo visto, sembra altrimenti difficilmente risolubile. Dennet rifiuta l’esistenza dei qualia, o sensazioni grezze, come proprietà residue e in qualche modo atomistiche, Churchland (94) afferma che contenuti coscienti come quello di un colore o di una faccia sono riducibili ad una certa posizione in uno spazio vettoriale, e che concetti come quello della coscienza non avranno più senso di esistere quando subentreranno spiegazioni più efficaci. Tuttavia anche questa posizione è difficilmente sostenibile. Alla fine Dennet afferma che la coscienza è illusoria, ma facendo così, cade nello stesso tranello da cui ci aveva già messo in guardia Descartes: nel caso della coscienza l’apparenza, anche se illusoria, coincide con la realtà (6,95) .

La realtà è che l’esistenza della coscienza mette in crisi la scienza odierna. Problemi come quello del significato, dell’intenzionalità, della soggettività, e di quella che sembra essere l’irriducibile qualità dei contenuti coscienti, appaiono difficilmente catturabili con gli strumenti conoscitivi di cui disponiamo, tanto che Bisiach (60) considera l’esperienza fenomenica di un soggetto in grado di percepire e rappresentare sostanzialmente inconoscibile da un punto di vista scientifico. Nonostante il rinnovato interesse intorno ad essa la coscienza resta, in larga parte, un mistero, e risulta quasi impossibile formulare delle ipotesi che siano, se non verificabili, quantomeno plausibili.

Conclusioni

Resta un mistero anche il motivo per cui, a parte poche eccezioni (96-98) la psichiatria rimane al di fuori del dibattito sulla coscienza, molto più dell’ambito neurologico (99-102,29) ,anche se è la disciplina che potrebbe trarre il maggior vantaggio da una teoria della mente organica e unificata.

Eppure, l’approccio psicopatologico potrebbe fornire un contributo rilevante allo studio della coscienza. In primo luogo, vi è una consuetudine con disturbi che coinvolgono gli aspetti più evoluti del funzionamento mentale e che interessano la persona in termini globali. Si tratta di livelli in cui l’integrazione richiesta per il mantenimento della coerenza e dell’unitarietà psichica è maggiore che in altri ambiti funzionali, e che appaiono intimamente legati alla presenza della coscienza. In secondo luogo, vi è una consuetudine con emozioni e affetti, l’aspetto più oscuro e meno obiettivabile della fisiologia della mente, dal cui chiarimento, soprattutto nei rapporti con il livello cosciente, potrebbe derivare un contributo importante per una teoria mentale unitaria. Ma, soprattutto, la psichiatria, più di ogni altra disciplina, implica una profonda attenzione al mondo fenomenico. In molti casi, sia quando una persona riferisce la propria esperienza, sia quando l’empatia diviene uno strumento di conoscenza fondamentale, la psicopatologia è di fatto una conoscenza in prima persona, ed è una concreta dimostrazione che lo studio di entità (fisiche?) condizionate nella loro misurazione dall’osservatore (103) è non solo possibile, ma nel caso della coscienza è un tramite indispensabile per giungere a quella conoscenza in terza persona che rappresenta un requisito obbligato di un approccio scientifico.

In conclusione, è auspicabile un aumento delle ricerche rivolte alla coscienza nei suoi risvolti sia strutturali che funzionali. Solo in questa maniera appare possibile colmare il divario fra livello biologico e livello psicologico, e innescare quell’interscambio reciproco fra funzionamento patologico e funzionamento normale che è indispensabile per avvicinarsi ad un’effettiva fisiopatologia del mentale. Il cammino verso la comprensione della coscienza è iniziato da poco più di una ventina di anni (104) e, pur se agli inizi, appare un percorso non più eludibile.

 Corrispondenza: dott. Bruno Forti, Dipartimento di Salute Mentale, via De Paoli 21, 33170 Pordenone – Tel. 0434 736234 – Fax 0434 736444.

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