Schizofrenia: oltre il deficit cognitivo

Schizophrenia: Beyond the Cognitive Deficit

F. Piazzalunga

Istituto di Psicologia, Università di Urbino "Carlo Bo"

Key words: Schizophrenia • Efference Copy • Theory of mind • Ipseity • Hyperreflexivity
Correspondence: Dr. Francesca Piazzalunga, via dei Carpinoni 2, 24126 Bergamo, Italy – Tel. +39 35 317415

Un modello neuropsicologico cognitivo della schizofrenia

Esistono situazioni in cui il soggetto perde, alterato dalla propria patologia, quella capacità di immediatezza ed ovvietà che in condizioni normali consente di vivere naturalmente il senso di unitarietà della propria identità e il senso di appartenenza delle proprie rappresentazioni mentali. Molte esperienze psicopatologiche svelano la complessa problematicità della perdita di capacità e facoltà che appartengono in modo quasi naturale ed implicito all’uomo: l’esperienza schizofrenica, in modo particolare, racchiude in sé la drammatica modificazione di alcune delle condizioni base dell’esistenza stessa del Sé.

Nell’ambito di una tradizione di ricerca che tenta di promuovere un legame sempre più stretto tra impostazione cognitiva e neuroscienze, Christopher Frith (1)-(3) ha elaborato un particolare modello di studio dei sintomi schizofrenici che ipotizza alla base del disturbo non solo il coinvolgimento di specifiche strutture cerebrali, ma anche l’esistenza di particolari deficit cognitivi. Lo scopo di Frith, infatti, è descrivere le anomalie che colpiscono i processi cognitivi sottesi ai sintomi schizofrenici nella convinzione che l’unico modo per spiegare i sintomi sia spiegare i processi cognitivi sottostanti i sintomi che sono alla base della malattia schizofrenica.

Il modello del neuropsicologo inglese deriva dalla trasposizione in ambito cognitivo di un modello di controllo nato nell’ambito degli studi sulla motricità e centrato su una particolare forma di autocontrollo nota come “scarica corollario” (corollary discharge) o “copia efferente” (4). Per illustrare questo modello Frith (2) ricorre alle nozioni di sistema di controllo a feedback e sistema di controllo a feedforward: due processi essenziali nell’ambito del controllo motorio per l’esecuzione del movimento. I sistemi sensoriali utilizzano, infatti, le informazioni provenienti dagli organi di senso per correggere gli errori del movimento proprio attraverso meccanismi di controllo a feedback e a feedforward. Ad esempio nell’atto di afferrare un oggetto può accadere che il movimento iniziale del braccio non sia nella giusta direzione; in questo caso è possibile correggere il movimento con un meccanismo a feedback (5). Spesso però il movimento viene controllato in modo più efficace fornendo le informazioni in anticipo, attraverso quello che viene definito come controllo anticipatorio o a feedforward. Esaminando in modo specifico il meccanismo del controllo, scrive Frith, quando un’istruzione motoria è inviata dal centro alla periferia per dar luogo ad un movimento corporeo, contemporaneamente viene creata una copia efferente della stessa istruzione, la quale viene inviata ad un centro comparatore che svolge una funzione di monitoraggio centrale. Il centro comparatore confronta l’informazione propriocettiva e l’informazione visiva riafferente successiva all’azione con la copia efferente, determinando lo sviluppo del senso di appartenenza dell’atto in corso nei confronti di colui che lo promuove. Il comparatore, però, interviene anche in una fase precedente, che opera prima della reale esecuzione del movimento, quindi prima del feedback sensoriale, fornendo la consapevolezza dell’intenzione di agire. In altre parole, il controllo anticipatorio basato sul feedforward funziona come auto monitoraggio di ciò che si sta per fare, consentendo al soggetto il controllo e la modulazione dell’azione stessa. È da questo sistema che dipendono, secondo Frith, il senso di proprietà e la capacità del soggetto di riconoscersi come agente esecutore delle proprie azioni (sense of agency). Se qualcosa non dovesse funzionare a questo livello (quindi il monitor centrale comparatore non dovesse ricevere copia efferente delle istruzioni motorie) il soggetto si troverebbe immerso in un’azione senza avere gli elementi per riconoscere questa azione come propria. Questo sistema di controllo anticipatorio sarebbe ciò che risulta compromesso nei soggetti schizofrenici, dove un’alterazione nel feedforward impedisce lo sviluppo della consapevolezza di essere agente di una data azione, dando luogo a spiegazioni deliranti sostitutive.

In pratica, nei soggetti schizofrenici viene a mancare ciò che Gallagher (6) definisce come sense of agency di un’azione a differenza del sense of ownership che risulta essere preservato. Nelle azioni volontarie ed intenzionali, il senso di essere l’agente promotore di un’azione ed il senso di appartenenza nei confronti dell’azione stessa di norma coincidono. Quando afferro un oggetto sono consapevole di stare realizzando una mia azione. In questo caso, colui al quale appartiene l’azione e l’autore che la realizza sono indistinguibili. Nel caso di azioni involontarie, invece, è possibile distinguere tra senso di agentività e senso di appartenenza, in quanto posso essere consapevole che il mio corpo si è mosso sulla base di una movimento inaspettato, come può accadere nel caso di una spinta improvvisa – e quindi posso riconoscerlo come mio movimento – ma, nel caso di azioni involontarie, non ho il senso di essere stato l’agente attivo promotore di questa azione. L’agente promotore è colui che mi ha spinto. Nel modello elaborato da Frith (2) il senso di agentività sarebbe garantito dalla corretta elaborazione della copia efferente e dal centro comparatore, mentre il senso di appartenenza sarebbe garantito dal feedback sensoriale, ovvero dall’informazione sensoriale riafferente. In pratica, la distinzione tra comparatore anticipatorio (feedforward) e comparatore sensoriale di ritorno (feedback) coincide con la distinzione tra sense of agency e sense of ownership (7). È quindi la perdita del senso di agentività che Frith rileva nei soggetti schizofrenici, a causa di un’alterazione nel sistema di autocontrollo regolato dal meccanismo del feedforward.

Traendo spunto dalle ricerche di Feinberg (8), Frith postula un modello simile a quello illustrato nel caso del controllo motorio per i processi di pensiero. Il pensiero ed il linguaggio, in pratica, vengono pensati come “azioni”: quando articoliamo consapevolmente un pensiero avvertiamo, infatti, un senso di sforzo, una scelta deliberata (così come accade quando compiamo un’azione) che ci accompagna mentre ci spostiamo da un pensiero a quello successivo. Se il pensiero non fosse consapevole di questo senso di sforzo, che riflette il controllo centrale e che coincide con il senso di appartenenza a sé dei propri pensieri, il soggetto potrebbe sperimentare un vissuto di estraneità o di alienità nei confronti dei propri pensieri e la mancata consapevolezza di essere l’agente promotore dei propri pensieri porterebbe il soggetto ad attribuirli erroneamente ad una fonte esterna. Questo è quello che accade secondo Frith quando i soggetti schizofrenici raccontano che pensieri che non gli appartengono sono inseriti nella loro mente: sintomi come deliri di controllo, inserzione del pensiero e allucinazioni uditive dipenderebbero quindi da un difetto nella capacità di controllo dell’attività mentale. Il mancato riconoscimento dei propri pensieri e la relativa attribuzione delirante ad una fonte esterna sono legati secondo Frith alla mancata elaborazione delle informazioni relative alla consapevolezza dell’intenzione di agire da parte del sistema di controllo a feedforward. Ciò impedirebbe al soggetto l’elaborazione del senso di proprietà nei confronti dei propri pensieri, così come lo impedisce nell’ambito delle azioni. Il soggetto schizofrenico che vive un delirio di controllo ha perso, quindi, la paternità nei confronti di quei pensieri e di quelle azioni che attribuisce ad una fonte esterna, ha perso la consapevolezza di avere generato alcuni pensieri: è come se “si imbattesse nella propria mente in un pensiero trovandosi svincolato dalla sensazione di esserne l’agente promotore” (2).

Una dimostrazione sperimentale di questo modello è fornita da Frith et al. (9) attraverso una prova condotta su pazienti schizofrenici con allucinazioni uditive e su soggetti normali appartenenti al gruppo di controllo. Ai soggetti di entrambi i gruppi viene chiesto di indossare un microfono e delle cuffie attraverso le quali è possibile sentire la propria voce. Il sistema è collegato anche ad una speciale apparecchiatura in grado di alterare il timbro di voce e di falsificare quello che i soggetti ascoltano in cuffia (in pratica i soggetti sentono la loro voce nello stesso istante in cui parlano, ma con un timbro differente). L’esperimento consiste nell’alterare il timbro di voce sia dei soggetti schizofrenici sia dei soggetti del gruppo di controllo e verificare successivamente quale spiegazione entrambi i gruppi forniscano dell’accaduto. I risultati del compito sperimentale mostrano che i volontari appartenenti al gruppo di controllo reagiscono senza stupore all’alterazione del loro timbro, ipotizzando che questo sia stato modificato da un’apparecchiatura; i soggetti schizofrenici, al contrario, forniscono risposte come: “Ogni volta che parlo, sento qualcun altro che parla”, “Sento il diavolo che parla”, “Continuo a sentire mio fratello che dice le stesse cose che io sto dicendo”. Due domande sorgono di fronte a questo esperimento: perché i soggetti schizofrenici non sono in grado di riconoscere quella che sentono in cuffia come propria voce? E soprattutto, come mai i soggetti del gruppo di controllo non subiscono l’effetto di queste alterazioni? In questa situazione sperimentale viene alterato il feedback, ovvero l’informazione di ritorno che i soggetti si aspettano: io parlo, quindi mi aspetto di sentire la mia voce, con il mio timbro di voce. Alterando il feedback, anche i soggetti normali avrebbero dovuto produrre spiegazioni simili a quelle dei soggetti schizofrenici. In realtà, le risposte fornite dai due gruppi sono in linea con il modello elaborato da Frith (2). Nella prova esaminata i volontari normali sono in grado di riconoscere la voce nonostante il timbro alterato: il corretto funzionamento del sistema di controllo anticipatorio, infatti, fornisce loro la consapevolezza dell’intenzione di agire (sono consapevoli di aver parlato), i soggetti sono quindi in grado di dare una spiegazione che possa giustificare l’alterazione del feedback. I pazienti schizofrenici, al contrario, non riconoscono la propria voce alterata e la attribuiscono ad una fonte esterna (il diavolo, il fratello …). L’ipotesi di Frith è che questo accade a causa del mancato funzionamento del sistema di controllo anticipatorio (modello a feedforward) da cui dipende l’elaborazione della consapevolezza dell’intenzione di agire e la capacità di riconoscersi come agente delle proprie azioni.

Alcuni aspetti del modello elaborato dal neuropsicologo inglese per spiegare determinati sintomi positivi tipici del disturbo schizofrenico sono stati sottoposti a critica (7) (10). La nozione di “intenzione di pensare”, che Frith pone alla base del controllo anticipatorio svolto dal comparatore centrale, rappresenta sicuramente il problema principale. Nell’ambito dei pensieri e delle esperienze che giungono al flusso di coscienza, che funzione ha “l’intenzione di pensare”? È difficile immaginare un’intenzione di pensare prima del pensiero stesso, a meno che l’intenzione di pensare non venga concepita come una preparazione consapevole di un atto che verrà; come accade nel caso in cui io decido di sedermi ed inizio a pensare a questo atto prima di realizzarlo. Nella maggioranza dei casi, però, non avviene prima l’intenzione e poi il pensiero, ma il pensiero accompagnato da una consapevolezza dell’intenzione di pensare. Nel modello di Frith (2), invece, l’intenzione di pensare è posta prima del pensiero stesso e rappresenterebbe un processo necessario per sviluppare il senso di agentività nei confronti della propria attività mentale. La copia efferente (e quindi l’intenzione di pensare che rappresenta) non è accessibile alla coscienza (11) (12), nel senso che la copia efferente è parte di un processo “subpersonale” non cosciente. In altre parole, ciò che Frith identifica con intenzione di pensare rientra in un processo inconscio che dà al soggetto la consapevolezza di essere agente promotore delle proprie azioni e dei propri pensieri (sense of agency). L’alterazione di questo processo spiegherebbe l’origine di alcuni tra i principali sintomi positivi associati alla schizofrenia (come i deliri di controllo e le inserzioni del pensiero). Nel caso del pensiero esistono una serie di fenomeni che non possono essere sotto il controllo diretto del soggetto; ad esempio, può accadere di trovarsi a pensare a qualcosa senza che questo pensiero sia guidato da una volontà precisa e consapevole. In questo caso l’intenzione di pensare non sussiste. Quindi, seguendo il ragionamento che abbiamo esposto, poiché l’intenzione di pensare è necessaria per sviluppare il senso di agentività nei confronti della propria attività mentale, se il soggetto non arriva ad elaborare l’intenzione di pensare non dovrebbe sviluppare la consapevolezza di essere l’agente promotore dei propri pensieri spontanei (unbidden thoughts). La mancata elaborazione della consapevolezza di avere generato un dato pensiero non porta tuttavia il soggetto sano a sentire questo pensiero come “alieno” o ad attribuirlo ad una fonte esterna. Questo può solo significare che la mancanza del senso di agency nei confronti della propria attività mentale (o l’alterazione nel meccanismo che controlla la copia efferente) non svolge tutto il carico di lavoro che Frith vorrebbe assegnarli nel caso del disturbo schizofrenico (7). La mancanza di un’intenzione, di pensare, e quindi la mancanza della generazione di una copia efferente che rappresenti questa intenzione non spiega nulla di più che una normale perdita della capacità di riconoscersi come promotore di un pensiero o di un’azione. Non spiega come il soggetto schizofrenico arrivi ad attribuire alcuni pensieri ed azioni ad una fonte esterna o il motivo per cui alcuni pensieri sono concepiti come inseriti nella mente del soggetto. Nel peggiore dei casi, l’assenza dell’intenzione di pensare dovrebbe portare a pensieri della cui genesi il soggetto non è consapevole, non a ciò che si descrive come inserzione del pensiero.

La critica al modello elaborato da Frith non è rivolta solo al concetto di intenzione di pensare, è l’esistenza e la necessità stessa di una copia efferente per il pensiero che può venire contestata (10). Nell’ambito del controllo motorio, la copia efferente svolge una funzione esecutiva e pragmatica: si tratta semplicemente di informare determinati sistemi che l’organismo, piuttosto che il mondo circostante, si sta muovendo (13). Lo scopo della copia efferente non è quello di verificare la realizzazione di un movimento e neppure quello di discriminare tra movimenti intenzionali e movimenti stimolo-indotti; il suo scopo è istruire il sistema motorio o sensoriale per eventuali correzioni ed accomodamenti del movimento da eseguire o che si sta eseguendo. È possibile identificare una simile funzione per i processi di pensiero? Campbell (11), seguendo il modello elaborato da Frith, suggerisce che lo scopo della copia efferente nell’ambito dei processi di pensiero sia fare in modo che “i pensieri che si mettono realmente in atto formino dei coerenti treni di pensiero” (trains of thought). Formare coerenti treni di pensiero, però, significa mantenere i pensieri all’interno di precise tracce semantiche, in altre parole formare pensieri che rispettino criteri di senso e di logicità. Se il compito della copia efferente è quello di formare coerenti tracce di pensiero che possano assumere quindi un significato, non appare strano che a svolgere questo compito sia un meccanismo subpersonale e non conscio (quindi non semantico)? Inoltre, questa funzione della copia efferente si distanzia da quella che Frith aveva originariamente ipotizzato, vale a dire verificare che i pensieri che sto pensando siano stati generati da me e non inseriti nella mia mente da una fonte esterna. Fornire un senso di coerenza ai propri pensieri, infatti, non equivale a fornire un senso di agency. Il modello elaborato da Frith ipotizza invece che il meccanismo di comparazione svolto dalla copia efferente abbia la funzione di fornire un senso di agency. Un’ulteriore critica che Gallagher (10) rivolge al modello elaborato da Frith riguarda un problema di coerenza tra ambiti ed elementi diversi. Il processo di comparazione descritto da Frith alla base del funzionamento della copia efferente coinvolge, infatti, elementi che per logica e definizione sono in parte consci, in parte inconsci. La copia efferente stessa si colloca all’interno di un processo che non avviene a livello cosciente, mentre il risultato della comparazione che svolge (il senso di agency) è in qualche misura parte di un processo conscio (è necessaria una dimensione di consapevolezza nel processo che porta il soggetto a riconoscersi come promotore dei propri pensieri e delle proprie azioni). Perché un processo che implica già una dimensione di consapevolezza e coscienza deve essere assegnato ad un meccanismo che agisce in modo separato ed inconsapevole?

Per descrivere parte del processo di controllo dell’attività mentale, Frith (2) ha introdotto accanto al sistema della copia efferente un meccanismo introspettivo – riflessivo che identifica come “metarappresentazione”. Secondo il neuropsicologo inglese è possibile attribuire lo sviluppo del senso di agentività al corretto funzionamento di un meccanismo introspettivo-metacognitivo. L’abilità metarappresentazionale viene identificata come una competenza dell’esecutivo centrale (14) che permette al soggetto di interpretare i propri e gli altrui stati mentali; il fallimento di questo processo associato alla schizofrenia giustificherebbe la mancanza di vissuti e di comportamenti che consentirebbero allo schizofrenico di sviluppare il senso di unitarietà della propria identità e dell’appartenenza a sé delle proprie rappresentazioni mentali. Anche il concetto di metarappresentazione, però, è stato sottoposto a critica (10). L’inserimento di questo meccanismo introspettivo/meta-rappresentazionale non risolverebbe, infatti, le incertezze emerse nell’ambito del meccanismo della copia efferente. Riferendosi al modello esposto da Frith, non è chiaro, come evidenzia Gallagher (10), dove sia possibile inserire il meccanismo della metarappresentazione all’interno del processo di comparazione svolto dalla copia efferente; inoltre, anche la metarappresentazione, essendo comunque un processo di pensiero, è sottoposta allo stesso percorso che Frith ha descritto per i processi di pensiero e ciò significa che è legata alla formazione di una copia efferente e alle problematiche che questo comporta.

Verso una teoria della mente

Il concetto di metarappresentazione esposto da Frith et al. (3) mette in luce un altro aspetto rilevante nella dimensione schizofrenica che comprende la capacità di interagire con l’altro sul piano dei processi di mentalizzazione. La definizione del meccanismo che permette di “mentalizzare” gli stati mentali altrui per poterne spiegare e predire il comportamento risale agli studi di Premack e Woodruff (15) nel 1978. In origine, una forma rudimentale di questa facoltà è stata riscontrata nei primati superiori, come gli scimpanzé e i babbuini, i quali mostrano evidenti capacità di agire un inganno deliberato, prova inconfutabile della capacità di rappresentare gli stati mentali degli altri (15). Negli esseri umani, invece, l’abilità di mentalizzare, legata allo sviluppo dell’intelligenza sociale (social intelligence), gioca un ruolo essenziale in tutte le interazioni sociali. Conoscere il proprio ruolo nella società, riconoscere i propri simili, imparare dagli altri e insegnare agli altri sono tutte componenti differenti dell’intelligenza sociale sui quali elementi si struttura l’abilità di mentalizzare. La capacità di attribuire stati mentali a sé e agli altri e di usare tali rappresentazioni mentali per decidere del proprio comportamento e prevedere quello altrui è stata definita da Premack e Woodruff (15) con l’espressione “teoria della mente” (ToM, theory of mind). La ToM è stata ampiamente studiata dalla psicologia evolutiva negli anni recenti. Secondo le ricerche condotte da Leslie (16), Astington e Gopnik (17), l’abilità di mentalizzare inizia a costituirsi intorno ai 18 mesi, quando il bambino si confronta con i giochi di finzione. La capacità di inferire le conoscenze e le intenzioni altrui per predirne il comportamento, però, si stabilizza solo dai quattro ai sei anni di età, quando il bambino è in grado di cogliere lo stato mentale dell’altro, svelando l’effetto magico dei giochi di finzione (18).

In letteratura, il concetto di teoria della mente apre le porte ad una dimensione estremamente ricca di contributi che comprendono ricerche sull’autismo infantile (19) (20) e studi maggiormente incentrati sul fronte delle psicosi (21). Parlare tuttavia di teoria della mente in senso generico non è esatto. In questo ambito esiste un dibattito tuttora in corso tra coloro che preferiscono riferirsi ad un substrato “teorico” (theory-theory) nello studio di questo meccanismo ed i sostenitori di un approccio basato sulla simulazione (simulation approach). L’orientamento theory-theory (22)-(24) propone l’analogia tra il bambino che costruisce la propria comprensione del mondo mentale e lo scienziato che elabora un sistema teorico. Secondo Premack e Woodruff (15) un individuo possiede una teoria della mente semplicemente se è in grado di ascrivere stati mentali a sé e agli altri: “Questo genere di attribuzione viene definita teorica dal momento che questi stati non sono direttamente osservabili – negli altri – e che le attribuzioni sono utilizzabili per fare previsioni circa il comportamento altrui”. Secondo l’approccio della simulazione, al contrario, la nostra comprensione degli stati mentali altrui non sarebbe teorizzata, ma si realizzerebbe attraverso un processo di simulazione mentale: a partire cioè da una certa consapevolezza dei propri stati mentali, è possibile pervenire a delle generalizzazioni che per analogia vengono attribuite anche agli altri, permettendo previsioni che li riguardano. In altre parole, la nostra comprensione degli stati mentali altrui sarebbe basata sull’abilità di simulare ciò che gli altri sono in grado di sentire in determinate situazioni o circostanze, è un mettersi virtualmente al posto dell’altro e attribuire all’altro ciò che noi pensiamo possa essere il suo stato mentale creato nella nostra mente (25). Entrambi gli approcci, comunque, ritengono che il meccanismo della teoria della mente sia la via regia attraverso la quale si costruisce la comprensione dell’altro, non solo nella fascia di età in cui questo meccanismo prende forma, ma durante l’intero corso della vita. Nello sviluppo di una teoria della mente che aiuti ad attribuire stati mentali a sé e agli altri non vi sarebbe quindi un punto di arrivo. Al contrario, il nostro rapporto con l’idea del mentale sarebbe in continua evoluzione.

Quali sono le implicazioni di un deficit della teoria della mente, cosa accade se è compromessa la capacità di rappresentare gli stati mentali? Se questa abilità viene a mancare, sicuramente le interazioni con gli altri saranno disturbate (21) (26). Le dinamiche di relazione con gli altri dipendono per la maggior parte dalla comunicazione verbale: è chiaro come queste comunicazioni non possano avvenire con successo semplicemente sulla base della conoscenza del significato delle parole. Le parole, infatti, significano cose differenti in contesti differenti e il contesto più importante è quello relativo alle convinzioni e alle intenzioni della persona che sta parlando e alla quale si sta parlando. Per comprendere, quindi, gli aspetti di un discorso, è necessario che siano tenute in considerazione la conoscenza, le convinzioni e le intenzioni della persona con cui si sta interagendo (27). Se questo non accade, il soggetto non sarà in grado di rappresentare lo stato mentale altrui, non sarà in grado di comprenderne le intenzioni e le credenze con conseguenti problemi nell’interazione sociale (social milieu). Sulla base di queste considerazioni è indicativo associare i disturbi della teoria della mente a molte delle manifestazioni che si possono riscontrare nel disturbo schizofrenico: è l’incapacità di “leggere” la mente dell’altro o la difficoltà ad inferire correttamente gli stati mentali altrui che può portare il soggetto schizofrenico ad elaborare intenzioni e credenze tipiche dei deliri di riferimento, in cui i soggetti credono erroneamente che gli altri abbiano l’intenzione di comunicare con loro, o dei deliri paranoidei in cui i pazienti credono che altre persone abbiano intenzione di attaccarli o danneggiarli. Tra le disfunzioni cognitive associate al disturbo schizofrenico, le alterazioni dei processi di mentalizzazione costituiscono certamente una delle dimensioni più indagate.

A partire dalle ricerche condotte da Frith (2) sull’abilità di mentalizzare, sono molteplici, infatti, gli studi (28)-(30) che hanno analizzato i deficit della ToM nel disturbo schizofrenico. In numerosi casi, le ricerche hanno dimostrato che soggetti schizofrenici con evidenti sintomi positivi mostrano difficoltà nei compiti sperimentali in cui è necessario comprendere i pensieri e le conoscenze altrui. In altre parole, si realizzano condizioni sperimentali il cui il soggetto è posto di fronte a situazioni per la comprensione delle quali ha bisogno di rappresentarsi lo stato mentale altrui. Si tratta, per la maggior parte dei casi di prove sperimentali che esaminano la capacità del soggetto di comprendere false credenze di primo e secondo ordine (false belief test). In questo contesto, i soggetti schizofrenici con sintomi positivi risultano deficitari rispetto al gruppo di controllo, fallendo selettivamente nella comprensione dei compiti di teoria della mente di secondo ordine (nota 1). Un caso esplicativo è rappresentato da uno studio condotto da Mazza et al. (14) su 35 adulti affetti da schizofrenia diagnosticati secondo i criteri del DSM-IV (31) e 27 volontari sani appartenenti al gruppo di controllo. I soggetti sono valutati attraverso sei storie di teoria della mente costruite in modo simile a quelle utilizzate in un precedente studio di Frith e Corcoran (32) con lo scopo di indagare l’abilità di comprendere false credenze di primo e di secondo ordine. I dati raccolti dimostrano che i pazienti schizofrenici ottengono una prestazione nei compiti di ToM significativamente peggiore rispetto a quella dei soggetti di controllo.

Anche l’ambito delle neuroscienze si è occupato in modo indiretto di studiare il meccanismo della ToM. È recente la scoperta nel cervello della scimmia (area F5) dell’esistenza di neuroni che accanto a proprietà motorie mostrano proprietà visive (33)-(35). Questi studi, basati sul metodo della registrazione di singoli neuroni, hanno rilevato, infatti, la presenza nell’area premotoria della scimmia di un sistema di neuroni, detti neuroni mirror, che rispondono sia quando la scimmia sottoposta alla condizione sperimentale mette in atto un’azione, sia quando osserva lo sperimentatore o un conspecifico eseguire un gesto simile. Questi neuroni si attivano non solo durante l’azione motoria, ma anche quando la scimmia osserva semplicemente la stessa azione motoria senza metterla in atto. Fadiga et al. (33) ipotizzano che un analogo sistema di corrispondenza sia localizzabile anche negli esseri umani nella corteccia premotoria (area 44 e 45). Studi di neuroimmagine funzionale (36)-(38) hanno permesso di osservare che quando un soggetto imita un’azione o si immagina mentre svolge un’azione o immagina un’altra persona mentre svolge un’azione, i sistemi di neuroni che si attivano per questo processo cognitivo sono esattamente gli stessi che si attivano nel momento in cui il soggetto realizza questi atti motori (39). Queste ricerche hanno portato alcuni autori (40) ad ipotizzare che il sistema dei neuroni mirror possa essere considerato il correlato a livello cerebrale della teoria della mente.

Una guida alla comprensione del meccanismo della teoria della mente è fornita soprattutto dagli studi sull’autismo infantile (41) (42). Nonostante tradizionalmente l’autismo e la schizofrenia siano stati rigidamente separati dal punto di vista diagnostico (31), gli schizofrenici che mostrano problemi nell’interazione sociale presentano difficoltà nella comprensione dei compiti di teoria della mente simili a quelle rilevate nei soggetti autistici (43) (44). Questi studi provano il fatto che la propensione a considerare i deficit nel meccanismo della teoria della mente come esclusivi del disturbo autistico sia stata superata e dimostrano in aggiunta l’utilità di studiare l’alterazione di questo meccanismo associato al disturbo schizofrenico.

La crisi dell’ipseità

Il modello proposto da Frith (2), pur con tutte le sue incongruenze, mette in rilievo uno degli aspetti forse più drammatici della psicopatologia della condizione schizofrenica: l’alterazione di ciò che Schneider (45) ha definito come “esperienza di meità”, ovvero il senso di appartenenza a sé dei propri atti psichici o motori. Ma come si struttura generalmente questo tipo di esperienza? Normalmente ogni tipo di consapevolezza (di un oggetto percettivo, di un’esperienza o della propria interiorità) è fondata su una forma di coscienza di sé tacita e preriflessiva, che funziona come un mezzo attraverso il quale avvengono tutte le altre esperienze e che determina la dimensione della soggettività (subjecthood). Si tratta di una forma di autoconsapevolezza primaria che è data immediatamente ed è preriflessiva. Essa si manifesta “come il primo personale modo dell’esperienza, come una certa meità, attraverso la quale io sempre sperimento il mondo e che rappresenta il terreno della mia autoidentificazione nell’atto riflessivo dell’introspezione” (46). Questa originaria autopresenza è la dimensione fondante dell’Io (I-ness) e costituisce ciò che Ricoeur (47) ha definito come ipseità. Un’esperienza è necessariamente impregnata dalla dimensione dell’ipseità: io sono consapevole che se percepisco un foglio di carta nella mia mano, si tratta di una mia percezione perché avviene nel campo della mia esperienza. Non è necessario creare questa presenza, perché viene già data come coscienza di sé tacita e preriflessiva: è una condizione dell’esperienza stessa, una caratteristica intrinseca, inseparabile dall’esperienza, e dalla quale essa è resa possibile (46). In questo livello di autopresenza di fronte al mondo, la distinzione soggetto-oggetto non è ancora del tutto sviluppata; su questo livello di presenza preconcettuale l’autoconsapevolezza, infatti, è “immediatamente data insieme con la consapevolezza del mondo” (48). Questa esperienza preriflessiva e preconcettuale rappresenta il dominio su cui si struttura quella forma più esplicita di relazione cosciente tra Sé e mondo in cui è possibile distinguere tra soggetto e oggetto e tra soggetto dell’esperienza in quanto oggetto nel mondo e altri oggetti del mondo.

La separazione tra queste due dimensioni della coscienza di sé risale al filosofo tedesco Immanuel Kant (49) (1724-1804), il quale opera una distinzione tra una dimensione espressa nella prospettiva della prima persona, interna all’individuo, che appartiene all’individuo stesso e a ciò che lo costituisce, ed una dimensione che riflette la prospettiva della terza persona, esterna all’individuo, contingente, un dominio in cui l’individuo si riferisce a se stesso nello stesso modo in cui si riferirebbe ad un elemento della realtà esterna. Kimura (50), a questo proposito, ricorre alla distinzione tra sé come soggetto di esperienza e sé come oggetto nel mondo; ma per rimanere legati alla filosofia kantiana si potrebbe parlare di “soggetto trascendentale” e “soggetto empirico”. La differenza tra queste due dimensioni (quindi tra il dominio del soggetto trascendentale ed il dominio del soggetto empirico) è connessa alla distinzione che sussiste tra la capacità del soggetto di essere consapevole di se stesso come soggetto per il mondo e la capacità di esserlo come oggetto nel mondo (51).

Utilizzando questa distinzione e rientrando in un ambito strettamente psicopatologico è possibile considerare la schizofrenia come un disturbo che implica un’alterazione che si colloca a livello del soggetto trascendentale (51). In altre parole, nella dimensione schizofrenica, il sé come oggetto nel mondo non sarebbe coinvolto; mentre la dimensione della soggettività – quindi la percezione di sé come soggetto nel mondo – sarebbe profondamente alterata. Questa è anche l’intuizione di Kimura (50), secondo il quale le modificazioni dell’esperienza di sé dominanti nel mondo schizofrenico sarebbero legate ad un’adesione, in questo rapporto Sé-mondo, a quello che viene identificato come “polo del soggetto”. In altre parole, nella dimensione schizofrenica, né l’ipseità né il mondo sarebbero dati immediatamente come matrice tacitamente presente. Di conseguenza, verrebbero a mancare le precondizioni elementari dell’esperienza, pre-condizioni in cui normalmente l’esperienza ha luogo e viene compresa. Anche Parnas (52) pone l’attenzione alla dimensione della soggettività: l’alienazione che domina il mondo schizofrenico sarebbe legata ad una diminuzione nella funzione dell’ipseità che porterebbe ad una dissociazione tra l’esperienza vissuta e il suo (normalmente imprescindibile) aspetto di appartenenza al soggetto.

Questa è una chiave di lettura in cui è possibile leggere l’alterazione dell’esperienza del Sé così presente nel disturbo schizofrenico. Le esperienze anomale dell’unità del Sé e della proprietà del Sé che si riscontrano nel disturbo schizofrenico possono essere viste come conseguenza della deprivazione di quel tacito sentimento della soggettività che normalmente è inseparabile dall’esperienza stessa (53). I vissuti di estraneità che accompagnano l’alterazione dell’esperienza della propria esistenza e la conseguente perdita del sentimento di meità nei confronti di ciò che appartiene alla propria esperienza rimandano al processo che Sass (54)-(56) identifica come tendenza “iperriflessiva”. Ciò che Sass descrive è un certo modo di funzionamento della coscienza che conduce ad una perdita di automatismo e di immediatezza: “Fenomeni che normalmente sarebbero inclusi a far parte del sé, vengono invece presi come oggetti di una consapevolezza focale e oggettivizzante” (56). Nell’idea di Sass la condizione schizofrenica è contrassegnata da un profondo dualismo che si concretizza, da un lato nella perdita dell’intenzionalità e dell’integrazione dei livelli più strutturati del Sé, dall’altro lato, in un sentimento di onnipotenza che può accompagnare i vissuti del paziente: “può sembrare che la propria coscienza sia sospesa al centro di controllo dell’universo e tutto il resto sia disposto intorno a circondare questa divinità solipsistica costituente” (56). Alla base di questa scissione Sass pone una tendenza iper-riflessiva, una condizione paradossale di cui il soggetto schizofrenico rimane prigioniero: “se la razionalità può essere definita come riflessività, potremmo anche sostenere che queste forme di incongruenza siano in realtà il prodotto di una specie di iper-razionalità; in un certo senso, forme di irrazionalità generate dalla razionalità stessa” (56). In pratica, le forme di disorganizzazione e di disfunzione che caratterizzano il disturbo schizofrenico riguardano qualcosa di più intricato e complesso che va oltre la constatazione classica di una mancanza di consapevolezza alla base dei vissuti schizofrenici. In realtà, la condizione schizofrenica è spesso caratterizzata da una specie di iper-consapevolezza, da un eccesso di riflessione sui propri processi psichici che dà luogo a ciò che Sass (54) chiama “il paradosso della riflessività”. La condizione paradossale si verificherebbe nel momento in cui il soggetto si trova a riflettere sui propri pensieri: quanto più, infatti, il soggetto si interroga sul pensiero, tanto più questo pensiero è reso oggettivo ed estraneo, quanto più è oggettivo ed estraneo, tanto meno è possibile sentirlo come proprio, e così fino ad arrivare a sentire questo pensiero come alieno. In definitiva, molti degli aspetti apparentemente irrazionali della schizofrenia costituiscono, secondo il modello proposto da Sass, non tanto l’espressione di una contraddizione profonda del paziente, quanto l’espressione di una condizione paradossale, che si rende evidente in “un eccesso di riflessione che conduce, da un lato ad un’oggettivazione della mente come macchina per guardare e dall’altro ad una soggettivazione del mondo come prodotto dell’attività costituita della propria mente, in grado di influenzare la realtà esterna” (57).

Il modello dell’iper-riflessività elaborato da Sass si colloca all’interno di una prospettiva di ricerca riconducibile al “razionalismo morboso” di cui scriveva Eugène Minkowski circa mezzo secolo fa (58). A differenza dei modelli che ipotizzano la presenza di deficit cognitivi alla base della condizione schizofrenica (il modello descritto da Frith costituisce un esempio e al tempo stesso un limite di questo approccio), l’iper-autocoscienza cerca, all’opposto, di esplorare le contraddizioni più profonde della mente schizofrenica che si trova divisa tra l’iper-razionalità e l’irrazionalità delle sue posizioni. Nell’insieme di coloro che non si sono fermati alla tradizionale ed esclusiva concezione di una mancanza di consapevolezza alla base dei vissuti schizofrenici e che si sono spinti oltre le teorie del deficit cognitivo, il modello di Sass costituisce quindi un’interessante prospettiva da tenere in considerazione. In conclusione, parafrasando Gallagher (10), nonostante l’apparente distanza che separa la teoria dell’autocontrollo di Frith dal meccanismo dell’iper-riflessività di Sass, si potrebbe anche avanzare l’ipotesi che queste due visioni possano trovare nella complessa fenomenologia schizofrenica un punto di unione. L’alterazione nel processo di controllo del pensiero schizofrenico potrebbe, infatti, essere letta alternativamente nei termini di un’alterazione nel meccanismo del controllo della propria attività mentale o nei termini di tendenza iper-riflessiva che conduce il soggetto a sentire ciò che genera come alieno.

Note

(nota 1) Nelle storie di primo ordine un protagonista ha una falsa credenza di uno stato del mondo mentre nelle storie di secondo ordine un protagonista ha una falsa credenza riguardo alla credenza di un altro protagonista.

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