Schizofrenia simplex: attualità del pensiero di Eugen Bleuler

Simple schizophrenia: modernity of Eugen Bleuler’s thinking

L. Pelizza

Unità Operativa di Psichiatria, Presidio Ospedaliero "Oglio Po", Azienda Ospedaliera "Istituti Ospitalieri" di Cremona (CR)

Key words: Simple Schizophrenia • Bleuler • Simple Deterioration Disorder
Correspondence: Dr. Lorenzo Pelizza, via Petrarca 11, 43100 Parma – Tel. +39 521 281456 – Cell. 347 0198954 – E-mail:anolino@yahoo.it

Introduzione

“… Non provo alcun dolore, io sto come regredendo.
… Le tue labbra si muovono, ma non riesco a sentire quello che stai dicendo.
… Non posso spiegare, tu non capiresti. Non sono più me stesso:
… sono diventato confortevolmente insensibile”.
(R. Waters: Comfortably Numb, The Wall, 1979).

Il concetto di Schizofrenia Simplex nacque nei paesi europei di lingua tedesca agli inizi del ’900, in seno all’acceso dibattito sorto intorno alle entità nosografiche appena proposte da Kraepelin (1) nel 1896, e deve ad Eugen Bleuler la sua piena formulazione.

Nella monografia (2) dal titolo “Dementia Praecox o il Gruppo delle Schizofrenie” (pubblicata nel 1911) Bleuler, rigettando l’impostazione kraepeliniana fondata sul criterio evolutivo, sostituì al termine “dementia praecox” quello di “schizofrenia” ed identificò nella frattura e dissociazione delle varie funzioni psichiche (“spaltung”) la perturbazione fondamentale che costituiva il comune denominatore dei diversi aspetti clinici della demenza precoce, che ne giustificava l’unitarietà nosografica e che rappresentava, per l’autore, l’alterazione primaria ed essenziale da cui derivavano tutti i sintomi della malattia. Il suo approccio psicopatologico portò, come ha più volte sottolineato Callieri (3), “… ad una dilatazione dei confini nosografici della schizofrenia”, nell’ambito della quale egli incluse, accanto all’Ebefrenia di Hecker (4), alla Catatonia di Kahlbaum (5) ed alla Demenza Paranoide di Kraepelin (1), i casi latenti, ambulatoriali e frenati, le forme fruste e pseudonevrotiche, le psicosi che si instauravano in personalità psicopatiche ed un nuovo quadro clinico denominato varietà simplex (3) (6).

Origini del concetto

Le caratteristiche cliniche salienti della schizofrenia simplex, tuttavia, erano già state descritte da alcuni psichiatri europei della fine dell’800 (7).

Lo stesso Bleuler (2), infatti, fece risalire questa nuova condizione a Kahlbaum (5), il quale, nel 1890, descrisse una forma sfumata di ebefrenia, definita “eboidofrenia”, che si manifestava principalmente con semplici cambiamenti del carattere che includevano disturbi della condotta ed alterazione dei sentimenti sociali.

Precursori del concetto possono anche essere ritenute le descrizioni cliniche della demenza semplice primaria che Bleuler (2) riprese da Clouston (8), Pick (1891) e Sommer (1894). Il primo, in particolare, sottolineò come “… alcuni pazienti diventassero semplicemente più deboli intellettualmente ed affettivamente, perdessero la forza di volontà e non fossero più in grado di lavorare e di badare a loro stessi” (8), mostrando progressivamente una pronunciata demenza.

Fu comunque Diem (9) a descrivere per la prima volta, nel 1903, il quadro semplice della dementia praecox e ad evidenziare che il deterioramento mentale proprio della malattia si poteva sviluppare anche senza modificazioni nel decorso e senza condimento sintomatologico. Questo peculiare sottotipo demenziale, infatti, era, secondo l’autore, caratterizzato “… da un esordio subdolo, da un andamento cronico e da un’alterazione dell’affettività (con appiattimento emotivo ed apatia) che si instaurava assieme ad un disturbo dell’intelligenza (con blocco del corso del pensiero e giudizio deficitario)”.

Eugen Bleuler

Nell’accezione bleuleriana, la schizofrenia simplex si caratterizzava per la presenza esclusiva dei sintomi fondamentali (allentamento dei nessi associativi, anaffettività, ambivalenza, autismo [“…caratteristici ed universali nel disturbo schizofrenico, perché presenti in ogni caso ed in ogni periodo della malattia” (2)]) in assenza delle manifestazioni accessorie di tipo ebefrenico, catatonico e paranoide (allucinazioni, deliri, fenomeni catatonici [“… aspecifici perché presenti anche in altre patologie mentali e meno importanti per la diagnosi della schizofrenia, non riscontrandosi, infatti, nelle sue forme più lievi e latenti; … essi, inoltre, possono mancare per un certo periodo di tempo o persino per tutto il decorso della malattia, benché, in molti casi, possano determinare il quadro clinico in modo durevole e da sole” (2)]).

Secondo l’autore, l’esordio della variante schizofrenica semplice interessava prevalentemente l’adolescenza e l’età giovanile adulta; era lento, subdolo, insidioso, senza la comparsa di una vera e propria fase attiva di malattia. Il quadro clinico risultava, pertanto, privo di sintomi appariscenti; dominavano l’affievolimento e la coartazione delle attività cognitive, volitive ed affettive del soggetto, espressione di un impoverimento e di un appiattimento delle caratteristiche più salienti della personalità (2) (10). Il suo decorso, insidiosamente progressivo ed insensibile a qualsiasi provvedimento terapeutico (2), era caratterizzato da un graduale indebolimento degli affetti e dell’intelligenza, da un impoverimento globale del comportamento e da una perdita progressiva delle capacità sociali e lavorative, fino alla comparsa di un deterioramento mentale quantitativamente e qualitativamente indistinguibile da quello proprio degli altri sottogruppi schizofrenici (10).

Bleuler sottolineò, inoltre, come, nella pratica ambulatoriale, la varietà simplex fosse spesso rilevabile anche nei parenti dei pazienti per i quali veniva richiesta la consultazione, ponendo con acutezza in rilievo i suoi aspetti eredo-costituzionali. In questi casi, secondo l’autore, la malattia risultava essere un aggravamento quantitativo di un’anomalia, qualitativamente identica, già presente nei fratelli, nelle sorelle e nei genitori (2).

Qualche anno più tardi, Bleuler (12), riprendendo il concetto di “schizoidia” introdotto in letteratura da Binswanger (11) per etichettare l’assetto personologico premorboso dei soggetti con dementia praecox e le anomalie psicopatiche rilevate nei familiari di questi pazienti, evidenziò anche come l’esordio della variante semplice fosse in molti casi inavvertito e consistesse in un trapasso insensibile da una personalità premorbosa di tipo schizoide alla forma morbosa con la sua tipica sclerosi della vita affettiva e sociale. Nello schizoide, secondo l’autore, veniva meno il giusto equilibrio tra i due principi vitali fondamentali dell’esistenza umana: la “sintonia” (ovvero la capacità di vibrare all’unisono con l’ambiente) e la “schizoidia” (ossia la tendenza a sottrarsi all’influenza affettiva della realtà per favorire l’affermazione della dimensione personale). Il prevalere della componente schizoide portava al distacco dalla realtà ed al ripiegamento su se stessi e rendeva l’individuo incapace di inserirsi sintonicamente nel succedersi delle situazioni e di modulare il proprio atteggiamento ed il proprio comportamento in armonia al variare degli eventi ambientali (10) (12). Secondo Bleuler, la schizoidia costituiva, quindi, “… un modo di essere psichico presente in tutti gli individui, che compariva aumentato in maniera patologica nella schizofrenia e nel suo stato medio nelle personalità psicopatiche (di tipo schizoide)” (12). Con questa affermazione egli inaugurò, così, forse inconsapevolmente, la stagione dello “spettro schizofrenico” (13).

In conclusione, Bleuler si risolse a coniare il termine “schizofrenia simplex” per rendere riconoscibili al medico tutti i numerosi schizofrenici che, per il decorso lungo e subdolo della malattia e per l’assenza di sintomi psicotici produttivi, venivano di solito diagnosticati come psicopatici, alcoolisti o addirittura considerati sani (14). Questi pazienti, che diventavano semplicemente ma progressivamente più deboli intellettualmente ed affettivamente e perdevano, con la forza di volontà, la capacità di lavorare e di badare a loro stessi, scendendo progressivamente nella scala sociale, venivano, infatti, secondo l’autore, raramente istituzionalizzati (2). Essi, per lo più, vegetavano nei bassifondi della società come vagabondi, barboni, tossicomani, alcoolisti, piccoli criminali o prostitute; altri, tra la gente eccentrica di ogni sorta, si proponevano come riformatori e salvatori del mondo, filosofi, scrittori ed artisti. Sebbene la forma simplex giungesse di rado all’osservazione psichiatrica, fuori dai presidi ospedalieri, essa era, per Bleuler, tanto frequente almeno quanto gli altri sottogruppi schizofrenici (2). I malati, infatti, spesso non avevano consapevolezza del cambiamento della loro personalità, né si lamentavano dell’isolamento sociale in cui si erano rinchiusi: “… sembrava trovassero naturale il fallimento della loro vita e talora giustificavano la loro solitudine con astrusi concetti filosofici, politici o religiosi” (10).

Kraepelin accolse il concetto bleuleriano di “schizofrenia simplex” soltanto nella VIII edizione del suo Trattato di Psichiatria (15) (pubblicato nel 1919) ed individuò nell’impoverimento e nella desolazione di tutta la vita psichica i tratti caratteristici della variante semplice della dementia praecox (7) (14), i quali comparivano in modo impercettibile e si manifestavano inizialmente con ripetuti fallimenti scolastico-lavorativi e come progressivo isolamento sociale ed interpersonale. Il paziente appariva privo di sentimenti, diventava timido ed indifferente; il corso del suo pensiero difficoltoso e povero di idee; il circolo dei suoi interessi progressivamente più ristretto. Le relazioni interpersonali si facevano fredde e non mostravano alcun attaccamento né simpatia; la volontà sempre più debole fino ad una completa incapacità nella progettazione e nella pianificazione del futuro. L’esito finale della dementia simplex (praecox) era, secondo l’autore, inevitabilmente volto verso il deterioramento mentale, sebbene la condizione demenziale terminale potesse essere anche di grado non marcato (15).

Era post-Bleuleriana

I contributi di Diem (9), Bleuler (2) e Kraepelin (15) divennero ben presto patrimonio della cultura psichiatrica internazionale e la forma simplex della schizofrenia, accettata quasi universalmente come specifica entità nosografica, venne inclusa tra i sottogruppi tradizionali della malattia (6) (7) (14).

Le diverse descrizioni reperibili nella trattatistica internazionale degli ultimi cinquant’anni contribuirono, tuttavia, ad un ampliamento delle caratteristiche cliniche della sindrome bleuleriana, introducendo, accanto ai sintomi fondamentali, sempre nuovi e svariati elementi psicopatologici, i quali “… portarono all’identificazione di un disturbo dai confini diagnostici indistinti ed all’allargamento dei suoi limiti nosografici” (7). White (16), ad esempio, sottolineò l’importanza della desolazione dell’affettività e dei vissuti di depersonalizzazione; Henderson (17) le cenestesie ed i sintomi ipocondriaci; Noyes (18) i disturbi formali del pensiero e la disattenzione; Sadler (19) la mancanza di insight e le bizzarrie motorie; Mayer-Gross (20) le alterazioni del ritmo sonno-veglia; Lehmann (21) la possibilità che il quadro clinico potesse essere preceduto da brevi episodi psicotici acuti con sintomi catatonici ed allucinatori e che, dopo anni di progressivo deterioramento cognitivo, potessero affiorare fugaci tematiche deliranti.

Alla fine degli anni ’80, Black e Boffeli (7) sintetizzarono le varie descrizioni della forma simplex nella trattatistica nord-americana e nei diversi sistemi classificativi fino ad allora pubblicati (DSM-I e -II, ICD-8 e -9), sottolineando come, “… in sostanziale aderenza alla tradizione, fossero rilevabili, negli svariati contributi, modeste e sovente contraddittorie varianti sintomatologiche” (ad esempio la presenza o meno di fugaci sintomi psicotici produttivi). Soltanto l’appiattimento affettivo, l’abulia, l’esordio lento ed insidioso ed il deterioramento mentale erano accettati da tutti gli autori.

a) Letteratura Nord-Americana

Il concetto di schizofrenia simplex nella psichiatria nord-americana del secondo dopoguerra trovò, sulla scia dei contributi di Bleuler (2) e della cultura psichiatrica classica, il suo naturale compimento nella descrizione proposta dal DSM-I (22). Nella prima edizione del manuale dell’APA, pubblicata nel 1952, la sindrome venne descritta come un tipo di reazione (“reaction”) caratterizzata da un impoverimento delle relazioni interpersonali e da una riduzione degli affetti e degli interessi, le quali comportavano un adattamento ad un più basso livello psico-biologico di funzionamento in assenza di rilevanti fenomeni deliranti e/o allucinatori.

Il DSM-II (23), edito nel 1968, non appose sostanziali modifiche alla definizione proposta nella prima edizione del manuale. Gli autori, infatti, si limitarono soltanto ad enfatizzare l’importanza del processo di deterioramento mentale come esito finale della malattia, senza, tuttavia, specificarne la gravità, inclusa la possibilità di un’eventuale condizione terminale di tipo demenziale. La sindrome venne descritta come una forma di psicosi (“psychosis”) caratterizzata dalla comparsa di una lenta ed insidiosa riduzione degli affetti e degli interessi (con apatia ed indifferenza emotiva), la quale conduceva progressivamente ad un impoverimento delle relazioni interpersonali, a deterioramento mentale e ad un più basso livello di funzionamento sociale e lavorativo.

Nella psichiatria statunitense il termine “simplex” finì, così, per identificare un disturbo psicotico “less dramatic” (7) rispetto ai sottogruppi schizofrenici tradizionali, con confini nosografici indistinti e sintomi poco chiari (ad esempio l’incertezza circa la presenza o meno di fugaci fenomeni deliranti ed allucinatori), e pertanto di dubbia validità. Revisioni critiche del concetto evidenziarono, infatti, come la forma semplice fosse diventata una sorta di categoria diagnostica “cestino dei rifiuti” (24), dove confluivano casi di lieve ipocondria, di ebefrenia deteriorata, personalità psicopatiche e peculiari fissazioni del carattere. Alla fine degli anni ’60, Stone (25) sottolineò la scarsità delle sue evidenze cliniche (tra il 1930 ed il 1968 la sua prevalenza ospedaliera negli USA era soltanto dello 0,1-0,2%) e l’estrema vaghezza e contraddittorietà dei criteri diagnostici disponibili, i quali fallivano nel discriminare i sintomi bleuleriani fondamentali da quelli accessori. Secondo l’autore, infatti, “… la maggioranza degli schizofrenici semplici presentava o aveva in precedenza manifestato sintomi psicotici produttivi”. La presunta mancanza di deliri ed allucinazioni dipendeva, per stone da un’inadeguata raccolta delle informazioni anamnestiche e dal fatto che essi spesso non venivano riferiti dai pazienti. Inoltre, non andava esclusa la possibilità che il quadro clinico descritto come simplex fosse in relazione con la comparsa di un danno organico cerebrale o di un lieve ritardo mentale. In altre parole, lo sforzo di Bleuler di includere questi soggetti in un unico e coerente sottogruppo schizofrenico risultava, per Stone, “ingannevole e semplicistico”, in quanto tale sindrome non era altro che “… una vaga ed inaffidabile entità nosografica”. Nel 1981, Strauss e Carpenter (26) suggerirono di escludere la variante simplex dal circolo schizofrenico, non tanto negando la possibile esistenza di forme sub-psicotiche o sub-cliniche di schizofrenia, quanto la loro affidabilità diagnostica, data “… l’impossibilità di valutarne il decorso a lungo termine”. Secondo questi autori, infatti, la diagnosi differenziale con la personalità schizoide era spesso inattuabile in assenza del dato relativo all’andamento cronico ingravescente proprio della sindrome bleuleriana.

Nel DSM-III (27), pubblicato nel 1980, la psichiatria nord-americana, in accordo alle critiche avanzate da Stone (25), Strauss e Carpenter (26), sentì la necessità di ridimensionare l’area diagnostica della schizofrenia, i cui confini nosografici erano divenuti troppo ampi e tendevano ad includere alcune forme morbose non propriamente psicotiche (quali le varianti simplex e latente), e di fondarla su elementi clinici facilmente riconoscibili ed altamente riproducibili, come si erano rivelati essere i sintomi positivi (28). Complesse motivazioni, legate anche alla necessità di recuperare una concezione kraepeliniana della schizofrenia negli Stati Uniti (14), spinsero, pertanto, i promotori del DSM-III (27) a circoscrivere la malattia schizofrenica esclusivamente ai disturbi psicotici più gravi e “more dramatic” (29), al fine di identificare una popolazione di pazienti più omogenea in termini di esordio precoce, prevalenza familiare e deterioramento funzionale. Essi recisero dal corpo schizofrenico la “coda” di questa malattia (29), rappresentata dalle sue forme fenomenicamente meno gravi e non psicotiche, le quali vennero invece trasferite nell’ambito dei Disturbi di Personalità, ed in particolare in quelli Schizoide e Schizotipico.

La collocazione della schizofrenia simplex tra le varietà personologiche abnormi ha tuttavia fatto perdere alcune delle caratteristiche cliniche proprie della sindrome bleuleriana, ed in particolare quelle legate al semplice deterioramento mentale (7). Per definizione, infatti, il concetto di disturbo di personalità rinvia a tratti stabili, durevoli e maladattativi, ma non è in grado di cogliere l’aspettata traiettoria discendente del decorso schizofrenico semplice, volto, appunto, verso il declino degli aspetti cognitivi, affettivi e volitivi della personalità (14).

b) Letteratura Europea

In direzione antitetica rispetto agli Stati Uniti, si sono orientate alcune scuole psichiatriche europee.

La psichiatria sovietica, ad esempio, ha prodotto numerosi ed accurati studi clinici, genetici ed eredo-familiari sulle forme miti di schizofrenia. In questi quadri clinici a lento decorso (“sluggish schizophrenias” (30)), considerati come entità sindromiche relativamente indipendenti ed intermedie tra le psicosi schizofreniche ed i disturbi di personalità, vennero incluse le varianti simplex (quella con più elevata incidenza familiare) e pseudonevrotica. Secondo Kirov (30), le sluggish schizophrenias si caratterizzano “… per un andamento longitudinale lento e progressivo con manifestazioni sub-cliniche nel periodo latente, chiari sintomi psicopatologici nella fase attiva, la graduale scomparsa dei sintomi positivi e la prevalenza di quelli negativi (di marca prevalentemente psico-sociale, quali ridotta capacità lavorativa e compromissione dell’iniziativa) nella fase di stabilizzazione”. Diversamente dall’orientamento anglosassone, la diagnosi di schizofrenia mite per i sovietici non può fondarsi su criteri esclusivamente sintomatologici, ma deve avvalersi di indicatori clinici ampi che includono anche la valutazione della personalità premorbosa, della storia dei cambiamenti del carattere, della compromissione delle capacità socio-lavorative e dell’incidenza familiare di psicosi schizofrenica e/o di deterioramento mentale.

Nei paesi di lingua tedesca, la schizofrenia simplex ha alimentato lo sviluppo dello studio psicopatologico della psicosi schizofrenica, ponendosi come elemento centrale per la comprensione diagnostica e nosologica della malattia stessa. A questo proposito, Binswanger (31) fu particolarmente attratto dalla forma semplice, che vedeva come “… forma clinica privilegiata per afferrare, con il “metodo daseins-analitico”, l’essenza dell’esistere schizofrenico”. Secondo l’autore, la molteplicità e la vaghezza dei sintomi che coprivano l’intero spettro della sua psicopatologia indicavano “… in modo inequivocabile, proprio per il loro polimorfismo e per la loro indeterminatezza, un processo morboso che procedeva senza tregua”. Blankenburg (32), invece, analizzò la forma simplex in quanto povera di sintomi (“paucisintomatica”) perché in essa poteva essere colto il disturbo fondamentale della schizofrenia, che l’autore individuò “… nella perdita dell’ovvietà naturale, nello scacco di una riflessione che aveva smarrito la sua intenzionalità, la sua spontaneità e naturalezza”. Egli, inoltre, stigmatizzò più volte la tendenza della ricerca clinica e fenomenologica ad orientarsi soprattutto verso le varianti produttive perché sintomatologicamente più facili da cogliere.

Wyrsch (33), infine, approfondì con grande accuratezza gli aspetti clinici della sindrome bleuleriana. In essa, secondo l’autore, non si rilevavano sintomi fondamentali (eccetto l’autismo e l’ambivalenza, “entrambi semeioticamente ambigui”), ma un deficit dell’attenzione, un’intensa affaticabilità ed una fragilità emozionale, i quali da un lato potevano anche emergere in condizioni non psicotiche di fatica inabituale e di disattenzione esasperata, ma dall’altro lato ingeneravano “… l’impressione clinica di un difetto quasi già organico”. L’esito, infatti, era inesorabilmente volto verso il naufragio sociale. Nell’intento di differenziare la personalità schizoide dai casi di schizofrenia simplex, Wyrsch (33) indicò alcuni elementi costitutivi, connotandoli come “… sigillo inconfondibile ed emblematico della condizione schizofrenica”: (1) la mancanza di periodicità nel decorso, (2) l’assenza di un orizzonte di creatività e di progettualità e (3) la scarsa presa di coscienza nei riguardi della sintomatologia clinica, la quale non veniva dal soggetto interiormente elaborata, né sovracompensata (come nelle altre forme di schizofrenia), né chiamata a far parte della storia della vita del paziente. L’espressione di vita del malato mancava, pertanto, di coerenza interna e di senso: egli appariva slegato e sradicato dalla sua esistenza quotidiana, “… cosicché un osservatore attento, anche ignorando la storia, riusciva intuitivamente a cogliere la ‘Gestalt’ schizofrenica”. Secondo questa linea di pensiero psicopatologico, dunque, da un lato esistono i malati paranoidi, ebefrenici e catatonici che, nonostante le loro psicosi, rimangono persone, “scisse” (14), ma in grado di rappresentarsi in qualche modo la schizofrenia; dall’altro, vi sono, invece, i pazienti con decorsi semplici i quali non riescono a figurarsi nel mondo.

Nella psichiatria di lingua tedesca, in conclusione, la variante schizofrenica semplice venne così ad assumere il significato di vera schizofrenia (14), quella che Borgna (34), sottolineando il valore del metodo intuitivo di Binswanger (32) e Wyrsch (33), ha denominato, con acutezza, “schizofrenia sine schizofrenia”.

Sistemi nosografici attuali

Il problema maggiore posto al clinico dalla variante semplice di Bleuler è quello della diagnosi (14), che spesso è arduo formulare basandosi esclusivamente sulla presenza di sintomi fondamentali difficili da cogliere. Il disturbo delle associazioni, infatti, rimane il più delle volte sub-clinico e, insieme all’impoverimento dell’affettività e della volontà, conduce soltanto ad una diagnosi presuntiva di schizofrenia simplex. La difficoltà diagnostica è, inoltre, complicata dal fatto che, per lungo tempo, i sintomi del processo si manifestano ambiguamente, come disturbo della personalità con le relative complicanze (quali tossicodipendenza ed alcoolismo) (35).

Queste problematiche diagnostiche hanno spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a definire, per la prima volta in termini operativi, l’entità nosografica “schizofrenia simplex” all’atto della pubblicazione dell’ICD-10 (36), nel 1992. Il manuale dell’OMS propone, come criteri diagnostici, i consueti parametri sociali e definisce questo sottogruppo schizofrenico come “… una condizione poco frequente (uncommon disorder) in cui si osserva un insidioso e progressivo sviluppo di stranezze del comportamento, un’incapacità di rispondere alle aspettative della società ed un declino complessivo delle prestazioni, in assenza di evidenti deliri ed allucinazioni”. In questo disturbo, meno manifestatamente psicotico rispetto ai sottotipi ebefrenico, catatonico e paranoide, i caratteristici aspetti “negativi” della schizofrenia residua (in particolare l’appiattimento affettivo e l’abulia) si sviluppano senza essere preceduti da alcun florido fenomeno produttivo. Con il crescere dell’impoverimento sociale, il paziente può diventare sempre più isolato, abulico e privo di interessi e la sua vita perde di scopo e di progettualità. I promotori dell’ICD-10, tuttavia, raccomandano cautela nell’uso di questa categoria nosografica, essendo la diagnosi, specie per i clinici con poca esperienza, difficoltosa, dati l’ambiguità ed il carattere spesso sub-clinico dei suoi sintomi (35).

Il DSM-IV (37), pubblicato nel 1994, ha complessivamente rivalutato il significato prognostico della sintomatologia negativa, la quale ha dimostrato di essere più specifica e predittiva del decorso a lungo termine della schizofrenia, perché meno transitoria di quella positiva (28). L’evidenza che essa costituisce l’aspetto più psicologicamente debilitante e farmacologicamente refrattario della psicopatologia schizofrenica (29) ha fatto sì che nel criterio A della malattia fosse presa in considerazione anche la presenza di appiattimento affettivo, alogia ed abulia.

Le commissioni di revisione del DSM-III, costituitesi per rivedere i criteri diagnostici dei disturbi dello spettro schizofrenico in vista della pubblicazione della quarta edizione del manuale, furono particolarmente interessate alla riconsiderazione del concetto di schizofrenia simplex nella sua formulazione originaria (disturbo non manifestatamente psicotico con decorso volto verso il deterioramento mentale (2)), il quale non sembrava aver trovato un’adeguata collocazione nosografica nelle categorie diagnostiche ad esso più vicine, e cioè nella Schizofrenia Residuale e nei Disturbi Schizoide e Schizotipico di Personalità (14). I pazienti affetti da psicosi schizofrenica cronica di tipo residuo, infatti, devono, per definizione, avere in precedenza manifestato una fase attiva di malattia, caratterizzata dalla presenza dei sintomi produttivi del criterio A; i disturbi di personalità, come sottolineato in precedenza, rinviano al contrario a tratti stabili, duraturi e maladattativi, ma non al deterioramento funzionale proprio della forma simplex che coinvolge le aree lavorativa, sociale e della cura di sé. Diverse invece furono, secondo Black e Boffeli (7), le ragioni di questa riconsiderazione: in primo luogo, i precedenti storici del disturbo; in secondo luogo, le sue evidenti relazioni genetiche e le somiglianze cliniche con gli altri sottogruppi schizofrenici; infine, il reale beneficio che ne avrebbe necessariamente tratto il concetto di spettro schizofrenico dalla formulazione di una definizione operativa di schizofrenia simplex. Gli estensori del DSM-IV elaborarono, pertanto, specifici criteri diagnostici per definire operativamente la sindrome bleuleriana al fine di spingere la ricerca scientifica a smentirne o supportarne l’affidabilità e la validità, e la collocarono nell’appendice B del manuale con l’appellativo di “Disturbo di Deterioramento Semplice”, non classificandola, comunque, tra i sottotipi della schizofrenia.

La manifestazione essenziale del Disturbo di Deterioramento Semplice è rappresentata dall’insidioso e progressivo sviluppo (in un periodo di almeno un anno) di rilevanti sintomi negativi (quali appiattimento affettivo, alogia ed abulia), i quali rappresentano un cambiamento netto rispetto ad una condizione standard di base. Questa sintomatologia, cioè, deve essere abbastanza grave da causare un declino marcato nel funzionamento scolastico o lavorativo ed una perdita rilevante dei rapporti interpersonali, fino all’isolamento ed al ritiro sociale. Se sono stati presenti sintomi psicotici produttivi, essi non sono mai stati predominanti e non hanno mai soddisfatto il criterio A della schizofrenia. Questa condizione, infine, deve essere presa in considerazione soltanto dopo aver escluso tutte le altre possibili cause di deterioramento. In altre parole, il quadro clinico non deve essere meglio attribuibile ad un disturbo schizoide o schizotipico di personalità, ad un disturbo psicotico, un disturbo dell’umore o d’ansia, ad una demenza o ritardo mentale, ed i suoi sintomi non devono essere dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza né ad una condizione medica generale.

Secondo il DSM-IV, il Disturbo di Deterioramento Semplice può manifestarsi in adulti ed adolescenti di entrambi i sessi e, sebbene stime affidabili circa la sua prevalenza ed incidenza non siano ancora oggi disponibili, sembra essere piuttosto raro. Il decorso, almeno per i primi anni, risulta progressivamente ingravescente e continuativo, con deterioramento rilevante del funzionamento socio-lavorativo, marcato declino cognitivo e profondo cambiamento della personalità, i quali assomigliano all’esito più tipico della schizofrenia e distinguono il Disturbo di Deterioramento Semplice dalle Personalità Schizoide e Schizotipica. Nel corso del tempo è possibile che possano manifestarsi i sintomi corrispondenti al criterio A per la schizofrenia. In questi casi, in cui il quadro di deterioramento semplice si dimostra come una prolungata fase prodromica della malattia schizofrenica, la diagnosi, per l’Associazione Psichiatrica Americana (APA), deve essere necessariamente mutata in schizofrenia.

Alcune pubblicazioni scientifiche internazionali, edite nel corso dell’ultimo decennio, sembrano sostenere la validità del costrutto “Disturbo di Deterioramento Semplice – Schizofrenia Simplex”, da intendersi come sottotipo schizofrenico relativamente raro (prevalenza dello 0,05% [4-8% di tutte le psicosi schizofreniche che giungono all’osservazione psichiatrica] (38)) ed inabilitante, correlato geneticamente alle forme tradizionali della malattia e probabilmente secondario ad un’ipodopaminergia prefrontale (39). Secondo Dworkin (38) e Kendler (39), infatti, tra la schizofrenia simplex ed i sottotipi schizofrenici tradizionali non esisterebbero differenze statisticamente significative in termini di età d’esordio, adattamento sociale premorboso ed entità a lungo termine della sintomatologia negativa e dei livelli di funzionamento cognitivo e socio-lavorativo. Per Ramasubbu (40), le somiglianze di profilo clinico e psicopatologico esistenti tra varietà semplice e schizofrenia negativa (prevalenza di sintomi negativi e di alterazioni cognitive, assenza di rilevanti fenomeni produttivi, mancata risposta al trattamento con neurolettici tipici) indurrebbero ad ipotizzare una possibile suddivisione di quest’ultima nei sottotipi residuo (stadio finale di una schizofrenia positiva) e simplex (caratterizzato fin dall’inizio dalla presenza dei soli aspetti negativi della malattia, senza alcuna precedente fase psicotica attiva).

In attesa del completamento di studi clinici sulla validità di questa entità nosografica e delle loro eventuali implicazioni prognostiche e terapeutiche, Kaplan (35) suggerisce di formulare la diagnosi con cautela e precauzione. Infatti, “… sebbene solo pochi medici possano affermare di non avere mai visto pazienti che soddisfano i criteri di ricerca del Disturbo di Deterioramento Semplice, molti ricercatori e clinici hanno espresso serie riserve sulla sua affidabilità diagnostica. In primo luogo, il termine ‘deterioramento semplice’ può significare implicitamente ed in modo errato una stretta relazione con la psicosi schizofrenica e può etichettare in modo negativo i pazienti cui viene fatta tale diagnosi. In secondo luogo, i criteri proposti possono definire un gruppo di soggetti eccessivamente allargato, i quali potrebbero essere meglio classificati come affetti da disturbo depressivo maggiore, distimia, abuso di sostanze o disturbo di personalità”. La sovrapposizione con queste categorie nosografiche è, infatti, per Kaplan, chiaramente presente e richiede l’applicazione di un giudizio clinico variabile secondo i casi ed aprioristico, per decidere correttamente tra le alternative diagnostiche che di volta in volta si pongono alla valutazione dello psichiatra.

Conclusioni

Nel corso dell’ultimo decennio la psichiatria nord-americana sembra aver finalmente preso coscienza del valore pragmatico del concetto classico di schizofrenia simplex (“… forma clinica privilegiata per afferrare l’essenza dell’esistere schizofrenico” [Binswanger (31)]), troppo drasticamente e frettolosamente accantonato nella terza edizione del DSM (14). Il problema delle relazioni tra forme miti di psicosi schizofrenica e condizioni borderline (quali i Disturbi Schizoide e Schizotipico di Personalità) non può essere, infatti, risolto con il semplice trasferimento di un’area di manifestazioni psicopatologiche da un gruppo nosografico all’altro (29).

Ciò di cui necessita, come già sottolineava Jaspers (41) a suo tempo, è piuttosto di una “… riconsiderazione della schizofrenia come realtà clinica inquietante e sconfinata, che non esaurisce la sua ragione d’essere in sintomi obiettivamente identificabili, ma che si manifesta invece, nella sua radicalità ed essenza, coinvolgendo la totalità psichica, la quale non può essere colta se non con il procedere metodologico proprio della psicopatologia e della fenomenologia. … Nell’approccio diagnostico alla schizofrenia, infatti, non si può prescindere dalla intuizione, da quella che Wyrsch definiva ‘sensazione-praecox’ dell’essenza schizofrenica. Il riconoscimento intuitivo della persona schizofrenica non si basa soltanto su segni obiettivi come le espressioni facciali o gestuali, o su un cattivo contatto emozionale, né esclusivamente su un deterioramento della comprensione delle motivazioni delle altre persone. La sensazione-praecox spesso non ha niente a che fare con i sintomi o con altre caratteristiche individuali, ma, al contrario, ha a che vedere con un certo modo di essere nel mondo e di farne parte, con una definita incomprensibilità circa la temporalità e la spazialità della persona, circa le sue modalità di relazionarsi con gli altri”. In questo senso, l’area diagnostica della schizofrenia non può pertanto limitarsi esclusivamente alle forme più gravi e manifestatamente psicotiche della malattia, ma deve necessariamente fare i conti con il concetto bleuleriano di schizofrenia simplex.

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