Gli induttori del panico: una rassegna ragionata

Panic inducers: a critical review

F. Cosci, F. Rotella, G. Barbieri, L. Natrella, S. Gorini Amedei, R. Bitorzoli, C. Faravelli

Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche

Key words: Panic • Challenge • Sensitivity • Specificity
Correspondence: Prof. Carlo Faravelli, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Azienda Ospedaliera Careggi, viale Morgagni 85, 50134 Firenze, Italy , Tel. + 39 055 4298447, Fax + 39 055 4298424, E-mail: carlo.faravelli@unifi.it

Introduzione

Il disturbo di panico (PD) è caratterizzato dal susseguirsi di attacchi di panico spontanei, inaspettati caratterizzati da periodi di intensa paura e sconforto di durata relativamente breve, accompagnati da una serie di sintomi somatici o psicologici. In base a quanto definito dal DSM-IV (1), la diagnosi viene formulata dopo la comparsa di almeno quattro sintomi, che si sviluppano improvvisamente e raggiungono un apice in meno di 10 minuti.

Gli attacchi di panico inaspettati sono l’espressione tipica del disturbo di panico, ma purtroppo risultano molto difficili da studiare, dato che le informazioni in merito sono per lo più retrospettive e quindi soggettive.

Per questo motivo, lo studio sperimentale degli attacchi di panico ha reso necessario lo sviluppo di modelli di induzione degli attacchi in condizioni controllate di laboratorio, fenomeno questo che da un lato ha permesso la formulazione di ipotesi patogenetiche del disturbo e dall’altro ha aperto un dibattito sull’applicabilità, l’efficacia e l’eticità di questi metodi.

In generale esistono tre tipi di approcci per indurre il panico: quello farmacologico, quello fisiologico e quello psicologico.

L’approccio farmacologico fa riferimento a challenge che prevedono la somministrazione di agenti ansiogeni o che inducono una sindrome astinenziale da sospensione immediata di benzodiazepine, indotta mediante somministrazione di flumazenil, di alcool o di oppiodi.

I challenge che inducono il panico attraverso un meccanismo fisiologico agiscono essenzialmente sul sistema respiratorio. Il soffocamento è uno stimolo fortemente ansiogeno sia nell’uomo che nell’animale. Perciò la tecnica del “rebreathing”, l’inalazione continua di CO2 al 5% o la singola inalazione di CO2 al 35% sono responsabili di un incremento dei livelli di ansia.

I metodi di induzione del panico di tipo psicologico utilizzano principalmente l’approccio comportamentale e quello cognitivo. Nel primo caso si effettua la somministrazione di uno stimolo doloroso, l’induzione della paura del dolore o l’esposizione a stimoli fobici. Nel secondo, si sottopongono i soggetti con PD alla lettura di scritti che evocano le loro paure (ad esempio la paura di avere un attacco di cuore, di sudare, di morire).

In generale, i modelli di induzione del panico sono validi se soddisfano alcuni criteri fondamentali (2): 1) i sintomi dell’attacco di panico indotto devono mimare quelli dell’attacco di panico spontaneo; 2) la risposta al test deve essere specifica per i pazienti con disturbo di panico; 3) i farmaci clinicamente efficaci nella terapia del disturbo di panico devono ridurre la risposta al challenge; mentre i farmaci clinicamente inefficaci non devono modificare la risposta al challenge; 4) i risultati devono essere replicabili.

Fino ad oggi non è stato identificato nessun test specificatamente diagnostico per il disturbo di panico e, purtroppo, solo un modello ideale sembrerebbe poterli soddisfare tutti. Comunque, i modelli laboratoristici attualmente a disposizione corrispondono variamente ai criteri riportati, i più utilizzati e conosciuti sono il challenge con infusione di lattato, il test di provocazione con CO2 e il test con infusione di colecistochinina.

Nel presente lavoro è stata eseguita una revisione della letteratura tramite Medline per raccogliere tutti gli articoli pubblicati che avessero utilizzato i challenge precedentemente elencati. Le parole chiave per la ricerca sono state: “lactate infusion and panic”, “carbon dioxide and panic” e “cholecystokinin and panic”. Per poter essere prese in considerazione, le ricerche dovevano soddisfare i seguenti criteri: 1) induzione del panico senza somministrazione di altre sostanze capaci di modificare la risposta al challenge (ad esempio antidepressivi, benzodiazepine); 2) induzione del panico in condizioni che non modificano la risposta (ad esempio la deplezione di triptofano).

Inizialmente sono stati applicati anche i criteri: 3) somministrazione del challenge sia in pazienti con disturbo di panico che in volontari sani; 4) somministrazione dell’induttore del panico e di placebo secondo disegno di cross over o a gruppi paralleli. I criteri 3 e 4 sono però stati abbandonati in quanto identificavano un numero troppo scarso di lavori e quindi non permettevano alcuna analisi critica della letteratura.

Dei 20 articoli censiti per il challenge con lattato solamente 13 rispondevano ai criteri prescelti. Dei 24 lavori relativi al challenge con CO2 e dei 17 relativi alla colecistochininna, rispettivamente 11 e 12 soddisfacevano i criteri elencati.

Sulla base dei dati desumibili dagli articoli abbiamo condotto una meta-analisi finalizzata a valutare sensibilità e specificità dei tre principali challenge.

La sensibilità esprime la percentuale di soggetti con storia di panico che hanno avuto una risposta al challenge, la specificità identifica la percentuale di soggetti senza storia di panico che non hanno risposto allo specifico test.

Sono poi state proposte considerazioni sui punti di forza e di debolezza, ma soprattutto sulla reale utilità e applicabilità di ciascun challenge.

Infusione di lattato

Pitts e McClure furono i primi a condurre uno studio in doppio cieco, placebo-controllo, assumendo che lo ione lattato fosse capace di indurre ansia nei soggetti predisposti. Poiché i sintomi dell’attacco di panico furono riportati da 13 soggetti con nevrosi d’ansia su 14, e solo da 2 controlli sani su 10, Pitts e McClure conclusero che si trattava del primo modello di induzione sperimentale di sintomi ansiosi in individui suscettibili (3). Studi successivi sono stati condotti per verificare la validità del metodo e introdurlo come modello di induzione del panico in laboratorio. La Tabella I riassume i risultati ottenuti dal confronto di soggetti con diagnosi di disturbo di panico con controlli sani. Tutti gli studi confermano che gli attacchi di panico prodotti in laboratorio sono assimilabili a quelli che i soggetti con diagnosi di PD avevano sperimentato nella vita reale.

Analizzando i risultati esposti in tabella, il challenge risulta essere specifico (184/190 = 0,968) e sufficientemente sensibile (284/445 = 0,638).

I principali limiti della metodica sono legati al rischio che l’infusione di lattato produca una risposta ansiosa così intensa da determinare l’interruzione del test. Questo fenomeno, peraltro non raro, introduce sia limitazioni metodologiche che questioni etiche. A quest’ultimo proposito, è opportuno tenere presente il rischio di includere tra i controlli persone predisposte al panico. In questo caso, vi è il rischio non trascurabile che il lattato possa slatentizzare forme subcliniche del disturbo trasformandole in quadri clinici conclamati. Dal punto di vista metodologico invece, l’eventuale interruzione del test implica dei drop out e pertanto il completamento dell’infusione soltanto in quei soggetti con una risposta ansiosa soggettiva e/o oggettiva presumibilmente meno intensa. Ci si chiede se tali soggetti sperimentino veramente un attacco di panico analogo a quello della vita reale.

Dall’altra parte, non sospendere l’infusione in caso di risposta intensa non sarebbe etico e pertanto non realizzabile.

Inalazione di anidride carbonica

Il possibile ruolo dell’iperventilazione nell’induzione del panico deriva dall’osservazione di una significativa ipocapnia nei pazienti sottoposti a infusione di lattato rispetto ai controlli. In base a ciò, Gorman et al. sottoposero un gruppo di pazienti a iperventilazione forzata di una miscela di aria minimamente ipercapnica (5% CO2) confrontandoli con soggetti sottoposti a inalazione continua. Inaspettatamente, l’eccesso di anidride carbonica, e non l’iperventilazione forzata, mostrarono un’azione panicogena (4). Nello stesso periodo la scuola olandese recuperò la vecchia procedura di inalazione di CO2 al 35% per verificarne l’acclamata proprietà ansiolitica (5). In realtà, la procedura si dimostrò ansiogenica (6) e ciò fece concludere che, nonostante i pazienti iperventilino nella vita reale così come in corso di panico indotto, l’ipocapnia non è né sufficiente né necessaria a scatenare gli attacchi di panico (7).

Parallelamente, fu dato inizio all’utilizzo dell’anidride carbonica come induttore dell’attacco di panico. Le metodiche oggi più utilizzate sono: 1) il test di provocazione con CO2 al 5 o 7%, caratterizzato dall’inalazione continua della miscela per 10-20 minuti; 2) il test di provocazione con CO2 al 35%, caratterizzato dalla singola inalazione di aria contenente il 35% di anidride carbonica. Entrambi i metodi utilizzano lo stesso agente provocativo e lo stesso meccanismo di induzione del panico. Gli effetti compaiono dopo pochi minuti dall’inizio dell’inalazione continua o dopo alcuni secondi dalla fine della singola inalazione e scompaiono in alcuni minuti dopo la sospensione dell’inalazione. I sintomi prodotti corrispondono alla maggior parte di quelli che si verificano nel corso di attacchi di panico sperimentati nella vita reale (8).

Valutare specificità e sensibilità della procedura è difficile a causa delle differenze metodologiche presenti fra studi condotti da gruppi di ricerca diversi (9). Oltre alle differenti concentrazioni di CO2 utilizzate infatti, le istruzioni che vengono date ai soggetti non sono standardizzate.

Una valutazione del solo test di provocazione con CO2 al 35% è più facile perché la maggior parte degli studi sono stati realizzati da due gruppi di ricerca che collaborano fra loro, introducendo quindi minime differenze metodologiche. In base a quanto riportato nella Tabella II il challenge risulta essere molto specifico (32/33, specificità = 0,970) e sensibile (43/61, sensibilità 0,705).

Volendo considerare anche i risultati relativi al test con CO2 al 5% e al 7% (Tab. III), pur con i limiti interpretativi esposti, possiamo affermare che il challenge è relativamente meno efficace in termini di specificità (117/129 = 0,907) e sensibilità (85/130 = 0,654).

Come già esposto, gli studi condotti utilizzando il test di provocazione con CO2 implicano una difficile comparabilità dei risultati a causa dei diversi metodi utilizzati. Sembra che la differenza non sia soltanto relativa alla concentrazione di CO2 utilizzata, ma più specificamente alle scale di valutazione, al setting, alle istruzioni fornite ai soggetti. Si tratta cioè di differenze metodologiche importanti sebbene non sempre così facilmente individuabili.

Un altro limite all’uso di questo challenge è legato al fatto che, sebbene venga riportato che gli attacchi di panico indotti riproducano la maggior parte dei sintomi dell’attacco spontaneo (8), in realtà i sintomi provocati con la somministrazione di CO2 mimano l’elevazione del livello di ansia dell’inizio dell’attacco di panico, senza arrivare a un vero e proprio attacco pieno.

Infine, l’uso di questa metodica a scopo di ricerca impone la necessità di sapere che cosa misurare e con quali strumenti. Ciò allo scopo di valutare la presenza/assenza di risposta al challenge e registrare variazioni significative. Di solito la risposta viene misurata con una Visual Analogue Anxiety Scale che descrive il grado di ansia soggettiva e la lista dei 13 sintomi del panico secondo il DSM-IV. Con questi strumenti viene sicuramente misurata la risposta ansiosa al challenge, ma l’ansia corrisponde esattamente al panico? Tale interrogativo introduce un dubbio sulla validità delle misurazioni effettuate, sebbene per il momento la comunità scientifica affermi che ansia e panico siano equivalenti.

Infusione di colecistochinina (CCK)

La prima evidenza dell’azione ansiogenica della colecistochinina nell’uomo risale allo studio di De Montigny (10), il quale osservò che la CCK4 induceva ansia nei volontari sani e che tale ansia era reversibile con la somministrazione di lorazepam. Studi successivi hanno confermato questi dati e verificato l’efficacia di questo induttore nei soggetti con disturbo di panico.

In realtà, a differenza di quanto si può notare dagli studi valutati per l’infusione di lattato o l’inalazione di CO2, in questo caso sono estremamente rari i lavori che confrontano i soggetti con PD con i controlli sani. Perciò, la rassegna della letteratura proposta prevede la comparazione di campioni di volontari sani e di campioni di pazienti ottenuti da studi differenti. Tale riscontro dei dati di letteratura sembra già mettere in evidenza un approfondimento minore degli effetti di questo metodo rispetto ai due precedenti.

Ciò nonostante, alcuni studi affermano che la risposta alla CCK distingue i volontari sani dai pazienti con disturbo di panico (11) e che induce attacchi di panico in condizioni controllate di laboratorio simili a quelli che i pazienti con PD sperimentano nella vita reale (12). È stato inoltre dimostrato che tali attacchi recedono dopo somministrazione di farmaci anti-panico, quali l’imipramina (13).

Sebbene tutto ciò mostri che il test di provocazione con CCK soddisfa parte dei criteri del modello teorico di induttore del panico in laboratorio, in realtà la questione è dibattuta. A fronte di Autori che dimostrano una diversa risposta al challenge dei volontari sani rispetto ai pazienti con PD, esistono report che non confermano il dato. In realtà, la capacità diagnostica del test non è attualmente universalmente riconosciuta.

A conferma di ciò, dalla Tabella IV si osserva che il challenge è efficace nell’indurre la sintomatologia ansiosa in misura pari ai due precedenti, è similmente sensibile (39/59 = 0,661), ma scarsamente specifico (46/114 = 0,404). Ulteriori considerazioni sono difficili da fare date le numerose differenze metodologiche fra gli studi analizzati, principalmente relative al metodo di somministrazione e alle dosi utilizzate.

Questa disomogeneità potrebbe essere spiegata osservando che, in letteratura, la modalità d’azione della colecistochinina e le ipotesi sul suo ruolo patogenetico nel disturbo di panico sono molto variegate (14)-(18). Sembrano pertanto necessari ulteriori approfondimenti per mettere a punto un metodo uniforme e per valutare meglio l’efficacia del challenge.

Conclusioni e proposte per il futuro

Sebbene l’infusione di lattato di sodio e la somministrazione di CO2 siano metodiche oggi conosciute e utilizzate, rimane il dubbio se l’attacco di panico indotto sperimentalmente sia dovuto realmente a modificazioni dirette provocate dall’agente induttore.

Altri possibili fattori responsabili dell’induzione del panico sono: 1) il setting laboratoristico, gli investigatori, gli assistenti, i macchinari utilizzati che possano causare o influenzare la risposta ansiosa; 2) i tratti fobici dei soggetti con PD, che possono aumentare la vulnerabilità al challenge; 3) i fattori cognitivi e quindi la manipolazione cognitiva, in quanto capaci di scatenare l’attacco di panico in condizioni non controllate e maggiormente in un setting laboratoristico.

Inoltre è stata formulata l’ipotesi che la risposta al challenge possa essere data dalla “misinterpretazione catastrofica” delle sensazioni fisiche indotte (19). A tale proposito esistono elementi a sfavore: a) alcuni attacchi di panico si verificano durante il sonno e non prevedono la partecipazione cognitiva del soggetto; b) il core sintomatologico del disturbo di panico non è dato dai sintomi periferici, infatti farmaci ad azione periferica come i beta-bloccanti sono poco efficaci nella cura del disturbo; c) farmaci ad azione centrale, quali FG7142, possono indurre gli attacchi di panico; d) molti pazienti hanno attacchi di panico senza la comparsa di pensieri negativi; e) l’ansia arriva prima della comparsa dei sintomi periferici (20).

Un altro possibile bias è che spesso i soggetti che accettano di partecipare allo studio sono affetti da forme meno gravi di patologia e perciò temono meno l’attacco di panico o le sue conseguenze. A tal proposito è interessante ricordare che quando il nostro gruppo ha utilizzato l’infusione di lattato, soltanto 10/17 dei soggetti con panico studiati è stato testato, mentre la restante parte si è rifiutata di partecipare allo studio o si è sentita male prima dell’inizio del test (all’ingresso in ospedale o durante la somministrazione di placebo) (21).

Se si considera che buona parte dei soggetti potenzialmente eligibili rifiuta preventivamente di partecipare al test, rimane il dubbio su quale possa essere la rappresentatività di campioni così selezionati.

La tendenza più recente è provocare in laboratorio attacchi non gravi e fermare l’esperimento nel momento in cui il soggetto comincia a stare male. Questo modus operandi, certamente corretto da un punto di vista etico, può rendere i risultati poco rappresentativi degli attacchi che si verificano nella vita reale dei pazienti. Paradossalmente, ciò che è cercato dai ricercatori (l’attacco di panico) è anche ciò che è da loro temuto, per le ripercussioni etiche che ne deriverebbero. In altre parole il challenge è calibrato per determinare un “sub-attacco”, la cui rappresentazione dell’attacco spontaneo può essere dubbia. Proprio considerando che la risposta prodotta in laboratorio è in genere più blanda di quanto si verifica nella realtà, recentemente sono state introdotte scale capaci di misurare l’ansia soggettiva e quella oggettiva in modo da quantificare la reazione allo stimolo sia in base ai segni e sintomi manifestati che in base al vissuto del soggetto.

In base a quanto esposto finora, risulta che i test di induzione del panico sono da considerare un presidio di ricerca; mentre il loro uso come strumenti diagnostici è ormai abbandonato in quanto non forniscono informazioni aggiuntive al clinico esperto. Alcuni autori sostengono la loro importanza per la diagnosi differenziale con sintomi somatici di natura non chiara o che simulano quadri organici quali l’attacco cardiaco o la sindrome del colon irritabile. Anche in questo caso è parere degli autori che il valore aggiunto apportato non sia significativo, soprattutto a fronte del rischio di somministrare un induttore del panico in un soggetto che potrebbe avere un quadro organico importante.

Lo studio in laboratorio degli attacchi di panico deve comunque essere effettuato con senso critico e tenendo presenti i seguenti caveat. In primis, qualora si voglia verificare un’ipotesi di ricerca è necessario scegliere l’induttore del panico in funzione delle variabili dipendenti indagate. In altre parole, se l’ipotesi iniziale è ad esempio che l’ansia modifica la pressione arteriosa, non sarà indicato l’utilizzo dell’adrenalina come induttore del panico in quanto modifica direttamente il parametro oggetto di studio. In secondo luogo, è necessario considerare che sono proprio gli studi sui challenge a mettere parzialmente in dubbio ciò che un paio di decenni fa era considerato certo e cioè che il panico è un fenomeno diverso dall’ansia. In questo contesto sembra che le conoscenze sull’argomento, seppur numerose, non siano ancora completamente esaustive e che l’identificazione di challenge sempre più vicini ai modelli teorici sia di primaria importanza per la ricerca.

Tab. I. Studi di provocazione del panico mediante infusione di lattato di sodio. Studies using challenge with sodium lactate infusion.

Studio

Controlli sani

Pazienti con PD

lattato

placebo

lattato

placebo

Rainey et al. (22)

3/10

0/10

10/11

4/11

Cowley et al. (23)

0/10

0/10

9/22

2/22

Faravelli et al. (24)

1/10

0/10

8/10

5/10

Otte et al. (25)

1/8

7/8

Dager et al. (26)

0/8

3/8

Den Boer et al. (27)

0/15

11/15

Aronson et al. (28)

0/9

9/9

Coplan et al. (29)

1/44

101/170

George et al. (30)

0/14

15/20

Hollander et al. (31)

0/32

63/103

Gaffney et al. (32)

0/10

8/10

Liebowitz et al. (33)

0/20

31/43

Fyer et al. (34)

9/16

Totale

6/190

0/30

284/445

11/43

Tab. II. Studi di provocazione del panico mediante inalazione di CO2 al 5% o al 7,5%. Studies using challenge with 5% or 7.5% CO2.

Studio

Metodo utilizzato

Controlli sani

Pazienti con PD

CO2

placebo

CO2

placebo

Woods et al. (35)

7,5% CO2

0/8

Martinez et al. (36)

7% CO2

7/36

34/47

Sasaki et al. (37)

5% CO2

0/15

5/13

Antony et al. (38)

5,5% CO2

1/15

2/15

Martinez et al. (36)

5% CO2

3/38

32/35

Bystritsky et al. (39)

5% CO2

1/6

4/6

Woods et al. (35)

5% CO2

0/11

8/14

Totale

12/129

85/130

Tab. III. Studi di provocazione del panico mediante inalazione di CO2 al 35%. Studies using challenge with 35% CO2.

Studio

Metodo utilizzato

Controlli sani

Pazienti con PD

CO2

placebo

CO2

Placebo

Valença et al. (40)

35% CO2

20/27

0/27

Fyer et al. (41)

35% CO2

0/5

0/5

5/8

0/8

Papp et al. (42)

35% CO2

1/23

13/18

Fyer et al. (41)

35% CO2

0/5

5/8

Totale

1/33

0/5

43/61

0/35

Tab. IV. Studi di provocazione del panico mediante la somministrazione di colecistochinina. Studies using challenge with cholecystokinin.

Studio

Metodo utilizzato

Controlli sani

Pazienti con PD

CCK

placebo

CCK

placebo

Bradwejn et al. (43)

infusione

9/15

1/15

Wiedemann et al. (44)

bolo 50 �gr

5/9

8/9

Knott et al. (45)

infusione

2/12

1/12

Zwanzger et al. (46)

bolo 50 �gr

10/10

Zwanzger et al. (46)

bolo 50 �gr

26/30

Strohle et al. (47)

bolo 25 �gr

7/10

Strohle et al. (48)

bolo 25 �gr

15/24

Jerabek et al. (49)

bolo 25 �gr

7/16

0/16

Van Megen et al. (50)

bolo 25 �gr

4/9

0/8

Van Megen et al. (50)

bolo 50 �gr

5/7

0/8

Koszycki et al. (51)

bolo 25 �gr

2/12

De Montigny et al. (10)

bolo 20-100 �gr

7/10

Totale

68/114

2/43

39/59

0/16

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