Il principio attivo della psicoterapia

The active principle of psychotherapy

A. Berti, M. Biondi*, C. Maberino

Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica, Sezione di Psichiatria, Università di Genova; * Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma "La Sapienza"

Key words: Psychotherapy • Indications • Methods
Correspondence: Dr. Alessandra Berti, Clinica Psichiatrica, Pad. A, Ospedale “S. Martino”, l.go R. Benzi 10, 16132 Genova, Italy
Tel. +39 010 3537673, e-mail: aleberti-wolit@tiscali.it

Negli ultimi tempi la psicoterapia è profondamente cambiata, nei tempi, nei modi, nei procedimenti tecnici e persino nelle indicazioni cliniche. L’avvento degli psicofarmaci, le esigenze economiche e gestionali del servizio pubblico e i problemi di costi, agibilità e tempo nel privato, sono i fattori che hanno inciso principalmente nel determinare questa modificazione, ma non pensiamo siano elementi sufficienti a spiegare il cambiamento, se si ignora la tendenza ad impiegare la psicoterapia in strategie terapeutiche legate a disturbi specifici.

Sebbene esistano diversi tipi di psicoterapie, tutte possono essere definite come l’uso sistematico delle relazioni umane per la finalità terapeutica di alleviare il disagio emotivo, attraverso l’induzione di modificazioni effettive nei pensieri, nei sentimenti e nei comportamenti del paziente.

I trattamenti psicoterapeutici riconosciuti sono stati recentemente inseriti in trials controllati, simili a quelli impiegati per la valutazione dell’efficacia di un farmaco, i cui risultati hanno fornito dati molto discutibili e discussi; tutti comunque portano a pensare che le varie forme di psicoterapia non siano ugualmente efficaci nel trattamento delle diverse psicopatologie (1).

Per esempio se la psicoterapia dinamica è considerata un valido trattamento per quasi tutti i disturbi dell’umore, il disturbo ossessivo-compulsivo reagirebbe con maggiore efficacia ad un trattamento cognitivo comportamentale (2), i disturbi da abuso di sostanze ad interventi educazionali brevi incluso il motivazionale (3), mentre i disturbi della condotta alimentare beneficiano frequentemente di terapie familiari (4) o interpersonali (5).

Uno dei meriti riconoscibili a queste ricerche, indipendentemente dai risultati e dalle ripercussioni che questi hanno sul lavoro clinico, è quello di aver reso visibile il proliferare di indirizzi metodologici e relative scuole di psicoterapia e, rispetto ad alcune di queste, quello di far nascere talune perplessità sull’effettiva necessità clinica piuttosto che di altri interessi.

Nelle nostre osservazioni, che hanno la presunzione di voler descrivere e ordinare quello che avviene nella pratica clinica quando c’è l’indicazione e la conseguente scelta di un trattamento psicoterapeutico, per semplicità e chiarezza faremo riferimento solo alle maggiori classi delle psicoterapie riconosciute (in tutto più di 20 tipi): quelle dell’area psicodinamica, quelle della cognitivo-comportamentale, quelle dell’area sistemica, le psicoterapie interpersonali, quelle supportivo-esperienziali e le terapie di gruppo (6).

Esistono essenzialmente tre metodi decisionali su cui si articolano la scelta di un trattamento psicoterapeutico e, come vedremo, la ricerca nel settore: quello nosologico, quello della formazione e quello empatico.

Metodo nosologico

Un metodo di scelta efficace che ricalca il modello medico da sempre approvato diagnosi-terapia, il quale da solo, senza altri “correttori di rotta”, rischia di essere il movente verso il fallimento della cura. Ne è un calzante esempio un brano tratto dal capolavoro letterario “Auto da fé” di Elias Canetti (9), in cui la necessità dello psichiatra di classificare per capire diventa la stessa dello psicoterapeuta che per questa viene messo in scacco dal paziente.

L’onnipotente direttore dell’istituto “aveva sostenuto i principi della psichiatria ufficiale con l’ostinazione di un pazzo. Riteneva che compito specifico della sua esistenza fosse confermare la terminologia corrente utilizzando l’immenso materiale di cui disponeva. (…) Era un devoto assertore dell’eccellenza del sistema e odiava chiunque lo mettesse in dubbio“. E il famoso psichiatra Georges Kien era stato per anni assistente del “superiore diabolico“, attualmente illustre predecessore, e “alla sua scuola era maturato rapidamente fino a diventare l’esatto contrario di quello“. Georges aveva sufficiente erudizione per pubblicare un libro e il suo entusiasmo per i pazzi lo indirizzava nel suo proposito: “imparare da loro e non guarire nessuno“.

Costretto ad incontrare il fratello, l’altrettanto famoso sinologo, Peter Kein, che da anni viveva chiuso tra i volumi della sua biblioteca e stava diventando cieco, si chiese: Che cosa poteva aver turbato l’animo tranquillo di Peter? Da qui un intenso colloquio tra i due dove sfumano i loro ruoli di scienziato e studioso in quelli di psichiatra e paziente. È proprio da questo confronto che Peter si troverà con una dotta citazione a ricordare al fratello: “‘Gli uomini malati e prossimi alla morte sono simili ai pazzi’ dice Wang Ch’ung, una testa fine: è vissuto nel primo secolo dell’era cristiana, dall’anno 27 al 98, nella Cina degli ultimi Han, e ne sapeva più lui del sonno, della pazzia e della morte che voi tutti con la vostra presunta scienza esatta.”

La psicoterapia arricchisce il modello diagnosi-terapia di sfumature empatiche essenziali e lo psicoterapeuta Georges, che di fronte al nevrotico Peter ha la pretesa difensiva di incasellare in una diagnosi per procedere all’intervento, dimentica l’essenziale: la psicoterapia inizia quando terapeuta e paziente si incontrano.

L’indicazione ad una psicoterapia che abbia come principio ordinatore la nosologia, contribuisce ad alimentare la necessità di delineare modelli psicoterapeutici specifici e definirne il campo di applicazione, che negli anni è venuto estendendosi con il conseguente incremento della ricerca clinica.

E se è vero che oggi stanno emergendo sempre più numerosi studi sull’efficacia della psicoterapia, è altrettanto indubbio che esistono reali difficoltà nel dimostrare quelle che vengono in medicina chiamate evidenze significative nel campo psicoterapeutico.

Il metodo nosologico stabilisce un punto fermo nella diatriba sulla ricerca in psicoterapia: tra chi da un lato sostiene che vi sia un disaccordo a priori sulla definizione di efficacia della psicoterapia e chi dall’altro ritiene che vada fatta chiarezza nelle tecniche di trattamento (13). Esso offre infatti la tanto semplicistica e forse riduzionistica, quanto ovvia e inevitabile conclusione che le psicoterapie vadano il più possibile valutate esattamente come le farmacoterapie: se le pillole di placebo sono universalmente considerate valido strumento per il gruppo di controllo negli studi sui farmaci, perché non possono essere parimenti utilizzate negli studi sulle psicoterapie? Oppure, perché non può essere il miglioramento clinico del paziente, con la riduzione dei sintomi, lo strumento di valutazione di efficacia di una psicoterapia, come di un trattamento farmacologico?

Se è indubbio che ciò che conta devono essere i risultati, cioè gli outcome, nell’immaginare un controllo di efficacia utile per determinare l’indicazione specifica ad un trattamento, non possiamo non chiederci quali siano gli input del modello cui ci si vuole riferire, cioè quali siano i fattori chiamati in causa (1). In questo senso si dovrebbe portare avanti parallelamente la outcome research e la process research (14).

Metodo della formazione

Il malato e il medico, stabilita la diagnosi, si pongono in maniera diversa, ma con lo stesso scopo di guarigione, un interrogativo: quale terapia?

Domanda a cui il medico e il terapeuta rispondono seguendo il secondo principio ordinatore: quello della propria formazione. Infatti, nel tempo che potremmo definire “delle scuole di specializzazione”, la scelta diventa dipendente dalla scuola del terapeuta, cioè dall’orientamento culturale e dall’indirizzo teorico cui egli fa riferimento.

In questo senso psicoterapia e medicina generale vanno di pari passo: definita la diagnosi, la tecnica terapeutica si sceglie in base alla specialità del medico; ad esempio se un paziente ha i calcoli alla colecisti va da un chirurgo e sarà questi a decidere se procedere alla colecistectomia o alla rimozione calcoli, con una tecnica tradizionale “a cielo aperto” o per via laparoscopica. Se la scelta dell’intervento è dettata da criteri clinicamente oggettivabili, la scelta della tecnica dipenderà principalmente dall’età del chirurgo (il trattamento di una colelitiasi sintomatica sarà la colecistectomia in laparotomia per un chirurgo della vecchia scuola oppure la videolaparoscopia per un chirurgo più giovane), dalla scuola dove si è formato e solo in minima parte dalle caratteristiche del paziente. Nel caso di un intervento chirurgico la scelta del paziente è in un certo senso ristretta ad un criterio di notorietà del chirurgo rispetto al metodo di intervento ipotizzato, e l’artefice e responsabile della scelta inevitabilmente rimane il medico.

Lo stesso avviene per un paziente che soffra per esempio di una fobia sociale: l’utilità di una psicoterapia è indubbia, ma se si tratterà di una psicoterapia dinamica o cognitiva (15) (16) dipenderà da altri fattori, non così lontani da quelli che abbiamo visto intervenire nell’esempio della colelitiasi.

Ma quando l’indicazione è di una psicoterapia, chi è responsabile della cura? Anche seguendo il principio secondo cui la scelta è a prevalente se non ad esclusivo appannaggio del terapeuta, la risposta non è netta, come sequenzialmente la discussione e la ricerca virano sull’articolato problema del consenso informato in psicoterapia.

In medicina al malato è riconosciuto uno status speciale: non è responsabile della propria condizione, ha il diritto di ricevere prestazioni da parte di altri e non è tenuto ad adeguarsi ad alcune regole. A questo si aggiungeva fino a poco tempo fa una condizione vincolante, e cioè la rinuncia alla facoltà di decidere, di scegliere. Il “buon paziente” era secondo questi principi quello che vuole guarire accettando con fiducia e sottomissione quello che il medico prescrive.

La psicoterapia si adattava a questo statuto. Lo stesso Jaspers (17) riteneva che “la psicoterapia si può costituire all’insaputa del medico e del paziente: il primo smette di spiegare e dà alle sue parole una forma autoritaria. Il secondo accetta con docilità, accetta ciecamente ciò che gli dice. Autorità ed obbedienza cacciano l’angoscia da una parte e dall’altra“.

Tale modo di intendere la psicoterapia si basa su un modello autoritario, direttivo e sul ricorso alla volontà coercita del paziente, che funziona solo in una relazione transferale in cui entrano in gioco elementi imitativi, funzioni superegoiche, modelli ideali dell’Io.

Jaspers faceva ricorso all’idealizzazione del terapeuta vissuto come saggio, come essere superiore, una visione sacerdotale che è implicita nel ricorso moralistico alla volontà a cui spesso la vecchia psichiatria faceva ricorso: “Bisogna che il paziente sia convinto dell’importanza del trattamento, ecco l’essenziale. Bisogna che creda al potere della scienza o alle capacità e alla sapienza del medico la cui forza di volontà si impone con l’autorità“.

Nella psicoterapia, come nel resto della medicina, questa posizione è completamente superata, anche se in certi casi surrettiziamente riproposta (20). Infatti, già con Freud (21) questo medico un po’ megalomane, depositario della grazia, e quindi pericoloso, scomparve, con la costituzione di una psicoterapia ben definita negli aspetti tecnici e etici: “Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca di aiuto una proprietà privata, di decidere il suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi … Ho infatti potuto aiutare, senza bisogno di turbarle nella loro individualità, persone con cui non avevo in comune nulla, né la razza, né l’educazione, né la posizione sociale, né la concezione del mondo” (Freud, 1918).

D’altro canto è noto che la fiducia cieca del paziente che rende in un primo tempo scorrevole e piacevole i primi colloqui terapeutici, si dissolverà alla prima difficoltà emergente all’interno del setting terapeutico.

Un sottotipo di criterio che rientra facilmente nel criterio della formazione come scelta del trattamento è quello determinato dall’invio, o più propriamente dall’inviante, che con modalità teoricamente indiscutibili manda il paziente allo specialista per il suo specifico disturbo.

L’invio in psicoterapia spesso contiene in sé il segreto del successo della psicoterapia stessa, ma facilmente appare sottovalutato.

In una casistica personale di uno degli autori, è stato rilevato in una serie consecutiva di 100 pazienti l’invio in psicoterapia in circa il 25% dei casi, con indicazione a tecniche specifiche in 2 casi su 4. Il dato di un 25% di invio in psicoterapia è rispecchiato anche nell’attività di un ambulatorio psichiatrico universitario, dove l’indicazione a specifici interventi terapeutici è risultata in meno del 50% dei casi. È più facile che le indicazioni per una psicoterapia risultino genericamente legate a:

– indicazione di supporto non specifico;

– presenza di conflitti, eventi stressanti rilevanti;

– disturbi della personalità;

– evidenze di efficacia di determinate tecniche per determinati disturbi;

– età giovane.

Si possono distinguere due livelli di invio: un invio “generico” in psicoterapia, senza precisa indicazione di quale psicoterapia per il problema del paziente. Esempio tipico ne è l’invio da un ambulatorio universitario di prima visita ad un Centro di Salute Mentale di zona. Il paziente capiterà con il primo psicoterapeuta disponibile, salvo specifica indicazione e presa di contatto da un terapeuta all’altro (procedura non facile per ragioni logistiche, oppure per procedure interne e carichi di lavoro). D’altra parte un invio per una specifica tecnica di psicoterapia (es. psicodinamica, cognitiva, familiare, di coppia) presenta parecchi problemi. E gli invii di questo tipo non sono frequenti. In questo caso un ostacolo è la mancanza di linee guida o indicazioni condivise circa l’ipotesi di specificità tra tipo di disturbo e tipo di tecnica di psicoterapia. Un altro ostacolo è la disponibilità effettiva di centri/psicoterapeuti per la tecnica specifica desiderata (non sempre presenti), un altro ancora l’esistenza di liste di attesa, difficili in certe situazioni.

L’invio da ambito pubblico ad ambito pubblico soffre per diverse condizioni. Esso nella realtà pratica di un setting pubblico, rispettando tutte le regole, appare un problema molto più delicato di quanto spesso descritto: l’invio è difficile da eseguire con attenzione, risulta fortemente legato alle indicazioni e criteri di un supervisore, fortemente dipendente e influenzato dalle realtà locali (disponibilità di terapeuti, liste di attesa, ecc.). Nel caso di prima visita in ambito pubblico l’impossibilità di invio ad un privato è doverosa, ma è di certo un serio fattore limitante.

È fuor di dubbio che il limite principale di questo metodo per la scelta della psicoterapia sia il forte vizio della formazione specifica dello psicoterapeuta e dell’inviante: per esempio se uno psicoterapeuta con formazione dinamica si trova di fronte ad un malato sofferente per un disturbo ossessivo, facilmente propenderà per una psicoterapia dinamica, seppure le indicazioni della letteratura siano concordi nel preferire una terapia cognitiva. Ma nonostante si sia portati a criticare questo metodo di scelta, la pratica clinica dimostra come nella maggior parte dei casi l’invio di un paziente ad uno psicoterapeuta ben conosciuto dall’inviante sia la chiave di volta per un successo terapeutico.

La scelta secondo i due principi ordinatori, nosologico e di formazione, diventa aderente all’indiscutibile modello medico e indirizza la ricerca il più possibile verso la concretezza dei risultati, ma è indubbio a chi questo mestiere lo esercita da anni che, affinché il trattamento abbia maggiori possibilità di efficacia clinica, vada seguito un principio ordinatore che supera questi confini e che come vedremo confonde non poco le acque della ricerca.

Metodo empatico

Inviante, terapeuta e paziente possono infine scegliere con un metodo legato a fattori aspecifici della psicoterapia, cioè elementi impalpabili, difficilmente teorizzabili, che risultano però spesso decisivi nel processo di cura.

Un caso particolare dell’invio è infatti quando esso avvenga da privato a privato, molto più agile, snello e specifico, potendo valutare anche ipotesi di matching tra terapeuta e paziente (età, sesso, ecc).

Il criterio empatico è connesso forse ai migliori risultati, ma amplifica il bias nella ricerca.

Molti psichiatri considerano variabile fondamentale e non trascurabile nella valutazione di efficacia proprio la persona del terapeuta, mentre altri ritengono che essi siano fattori causali e non intrinseci (22) (23).

È comunque chiaro che vi sono fattori legati al terapeuta, al paziente e, quando c’è, all’inviante, che facilmente sfuggono alle analisi statistiche dei risultati dei trattamenti psicoterapeutici e costituiscono pertanto fonte di bias iniziali (24).

La scelta del trattamento secondo un modello empatico, che nella medicina generale avvicinava la relazione medico-paziente ad un modello paternalistico, ha nel tempo assunto aspetti più negoziali che mettono al primo posto la qualità della vita. Lo stesso dovrebbe accadere per la malattia psichiatrica, ma spesso nella pratica clinica quando si stabilisce l’utilità di una psicoterapia, alla domanda “quale psicoterapia?” se ne sostituisce un’altra, che come vedremo mette in scacco l’orientamento teorico della scelta terapeutica. Il quesito che ci si pone diventa “quale psicoterapeuta?”.

Uno degli elementi che aprono la discussione sulle ricerche circa l’efficacia della psicoterapia è proprio la reciproca scelta che avviene tra paziente e terapeuta, scelta che avviene in una sorta di territorio franco, al di là del quadro clinico, dove gioca un ruolo fondamentale l’empatia.

Studi significativi sul processo psicoterapeutico e sui suoi esiti dimostrano che esistono prove evidenti e sufficienti per affermare l’efficacia della psicoterapia indipendentemente dalle tecniche usate, anche se non vi sono chiare indicazioni per permettere la prescrizione di psicoterapie differenti in base alla diagnosi (1).

L’empatia è sicuramente il principio ordinatore prevalente per il paziente nella scelta del terapeuta e dell’incidenza che questo può avere, ce ne offre un esempio l’intricato protagonista di un romanzo di Roth, Tarnopol (25).

“Quando nel giugno del ’62, si rese per me necessario (secondo mio fratello) ricorrere alle cure di uno psichiatra mi ricordai di Spielvogel. Quegli amici nel Cunnecticut mi avevano parlato bene di lui e, inoltre, analizzare intellettuali e persone creative pare fosse la sua specialità”.

[…] “… mi misi a piangere. Per cinque minuti buoni singhiozzi col viso tra le mani … finche Spielvogel mi domandò: ‘Ha finito?’ Ci sono battute per me altrettanto memorabili della frase iniziale di Anna Karenina, fra quelle pronunciate dal mio analista: ‘Ha finito?’ È una di queste. Il tono perfetto, la perfetta tattica. E mi misi nelle sue mani, là per là, per il bene o per il male”.

Ma come sempre “the devil is in the detail”: il successo di un metodo sta nell’applicazione riflessiva e pensata della ricerca e della teoria, nei campi in cui siano applicabili e senza mai perdere di vista il giudizio clinico e la possibilità di ulteriori innovazioni e sviluppi (6).

Riteniamo che nella scelta di un orientamento terapeutico, quali che siano i parametri utilizzati, bisogna cioè mirare a che la efficacy di una terapia (cioè il risultato ottenuto in un trial di ricerca) corrisponda alla effectiveness (cioè l’outcome della terapia nella pratica clinica). In conclusione, rivisitando le ipotesi di Cook e Campbell del 1979, potremmo dire che non va considerata utile solo una validità statistica di un metodo (statistical conclusional validity), ma anche la validità cosiddetta esterna (external validity, cioè obiettivabile) e quella interna (internal validity, cioè percepita dal paziente) (10).

1 Goldbeck-Wood S, Fonagy P. The future of psychotherapy in the NHS. Br Med J 2004;329:245-6.

2 Westen D, Morrison K. A multidimensional meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized anxiety disorder: An empirical examination of the status of empirically supported therapies. J Consult Clin Psychol 2001;69:875-99.

3 Sellman JD, Sullivan PF, Dore GM, Adamson SJ, MacEwan I. A randomized controlled trial of motivational enhancement therapy (MET) for mild to moderate alcohol dependence. J Studies Alcohol 2001;62:389-96.

4 Dare C, Eisler I, Russell G, Treasure J, Dodge L. Psychological therapies for adults with anorexia nervosa: randomised controlled trial of out-patient treatments. Br J Psychiatry 2001;178:216-21.

5 Fairburn CG, Jones R, Peveler R, Carr S, Hope RA, O�Connor M. Three psychological treatments for bulimia nervosa: Longer term effects of interpersonal psychotherapy, behavior therapy and cognitive behavior therapy. Archiv Gen Psychiatry 1991;50:419-28.

6 Roth A, Fonagy P. What works for whom? A critical review of psychotherapy research. Second Edition. New York: The Guilford Press 2005.

7 Volpato Cordioli A, Heldt E, Braga Bochi D, Margis R, Basso de Sousa M, Fonseca Tonello J, et al. Cognitive-behavioral group therapy in obsessive-compulsive disorder: a randomized clinical trial. Psychother Psychosom 2003;72:211-6.

8 Hiss H, Foa EB, Kozac MJ. Relapse prevention program for treatment of obsessive-compulsive disorder. J Consult Clin Psychol 1994;62:801-8.

9 Canetti E. Auto da fé. Torino: UTET 1986.

10 Cook TD, Campbell DT, eds. Quasi-experimentation: design and analysis issues for field settings. Chicago: Rand MCNally 1979.

11 Westen D. Manualizing manual development. Clin Psychol Sci Practice 2002;9:416-8.

12 Kessler RC, Stang P, Wittchen HU, Stein M, Walters EE. Lifetime comorbidities between social phobia and mood disorders in the US National Comorbidity Survey. Psychol Med 1999;29:555-67.

13 Kopta SM, Lueger RJ, Saunders SM, Howard KI. Individual psychotherapy outcome and process research: challenges leading to greater turmoil or a positive transition? Ann Rev Psychol 1999;50:441-69.

14 Parloff MB. Psychotherapy outcome research. In: Michels R, Cavenar JO Jr, eds. Psychiatry. Philadelphia: Lippincott 1985.

15 Ressler KJ, Rothbaum BO, Tannenbaum L, Anderson P, Graap K, Zimand E, et al. Cognitive enhancers as adjuncts to psychotherapy: use of D-cycloserine in phobic individuals to facilitate extinction of fear. Arch Gen Psychiatry 2004;61:1136-44.

16 Knijnik DZ, Kapczinski F, Chachamovich E, Margis R, Eizirik CL. Psychodynamic group treatment for generalized social phobia. Rev Bras Psiquiatr 2004;26:77-81.

17 Jaspers K. (1959) Psicopatologia generale. Roma: Il pensiero scientifico 1964.

18 Berti A, Maberino C. Il consenso informato in psicoterapia aiuta la guarigione. Italian Journal of Psychopathology 2002;8:92-3.

19 Berti A, Maberino C. Il consenso informato in psicoterapia. In: Fornari U, Coda S, Iorio M, eds. Valutazione della capacità decisionale. Torino: Centro Scientifico Editore 2003.

20 Siemer M, Joormann J. Power and measures of effect size in analysis of variance with fixed versus random nested factors. Psychol Methods 2003;8:497-517.

21 Freud S. (1918) Vie della terapia psicoanalitica. OSF. vol. IX. Torino: Boringhieri 1979.

22 Crits-Christoph P, Tu X, Gallop R. Therapists as fixed versus random effects-some statistical and conceptual issues: a comment on Siemer and Joormann (2003). Psychol Method 2003;8:518-23.

23 Crits-Christoph P, Mintz J. Implications of therapist effects for the design and analysis of comparative studies of psychotherapies. J Consult Clin Psychol 1991;59:20-6.

24 Flaskerud JH. Matching client and therapist ethnicity, language, and gender: a review of research. Issues Ment Health Nurs 1990;11:321-36.

25 Roth P. La mia vita di uomo. Milano: Bompiani 1989.