La remissione come end-point clinico nella comorbidità depressione-ansia

Remission as a clinical end-point in anxiety-depression comorbidity

G. Borgherini

Unità per lo studio e la cura della depressione, Casa di Cura "Parco dei Tigli", Padova

Parole chiave: Remissione • Comorbidità • Ansia • Depressione • Venlafaxina • SNRI
Key words: Remission • Comorbidity • Anxiety • Depression • Venlafaxine • Serotonin-noradrenaline reuptake inhibitors (SNRI)

Introduzione

Se da un lato la ricerca ha sancito mediante studi randomizzati controllati la presenza di diverse molecole antidepressive in grado di fornire un’adeguata efficacia terapeutica, dall’altra parte mancano nella pratica clinica risultati altrettanto significativi in una prospettiva di trattamento a lungo termine. Questo paradosso, la cui soluzione futura garantirebbe un miglioramento qualitativo delle condizioni di vita del paziente affetto da depressione, grava ancora sul trattamento con antidepressivi che, tuttavia, ha goduto recentemente di un tasso di crescita notevole sia da un punto di vista innovativo che di espansione nella terapia dei disturbi depressivi e d’ansia.

Mentre è possibile aspettarsi che il 90-95% dei pazienti affetti da depressione risponda ad almeno un farmaco antidepressivo (1) e che entro sei mesi almeno il 50% dei pazienti possa rimettersi completamente da un episodio depressivo (2), dall’altra parte in uno studio prospettico di follow-up a 5 anni la maggior parte dei pazienti ha riportato una ricaduta di malattia (3) mentre in un altro studio che valutava gli esiti di trattamento in un arco di tempo di 18 mesi, dopo una remissione completa dall’episodio depressivo, la percentuale di pazienti che non riportava ricadute depressive risultava inferiore al 20% (4). Ad ulteriore supporto di questi dati è opportuno ricordare che diversi studi di follow-up a lungo termine hanno evidenziato che il range di oscillazione di pazienti che riportano esiti di trattamento alquanto modesti figura tra l’11% ed il 25% (5,6).

Peraltro il Medical Outcome Study ha potuto evidenziare la marcata compromissione sia dal punto di vista del funzionamento sociale e dell’attività fisica nei pazienti depressi con livelli complessivi di qualità di vita significativamente inferiori rispetto ad altre patologie croniche (7).

In quest’ottica se da una parte si ottengono brillanti risultati nel trattamento in acuto della depressione non altrettanto si può dire del trattamento in cronico, d’altro canto pur essendo svariati i farmaci antidepressivi inequivocabilmente superiori al placebo quanto ad efficacia, non tutti riescono ad eliminare i sintomi “residuali” della patologia depressiva. Questo significa che nonostante un notevole miglioramento dopo la terapia farmacologica difficilmente si raggiunge una condizione di completa assenza di sintomi. Tale obiettivo costituisce uno dei più importanti target della ricerca in psicofarmacologia in quanto è stato dimostrato che la presenza di sintomi residuali predispone allo sviluppo di nuovi episodi di disturbo depressivo maggiore (DDM) rispetto ai casi in cui vi è assenza di sintomatologia affettiva (8) (Fig. 1).

La presenza di depressione sub-sindromica, indipendentemente dal rilievo anamnestico di precedenti episodi di disturbi dell’umore, si associa con un maggior numero di visite mediche e psichiatriche e di ricoveri ospedalieri, un incremento nell’utilizzo del pronto soccorso ed infine con una maggior prevalenza di ideazione suicidaria e di tentati gesti autolesivi (8).

Remissione e guarigione nella depressione e nell’ansia

Il trattamento efficace della depressione può essere suddiviso in tre fasi distinte (Fig. 2). La prima, denominata fase acuta, della lunghezza di 6-12 settimane, definisce il periodo in cui la depressione viene trattata attivamente ed intensamente. Con la remissione della sintomatologia depressiva, si perviene alla cosiddetta continuazione, fase con cui si raggiungono i 12 mesi, considerando la data di inizio del trattamento. L’obiettivo principale di questa fase è costituito dalla prevenzione della recidiva. Per recidiva si intende l’episodio depressivo che non perviene ad una completa guarigione, da distinguersi dalla ricaduta in cui il nuovo episodio è distinto dal precedente in quanto è inframezzato dalla presenza di un periodo di completa guarigione con totale assenza di sintomatologia depressiva. Per definirsi tale la guarigione, oltre alla mancanza completa di sintomatologia sub-sindromica, deve necessariamente non avere durata inferiore ai 6 mesi.

La terza ed ultima fase viene denominata mantenimento; essa inizia un anno dopo l’inizio della terapia e può avere la stessa durata della vita, soprattutto nelle condizioni in cui il rischio di presentare ricadute è elevato (9).

Per comprovare la risposta clinica di un trattamento antidepressivo il sistema che generalmente viene adottato è la differenza con la baseline dei punteggi totali della scala di Hamilton per la depressione (10) di almeno il 50% (11). Modernamente studi epidemiologici (8) e l’esperienza dei trial clinici hanno dimostrato l’insufficienza di questo cut-off in quanto con questa riduzione nel punteggio si è evidenziato sia un legame tra sintomatologia residua ed impairment socio-lavorativo (12) sia aumentato rischio di insorgenza di nuovi episodi depressivi (8).

Il rischio di ricaduta è elevato ed è direttamente proporzionale all’arco di tempo considerato: se infatti nel primo anno la probabilità di ricadere è del 33%, nei primi 5 anni è del 50% mentre aumenta del 70% se consideriamo l’arco dell’intera vita (13).

Inoltre, ogniqualvolta un paziente patisce un episodio depressivo aumenta il rischio di un’ulteriore ricaduta, ad esempio mentre la presenza in anamnesi di due episodi di depressione si traduce in un rischio dell’80% di ricaduta, tre episodi vuol dire un rischio del 90%. Secondo quanto ipotizzato da Post (14) questo deriva da cambiamenti patofisiologici associati con la depressione che possono comportare delle modificazioni nei meccanismi cerebrali di risposta allo stress che compromettono le capacità di adattamento ai futuri eventi stressanti. In altri termini questo sta a significare che in prospettiva futura è richiesta una minore quantità di stress per provocare l’insorgenza di un episodio successivo.

La tendenza a sviluppare una depressione ricorrente è caratteristica propria dei pazienti con insorgenza di malattia inferiore ai 21 anni o superiore ai 60 anni, oppure l’appartenenza al sesso femminile.

La comorbidità, in particolare con i disturbi d’ansia, e la presenza di eventi stressanti aumenta la probabilità d’insorgenza di nuovi episodi soprattutto in quei pazienti più vulnerabili emotivamente ed una maggiore reattività alle situazioni stressanti (15).

Infine Trivedi (16) ha collocato tra i sottotipi di depressione cronica anche gli episodi ricorrenti di DDM senza il raggiungimento della remissione completa nei periodi interepisodici in un arco di tempo di due anni, evidenziando altresì come il 25% dei pazienti affetti da DDM hanno presentato in precedenza distimia; inoltre ben il 20% dei pazienti non raggiunge la guarigione completa a 2 anni ed il 12% a 5 anni a partire dalle manifestazioni iniziali della patologia.

Per questi motivi l’obiettivo attualmente indicato dai ricercatori come golden standard per la terapia di un disturbo dell’umore è la completa rimozione dei sintomi depressivi ovvero il raggiungimento della guarigione clinica, con un ritorno alla condizione di funzionamento premorboso. Un punteggio uguale od inferiore a 7 nella scala di Hamilton identifica la completa remissione sintomatologica secondo quanto stabilito dalla letteratura internazionale, in quanto generalmente coincide con il recupero del funzionamento sociale e lavorativo (17). Per convenzione si è altresì stabilito che la linea di confine per distinguere una risposta antidepressiva precoce da una risposta tardiva è posta alla quarta settimana di trattamento mentre per sancirne la mancata risposta e, conseguentemente, la modificazione della strategia terapeutica, è meglio aspettare le prime 10-12 settimane.

Per quanto riguarda invece il disturbo d’ansia generalizzato (GAD) la definizione di remissione comprende in primo luogo assenza o basso livello di patologia ansiosa (uguale od inferiore a 7-10) secondo la scala di Hamilton per l’ansia (HAM-A) (18), assenza di alterazione di funzionalità sociale con un punteggio alla Disability Scale di Sheehan (19) pari o inferiore a 1 e punteggio alla scala di Hamilton per la depressione uguale o inferiore a 7.

Comorbidità tra disturbo d’ansia generalizzata e depressione maggiore

Solo a partire dal 1990, con gli studi epidemiologici di ultima generazione, la comorbidità di due o più patologie psichiatriche è stata analizzata con maggior accuratezza e con strumenti adatti allo scopo. Questo è stato possibile grazie a studi condotti sulla popolazione generale, su numeri estesi e con strumenti di valutazione standardizzati molto sofisticati aggiornati ai sistemi classificatori delle patologie mentali più recenti (DSM-IV ed ICD-10).

Sia lo studio Epidemiological Catchment Area (ECA) (20) che il National Comorbidity Survey (NCS) (1994) (21) hanno evidenziato come il GAD costituisca una patologia psichiatrica piuttosto diffusa nella popolazione generale (prevalenza annua del 3,1-3,8%), sebbene solo un terzo della prevalenza totale è costituito dal GAD “puro”.

Nel NCS è stato rilevato come nel 90% di coloro che presentavano una diagnosi lifetime di GAD era riscontrabile la presenza di almeno un altro disturbo psichiatrico nell’arco della vita, prevalentemente depressione maggiore e distimia, seguito da abuso di sostanze, fobia semplice e fobia sociale. Nella Figura 3 vengono illustrate le percentuali di insorgenza di depressione secondaria in comorbidità con il GAD. Da questi dati di confronto tra i diversi disturbi d’ansia si evince che il GAD (con odds ratio di 3,9) è il disturbo con il maggior rischio di sviluppo di depressione secondaria (22).

Uno studio epidemiologico sulla popolazione generale realizzato a Padova con la Composite International Diagnostic Interview (CIDI 2.1) su 1.569 soggetti ha evidenziato prevalenze lifetime di DDM (7,6%) e GAD (6,2%), in linea con quanto riportato in letteratura, con una maggiore tendenza alla coesistenza delle diagnosi (50% dei casi), piuttosto che ad una più precoce insorgenza del DDM rispetto al GAD (35,3% dei casi) (23).

L’alta prevalenza della comorbidità del GAD con la DDM, fobia sociale e fobia semplice è confermata in svariati studi clinici (24,25) indipendentemente dalla fascia d’età considerata (adolescenti o anziani) (26,27).

Nel NCS i casi con diagnosi di GAD attuale presentano frequentemente diagnosi corrente di depressione maggiore (39%) e distimia (22%). Similmente nei pazienti affetti da GAD con diagnosi psichiatrica lifetime è di frequente riscontro una diagnosi di depressione maggiore (62%) o distimia (39%). Riguardo alla comorbidità dei disturbi affettivi i disturbi unipolari sono quattro volte più frequenti dei disturbi bipolari.

Prevalenze analoghe di comorbidità vengono registrate in un ampio studio condotto nel setting della medicina di base, denominato Harvard/Brown Anxiety Disorders Research Program (studio HARP) (28) nel quale il 54% dei pazienti con GAD presenta in comorbidità DDM e distimia. Specularmente altri studi realizzati nella medicina generale (29) evidenziano che in percentuali oscillanti dal 35 al 50% di pazienti affetti da depressione maggiore presentano il GAD in comorbidità, che risulta essere il disturbo comorbido maggiormente frequente.

Per comprendere ancora meglio il legame tra queste due patologie può essere utile l’analisi di valutazioni longitudinali prospettiche: diversi studi di follow-up a lungo termine (30,31) fissano nella sequenza “ansia anteriore alla depressione” il rilievo prevalente.

La sequenza si inverte nell’anziano, in quanto avviene che il disturbo d’ansia insorga in seguito alla depressione (27).

Gli studi con disegno prospettico hanno inoltre evidenziato come pazienti che presentano sintomatologia ansiosa sviluppano più frequentemente quadri di DDM in seguito all’esposizione a life events stressanti (32). Altro rilievo essenziale è l’osservazione clinica di come spesso i sintomi del GAD permangono nonostante la remissione dell’episodio depressivo (33).

Dall’analisi dei dati NCS sono emerse interessanti osservazioni sull’impatto che la doppia diagnosi DDM-GAD può determinare sul funzionamento sociale, sull’utilizzazione delle risorse sanitarie e sul trattamento.

Esaminando il primo punto i pazienti affetti da disturbi depressivi presentano maggiori problemi legati al funzionamento sociale e lavorativo con difficoltà nel condurre le proprie attività qualora sia presente in associazione una diagnosi di GAD (34). Le difficoltà lavorative vengono riportate nel 28% dei casi di “puro” GAD rispetto al 51% di coloro che presentano GAD con diagnosi in comorbidità (21) (Fig. 4). Analogamente le differenze tra GAD “puro” e GAD con comorbidità si riflettono sui rapporti interpersonali, venendo registrate delle difficoltà rispettivamente nel 30 e nel 46% dei casi per il disturbo unipolare e 64% per il disturbo bipolare comorbido.

La diagnosi di disturbo d’ansia in comorbidità rende inoltre maggiormente problematico il funzionamento socio-lavorativo e la qualità di vita di pazienti afflitti da malattie organiche croniche come rilevato da Sherbourne et al. (35).

La diffusione del GAD è rilevante sia nel setting di medicina generale sia in quello ospedaliero essendo il disturbo d’ansia maggiormente prevalente negli ambulatori di medicina generale (36) e nei pazienti affetti da patologie organiche croniche (35).

Terapia

La comorbidità tra depressione e GAD pone al terapeuta diversi problemi di non facile soluzione:

1. la coesistenza di queste due patologie significa una peggior prognosi rispetto al trattamento dei due disturbi come entità separate;

2. la tendenza alla cronicità sia dell’ansia che della depressione pone il problema di selezionare molecole che ben si prestino al trattamento in cronico (superiore ai 6 mesi) allo scopo di prevenire le ricadute (ad esempio il farmaco ideale non dovrebbe indurre dipendenza e/o tolleranza o sindromi da withdrawal);

3. recupero del funzionamento sociale e lavorativo;

4. scelta di una monoterapia attiva su entrambe le patologie, piuttosto che l’associazione di più molecole, che più facilmente comporterebbe una maggiore comparsa di effetti collaterali che potrebbe riverberarsi negativamente sulla compliance al trattamento.

I neurotrasmettitori coinvolti nell’azione dei farmaci ansiolitici ed antidepressivi, sono l’acido gamma-aminobutirrico (GABA), gli ormoni dello stress e i due neurotrasmettitori, noradrenalina (NA), serotonina (5-HT) con i quali interagiscono i farmaci antidepressivi secondo diverse combinazioni. Negli studi condotti sull’animale emergono diversi comportamenti dei neurotrasmettitori, GABA, NA, 5-HT a seconda che l’animale venga sottoposto ad esperienze di stress in acuto ed in cronico.

Nell’ansia acuta l’attività del GABA è ridotta in varie aree cerebrali, dalla corteccia all’amigdala, alle aree limbiche, ai nuclei limbici mentre al contrario l’attività dei neuroni noradrenergici e serotoninergici è aumentata.

Nell’ansia cronica da un lato si evidenzia la down-regulation del GABA, dall’altro dopo stimoli ripetuti avviene una riduzione dell’attività basale dei neuroni e delle concentrazioni di NA e 5-HT a livello sinaptico. Sorprendentemente se nell’animale sottoposto a stress cronico si provoca uno stress acuto, si determina un’ipersensibilità allo stress da parte dei neuroni, con conseguente maggiore attivazione di quanto avvenga nell’animale sano.

Per meglio comprendere l’effetto ansiolitico degli antidepressivi sono stati effettuati due studi distinti in cui l’animale ha assunto per 3 settimane consecutive venlafaxina o imipramina; a 24-48 ore dalla fine del trattamento, il ratto viene sottoposto ad uno stimolo stressante (footshock o trattamento con agente ansiogeno). Entrambi gli studi hanno evidenziato il ruolo protettivo di venlafaxina rispetto all’effetto ansiogeno, similmente all’effetto di protezione dallo stress acuto sviluppato dalle benzodiazepine. Tale effetto ansiolitico non risulta essere transitorio in quanto perdura a distanza di 5 giorni dalla fine del trattamento (Fig. 5).

Queste interessanti esperienze sperimentali inducono ad evidenziare da una parte che l’ansia e lo stress cronico riducono progressivamente la funzione del neurone che libera meno NA (fattore di rischio per la depressione), determinando un’ipersensibilità con risposte compulsive agli stimoli da stress acuto, dall’altra che la somministrazione cronica di venlafaxina porterebbe ad una normalizzazione della funzione del neurone con ripristino del release basale e, soprattutto, con una riduzione dell’ipersensibilità del neurone allo stimolo stressante, che costituisce la dimostrazione dell’effetto ansiolitico del farmaco.

Le benzodiazepine ed il buspirone che sono efficaci nel trattamento dei disturbi d’ansia ed in particolare nel GAD non sono altrettanto efficaci nel trattamento della depressione. Questa considerazione, unita al fatto che potenzialmente le benzodiazepine possono causare assuefazione e sintomi da withdrawal ed il buspirone presenta una più lenta onset of action (1-3 settimane), un limitato spettro di efficacia ed un modesto livello di soddisfazione nel paziente (37) ha condotto gli sperimentatori ad indirizzarsi in altre direzioni per la ricerca di alternative al trattamento del GAD (38).

Mentre per gli altri disturbi d’ansia come il disturbo d’attacchi di panico, il disturbo ossessivo compulsivo ed il disturbo post-traumatico da stress, sono stati studiati estesamente per trattamenti con antidepressivi, per quanto riguarda il GAD, salvo un passato recentissimo, non esistono trial sistematici in letteratura con comprovata efficacia, se non un paio di studi con imipramina (39,40). Questi studi, tuttavia, pur evidenziando la maggiore efficacia dell’imipramina rispetto al placebo, pongono in rilievo un profilo di tollerabilità carente dell’imipramina che purtroppo ne limita l’utilizzo.

Anche altri antidepressivi sono stati utilizzati nello studio del GAD dimostrandosi efficaci: sono il trazodone (40) ed il nefazodone (41) che purtroppo non sono stati sufficientemente esaminati per questa indicazione.

Recentemente sono stati pubblicati due studi, di cui uno solo controllato con placebo, con paroxetina nel trattamento con il GAD (42,43).

Attualmente la molecola più estesamente studiata per quanto concerne il GAD, sia con studi controllati con placebo che con dati di trattamento a lungo termine, risulta essere la venlafaxina a rilascio prolungato (RP) (44-46). Questa serie di studi ha permesso di conferire a venlafaxina l’indicazione per il GAD da parte dell’U.S. Food and Drug Administration (FDA).

Può sorprendere il fatto che solo così recentemente gli antidepressivi, che presentano con diverse molecole indicazioni in svariati disturbi d’ansia, siano approdati al raggiungimento dell’indicazione da parte della FDA grazie a venlafaxina. Questo deriva dal fatto che il raggiungimento delle prove di efficacia nel GAD è gravato fondamentalmente da alcuni problemi che meritano essere conosciuti: innanzitutto un problema di selezione, in quanto, come si è potuto rilevare dalla disamina dei dati epidemiologici (NCS, 1994), solo un terzo dei pazienti affetti da GAD non presenta altre patologie in comorbidità e solo questi casi permettono di sostenere un’ipotesi di riconosciuta efficacia nel trattamento del disturbo, diversamente la risposta clinica potrebbe essere attribuita all’efficacia della terapia nei confronti del disturbo psichiatrico presente in comorbidità. Secondariamente esiste un problema riconducibile all’alta percentuale di risposta fornita dai pazienti trattati con placebo in trial di questo tipo con valori che arrivano addirittura al 46%.

La cronicità del GAD conferisce automaticamente agli studi di follow-up a lungo termine una notevole importanza in quanto permette di certificare in modo appropriato l’efficacia di un farmaco rispetto ad una caratteristica fondamentale della patologia esaminata.

Da queste considerazioni si può meglio comprendere il giustificato rilievo nei confronti dello studio di Gelenberg (46), che attualmente è uno dei lavori più importanti su campione esteso (251 pazienti) controllato con placebo che abbia esaminato un ampio arco di tempo (6 mesi).

In questo studio è stata considerata come risposta clinica la diminuzione di almeno il 40% il punteggio totale della HAM-A dalla baseline o il raggiungimento del punteggio 1 o 2 del CGI-miglioramento globale. Già in seconda settimana la differenza statisticamente significativa col placebo era di 42% di risposta clinica con venlafaxina rispetto al 21% con il placebo mentre a fine trattamento 69% venlafaxina contro 46% placebo (Fig. 6). Gli effetti collaterali più comunemente riscontrati sono stati per la venlafaxina nausea, sonnolenza, bocca secca.

La maggior parte dei pazienti (61%) ha utilizzato il dosaggio a 150 mg intermedio tra i due consentiti dal trial (75 mg e 225 mg).

Nella metanalisi di Hackett (47) vengono analizzati 4 studi a breve e a lungo termine su venlafaxina a rilascio prolungato (RP) nel trattamento del GAD. In questo studio sono valutate le percentuali di remissione a sei mesi (HAM < 7) di venlafaxina RP e placebo. La venlafaxina ha riportato delle percentuali di remissione significativamente superiori al placebo (45 vs. 22%).

Dato il notevole tasso di comorbidità con i disturbi dell’umore sarebbe interessante valutare mediante confronti con altre molecole quale sia il potenziale di efficacia di venlafaxina verso i disturbi dell’umore, in particolare rispetto a due parametri cruciali per il trattamento delle forme miste GAD e DDM, la remissione completa della patologia depressiva ed il funzionamento socio-lavorativo e la qualità di vita.

Lo studio di Lenderking (48) ha esaminato 600 pazienti con DDM in terapia con venlafaxina allo scopo di valutare, oltre all’efficacia di trattamento, la qualità di vita ed il livello di funzionamento mediante il General Life Functioning (GLF) e l’Activities Questionnaire (AQ). Il trattamento con venlafaxina ha riportato dei miglioramenti significativi su tutti e tre i parametri esaminati, sebbene lo studio ha evidenziato come la sintomatologia depressiva sia disgiunta dal funzionamento sociale e che quindi l’effetto del farmaco si tradurrebbe in due influenze separate sui parametri esaminati, avvalorando l’ipotesi che non tutti gli antidepressivi sono in grado di fornire miglioramenti sia sulla sintomatologia depressiva che sul funzionamento socio-lavorativo.

Per quanto riguarda l’efficacia della venlafaxina sulla patologia depressiva è necessario evidenziare come non solo questo composto è efficace sulle svariate tipologie di depressione, diversamente da altri antidepressivi, ma è anche in grado di riportare percentuali di remissione completa del disturbo depressivo significativamente più elevate degli SSRI (49) (Tab. I, Fig. 7).

In conclusione, data la discreta prevalenza, l’alto grado di comorbidità e di cronicità del GAD connesso ai riflessi sulla qualità della vita, sui costi sociali e sanitari che esso comporta, la venlafaxina, nell’ampio panorama terapeutico disponibile oggigiorno, risulta essere indubbiamente l’antidepressivo maggiormente affidabile, assommando in sé molte caratteristiche funzionali alla terapia del GAD in comorbidità con la depressione. Oltre all’evidenza comprovata di efficacia e tollerabilità, con significativo tasso di remissione completa che è in grado di raggiungere, la venlafaxina è altresì adatta ad essere mantenuta in terapia nel trattamento a lungo termine, non determinando dipendenza e/o sintomi da withdrawal, ed a giocare un ruolo determinante nel riportare il paziente ai livelli di funzionamento socio-lavorativo e di qualità di vita precedentemente raggiunti.

Fig. 1. I sintomi residui della depressione costituiscono un fattore predittivo della ricaduta. Residual symptoms of depression strongly predict relapse (adattato da Judd et al., 1997 (8)).

Fig. 2. Fasi del trattamento della depressione. Stages of the treatment of depression.

Fig. 3. Rapporto tra casi puri e in comorbidità al follow-up di 5 anni. * Odds ratio (OR) corretto per età e genere. Proportion of pure and comorbid cases at follow-up-5 years later. * Odds ratio (OR) adjusted for age and gender (da Wittchen et al., 2000 (22)).

Fig. 4. Impatto del disturbo d�ansia generalizzato (GAD) semplice e in comorbidità sul funzionamento sociolavorativo. Impact of pure and comorbid generalized anxiety disorder (GAD) on functioning (da Wittchen et al., 1991 (31); Maier et al., 2000 (36); Judd et al., 1997 (8)).

Fig. 5. Il trattamento cronico con imipramina o venlafaxina previene l�effetto del footshock sul release di noradrenalina nella corteccia prefrontale di ratto. Chronic imipramine or venlafaxine treatment prevents the effect of footshock on norepinephrine release in rat prefrontal cortex (Biggio G, Relazione Congresso SOPSI, febbraio 2000).

Fig. 6. Percentuale di risposta, intesa come la riduzione di almeno il 40% del punteggio totale della scala di Hamilton per la valutazione dell�ansia (HAM-A) dal basale (popolazione di pazienti valutabile e analisi LOCF [last observation carried forward-ultima valutazione confermata per le valutazioni previste come successive]), P < ,01 per venlafaxina RP vs. placebo per la 1a settimana; P < ,001 per venlafaxina RP vs. placebo per il periodo dalla 2a fino alla 28a settimana. Response rates, measured by percentage of patients with an at least 40% reduction from baseline of total score on the Hamilton Anxiety Rating Scale (HAM-A) (evaluable patient population and LOCF analysis [last observation carried forward]), P < .01 for venlafaxine XR vs. placebo at the 1st week; P < .001 for venlafaxine XR vs. placebo per the period from the 2nd through the 28th week (da Gelenberg, 2000 (46)).

Tab. I. Confronto della remissione indotta da vari trattamenti, valutata attraverso la scala di valutazione della depressione di Hamilton (HRSD17), versione a 17 item (analisi intent-to-treat: percentuale di remissione (%) e odds ratio). Remission rates (%) and odds-ratio for comparison of intent-to-treat 17-item Hamilton Rating Scale for depression (HRSD17) remission by treatment (1) (da Thase, 2001 (49)).

Studio

Tasso di remissione

Odds ratio

Venlafaxina

SSRI

Placebo

Venlafaxina vs.

Venlafaxina vs.

SSRI vs.

SSRI

placebo

placebo

Rudolph & Feiger, 1999 (Study 211)

42

23

23

2,4

2,5

1,0

Silverstone et al., 1999 (Study 360)

29

28

14

1,1

2,4

2,3

Salinas et al., 1997 (Study 367)

49(3)

36

38

1,9

1,6

1,1

Rudolph et al., 1998a (Study 372)

44

34

23

1,5

2,5

1,7

Clerc et al., 1994 (Study 340)

55

26

3,5

Study 347(2)

51

35

1,9

Dierick et al., 1996 (Study 348)

52

45

1,3

Study 349(2)

35

35

1,0

Dati cumulativi

45

35

23

1,5

2,2

1,4

(1) = I tassi di remissione riportati si riferiscono all�intent-to-treat, punteggio HRSD17 <7, utilizzata nell�articolo dal quale è tratta la tabella.Quindi, essi possono differire dai risultati dei lavori originali; (2) = Dati on file non pubblicati, Wyeth-Ayerst research, Philadelphia; (3) = Il tasso di remissione secondo l�analisi intent-to-treat era del 47% a 75 mg al giorno di venlafaxina RP e 51% a 150 mg al giorno di venlafaxina RP; SSRI = Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.

Fig. 7. Percentuali di remissione clinica dei pazienti trattati nell�ambito degli studi analizzati. Percent clinical remission in patients treated within the reviewed studies; comparison of percent remission (HRSD17 score <7 � 95% IC) reported with venlafaxine, SSRIs and placebo.

* p < 0,05 per venlafaxina vs. SSRIs; � p < 0,05 per venlafaxina vs. placebo; � p < 0,05 per SSRIs vs. placebo; � p < 0,001 per SSRIs vs. placebo; � p < 0,001 per venlafaxina vs. SSRIs; # p < 0,05 per venlafaxina vs. placebo; HRSD17 = 17-item Hamilton Rating Scale for Depression; SSRIs = Selective serotonin reuptake inhibitors.

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