Terapia di potenziamento degli antipsicotici con farmaci non convenzionali nel trattamento della schizofrenia

Augmentation therapy of antipsychotics by no conventional drugs in schizophrenia treatment

R. Mondola, S. Magara, A. Eramo, A. De Bartolomeis

Università "Federico II" di Napoli, Dipartimento di Neuroscienze e di Scienze del Comportamento, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Laboratorio di Psichiatria Molecolare

Key words: Schizophrenia • Augmentation therapy • Antipsychotics • D-cycloserine • Sarcosine • Cyproeptadine • Idazoxan • Celecoxib • Selegiline • Naltrexone • Ethyl eicosapentaenoic acid • Deidroepyandrosterone
Correspondence: Dr. Andrea de Bartolomeis, Laboratorio di Psichiatria Molecolare, Dipartimento di Neuroscienze e di Scienze del Comportamento, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università “Federico II” di Napoli via S. Pansini 5, 80131 Napoli – Tel. +39 081 7463673 – Fax +39 081 7462378 – E-mail: adebart@tiscali.it

Introduzione

Dall’introduzione dei primi farmaci antipsicotici avvenuta alla fine degli anni ’50, importanti progressi sono stati fatti nel campo della terapia farmacologica della schizofrenia. Tali progressi rappresentano il risultato di un’intensa ricerca, effettuata negli ultimi 30 anni, nel campo delle neuroscienze di base e della psicofarmacologia clinica, che ha portato alla sintesi di nuovi farmaci antipsicotici potenzialmente più efficaci e meglio tollerati di quelli di prima generazione ed a nuove strategie terapeutiche nel trattamento del disturbo schizofrenico.

L’attenzione, infatti, si è spostata negli ultimi anni sulla ricerca di terapie di potenziamento, ovvero su strategie farmacologiche che utilizzano più antipsicotici in combinazione tra di loro o in combinazione con composti utilizzati in psicofarmacoterapia ma non nella schizofrenia. Sono stati sperimentati anche composti non sviluppati originariamente per patologie psichiatriche e il cui utilizzo, in combinazione con antipsicotici, ha rappresentato uno spunto per nuove opzioni terapeutiche.

Tali nuove strategie, che al momento sono esclusivamente sperimentali, vengono di seguito considerate con l’obiettivo di valutare se e quanto i composti utilizzati possano completare o potenziare l’azione degli antipsicotici, o essere utili nel formulare schemi di trattamento che consentano di ridurre i dosaggi degli antipsicotici senza compromettere l’efficacia del trattamento e, in tal modo, ridurre l’incidenza e la gravità degli effetti collaterali.

Il razionale di tale approccio terapeutico si fonda, almeno in parte, sulle conoscenze del profilo recettoriale dei farmaci antipsicotici, soprattutto degli atipici (pleiotropismo recettoriale degli antipsicotici di seconda generazione, da taluni indicati con l’acronimo MARTA, Multi Acting Receptor Targeting Antipsychotics), i quali potrebbero caratterizzarsi nel loro meccanismo d’azione proprio per la capacità di interferire con più sistemi neurotrasmettitoriali. Farmaci che agiscono in maniera selettiva su sistemi neurotrasmettitoriali target di alcuni antipsicotici potrebbero essere in grado di potenziarne il meccanismo d’azione e quindi l’efficacia clinica.

I meccanismi d’azione di un farmaco per la terapia di potenziamento potrebbero essere rappresentati dalla facilitazione della trasmissione glutammatergica, dall’antagonismo alfa-adrenergico, serotoninergico, istaminergico; sono stati anche sperimentati potenziamenti con antagonisti degli oppioidi, MAO-B inibitori, antiossidanti, inibitori selettivi delle COX-2 (celecoxib), ed acidi grassi.

È importante sottolineare chiaramente che le terapie che verranno di seguito considerate sono da ritenersi esclusivamente di tipo sperimentale e vanno considerate con l’opportuna cautela e valutazione critica anche in relazione alla frequente ridotta numerosità dei casi trattati; esse rappresentano, tuttavia, un nuovo approccio farmacologico potenzialmente ricco di spunti per la ricerca e per nuove inferenze di fisiopatologia.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con agonisti glutammatergici

Numerose evidenze sperimentali supportano l’ipotesi che l’ipofunzione del recettore NMDA del glutammato sia implicata nella fisiopatologia del disturbo schizofrenico (1)-(5). Il glutammato, l’aspartato, ed altri amminoacidi eccitatori (EAAs), sono i principali neurotrasmettitori che mediano la fase rapida della neurotrasmissione eccitatoria nel sistema nervoso centrale (CNS), tramite canali cationici ligando-dipendenti (6). Inoltre il recettore NMDA, sottotipo dei recettori ionotropici del glutammato, è implicato in fenomeni di neurotossicità. L’inferenza clinica più rilevante che collega il sistema NMDA e la fisiopatologia del disturbo schizofrenico riguarda il meccanismo di azione della fenciclidina (PCP) (4) (5) (7) (8) che, come i suoi analoghi MK801 e ketamina, si lega ad un sito all’interno del canale del recettore NMDA (indicato per l’appunto come PCP binding site) e agisce come antagonista non competitivo. L’abuso acuto e cronico di PCP può determinare un quadro clinico molto simile alla sintomatologia schizofrenica (4). La psicosi indotta dagli antagonisti del recettore NMDA riproduce, inoltre, alcuni aspetti della schizofrenia ancor meglio del modello di psicosi indotta da amfetamina/dopamina (1), infatti, non solo si manifesta con sintomi positivi simili a quelli provocati dall’azione degli agonisti dopaminergici, ma anche con sintomi che ricordano fortemente i sintomi negativi e i deficit cognitivi associati alla schizofrenia. Studi sul tessuto post-mortem di pazienti affetti da schizofrenia hanno evidenziato alterazioni nel metabolismo cerebrale della neurotrasmissione glutammatergica (8) e una differente espressione di recettori glutammatergici tra la corteccia e l’ippocampo (9) (10). Sulla base delle evidenti correlazioni tra sistema glutammatergico e sintomatologia schizofrenica, sono state sperimentate terapie di potenziamento con farmaci modulanti la neurotrasmissione mediata da recettori NMDA (3) (7). Prenderemo in esame il potenziamento della terapia antipsicotica con tre diversi agonisti del recettore NMDA del glutammato e ligandi del sito della glicina: la glicina, la D-cicloserina, la D-serina.

Glicina e antipsicotici

La glicina agisce come coagonista obbligato del recettore NMDA del glutammato nel sito modulatorio della stricnina (11) (12). La capacità della glicina di potenziare la neurotrasmissione mediata dal recettore NMDA e la sua buona tollerabilità sia nel trattamento acuto che cronico hanno fatto supporre che la glicina possa essere utilizzata nel trattamento della sintomatologia negativa della schizofrenia in pazienti resistenti al trattamento antipsicotico convenzionale. Una dieta normale contiene circa 2 g di glicina al giorno e normalmente non ne influenza i livelli cerebrali (13). Quando somministrata perifericamente in quantità sufficienti, la glicina può essere ritrovata in concentrazioni aumentate nel sistema nervoso centrale (SNC), poiché è in grado di attraversare la barriera ematoencefalica (BEE) (10) (14) (15). Il primo trial clinico con la glicina (16) in pazienti schizofrenici, alle dosi di 15 g/die, in augmentation al trattamento antipsicotico, ha dimostrato un significativo miglioramento globale ed una tendenza al miglioramento dei punteggi della Brief Psichyatric Rating Scale (BPRS). La glicina, somministrata al dosaggio di 30 g/die, determinava una significativa riduzione, del 17%, dei sintomi negativi misurati secondo la Positive and Negative Symptom Scale for Schizophrenia (PANSS) (17) (18). È stata valutata anche l’efficacia di alte dosi di glicina (60 g/die in augmentation ad antipsicotici nel trattamento dei sintomi negativi in pazienti schizofrenici) con uno studio in doppio cieco e cross-over della durata di 6 settimane (19). Sono stati utilizzati, come strumenti di valutazione clinica, la BPRS, PANSS, la Scale for the Assessment of Negative Simptoms (SANS), e l’Abnormal Involuntary Movements Scale (AIMS), ripetuti ogni 2 settimane, e la misurazione dei livelli sierici degli amminoacidi. Clinicamente il gruppo trattato con glicina in augmentation ha riportato un miglioramento altamente significativo dei sintomi negativi (30% +/- 16% p < 0,001) e cognitivi (p < 0,001), meno per i sintomi positivi (p < 0,02) e depressivi (p < 0,01). Il trattamento ha determinato un aumento dei livelli sierici di glicina di 3,5 volte, ma il miglioramento della sintomatologia non era significativamente correlato ad essi. Al contrario, i livelli sierici di glicina nel pretrattamento erano significativamente predittivi dei punteggi relativi ai sintomi negativi, cognitivi e depressivi rilevati nel post-trattamento. La concentrazione sierica di serina era aumentata significativamente durante il trattamento con glicina, ma non è stata rilevata alcuna significativa correlazione tra essa ed i punteggi della PANSS. È di notevole interesse il riscontro che il trattamento con 0,8 g/kg/die di glicina determinava riduzione dei sintomi negativi anche nei pazienti resistenti agli antipsicotici standard. Inoltre il miglioramento dei sintomi negativi non era accompagnato da alcuna variazione dei sintomi positivi. Nel gruppo trattato dapprima con glicina e poi sottoposto al cross-over con placebo si riscontrava una persistenza della riduzione dei sintomi per altre otto settimane, durante il periodo di wash-out e di trattamento con placebo. Inoltre, i livelli di glicina, misurati prima della somministrazione giornaliera, restavano elevati per oltre 12 ore dall’ultima dose, e quelli di D-serina risultavano aumentati nei pazienti del gruppo trattato con glicina. Queste evidenze potrebbero essere correlate a diversi fattori: alla farmacocinetica della glicina, modificata da un prolungato trattamento con tale amminoacido; alla conversione reciproca tra D-serina e glicina, che sono in equilibrio tra loro (13); alla saturazione dei siti per la glicina posti sul recettore NMDA per il glutammato, con conseguente persistenza dell’azione della glicina.

Glicina e clozapina

Considerato il ruolo della clozapina nel trattamento delle forme resistenti di schizofrenia, non sorprende che questo farmaco sia stato esplorato in co-somministrazione con agonisti glicinergici, cercando il massimo effetto ottenibile nei pazienti resistenti. Una di tali strategie di potenziamento sperimentate è rappresentata dalla somministrazione di glicina in aggiunta a clozapina (20). In uno dei primi studi in doppio cieco, della durata di 12 settimane, sono stati selezionati 19 pazienti con schizofrenia cronica, resistenti al trattamento, ai quali è stato somministrato placebo (n = 10) o glicina alla dose di 30 g/die (n = 9) in aggiunta al loro trattamento con clozapina (400-1200 mg/die). Le valutazioni cliniche erano eseguite ogni 2 settimane con la BPRS, la SANS, e con la Simpson-Angus Movement Scale per la valutazione degli effetti collaterali extrapiramidali. La glicina, in aggiunta al trattamento con clozapina, non sembrava efficace nel ridurre i sintomi positivi o negativi della schizofrenia; al contrario, i pazienti trattati solo con clozapina mostravano una riduzione del 35% dei sintomi positivi. L’ANOVA rilevava significative riduzioni dei punteggi alla BPRS nei pazienti trattati con la sola clozapina, rispetto al trattamento combinato clozapina-glicina (p = 0,03). Non si riscontravano significativi effetti sui sintomi negativi, valutati con la SANS (p = 0,61) e con la BPRS (p = 0,51). La glicina era ben tollerata durante tutto il trial, non determinava variazioni ematochimiche, non modificava significativamente i livelli plasmatici della clozapina. Si rilevava anche un miglioramento dei sintomi negativi superiore al 5% nei pazienti trattati con glicina rispetto ai pazienti trattati con la sola clozapina, ma questo risultato non era statisticamente significativo. Nel tentativo di conseguire effetti più marcati, sono stati sperimentati dosaggi di glicina più elevati (21). In tale studio, della durata di 8 settimane, in doppio cieco, a 30 pazienti è stato somministrato placebo o glicina (60 g/die), in aggiunta al trattamento con clozapina (dose media di 455 mg/die). Non è stato evidenziato alcun effetto significativo della terapia combinata sui sintomi positivi, negativi e cognitivi, dall’inizio alla fine del trattamento. Questi dati sono in accordo con gli studi di Potkin et al. (20) e suggeriscono che gli agonisti sul sito della glicina possono essere meno efficaci quando combinati con la clozapina rispetto a quando sono aggiunti agli antipsicotici convenzionali.

D-cicloserina e antipsicotici

La D-cicloserina è un agonista parziale del glutammato, relativamente selettivo per il sito modulatorio della glicina posto sul recettore NMDA. La D-cicloserina attraversa rapidamente la BEE e la sua emivita nel siero è stata valutata tra 7 e 15 ore (22). La D-cicloserina (50 mg/die), aggiunta al trattamento con antipsicotici tipici, determina un significativo miglioramento dei sintomi negativi e della performance generale, valutati con lo Sternberg Item Recognition Paradigm (SIRP) (23). Al contrario, un successivo studio in doppio cieco su pazienti in trattamento con clozapina riscontrava un significativo peggioramento dei sintomi negativi nel gruppo della D-cicloserina (somministrata alla dose di 50 mg/die) rispetto al gruppo placebo (24). Per ottenere ulteriori risultati, sono stati selezionati 47 pazienti per uno studio in doppio cieco della durata di 8 settimane (25) in cui la D-cicloserina era somministrata alla dose di 50 mg/die in aggiunta al trattamento con antipsicotici tipici. Le valutazioni cliniche erano eseguite all’inizio, alla 1a, 2a, 4a, 6a e 8a settimana. Le concentrazioni sieriche di D-cicloserina, di alcuni amminoacidi e dell’acido omovanillico erano valutate all’inizio, alla 4a e alla 8a settimana. Gli esami cognitivi venivano effettuati all’inizio e alla 8a settimana. Dei 47 pazienti selezionati nello studio, 39 hanno completato il trial (7 pazienti del gruppo della D-cicloserina e 1 paziente del gruppo del placebo abbandonarono lo studio). Nel gruppo della D-cicloserina era riscontrata una significativa riduzione dei sintomi negativi, valutati con la SANS, rispetto ai livelli basali (p < 0,001), con un miglioramento significativamente maggiore (in media del 23%) rispetto al gruppo di controllo. La riduzione dei punteggi totali della SANS risultava inversamente proporzionale all’età e alla durata della malattia. Non c’erano differenze tra i 2 gruppi nei punteggi dei test cognitivi né all’inizio né alla fine del trial. I livelli sierici di glicina, serina, glutammato, aspartato e acido omovanillico non differivano tra i 2 gruppi all’inizio del trattamento, e solo nel gruppo della D-cicloserina le concentrazioni di glutammato alla fine del trial variavano significativamente mostrando una riduzione (p = 0,05). Le concentrazioni basali degli analiti non si correlavano in modo significativo con la riduzione dei punteggi totali della SANS nel gruppo della D-cicloserina; nemmeno le concentrazioni di D-cicloserina alla 4a e 8a settimana erano in relazione con la riduzione dei punteggi totali della SANS. Invece, le concentrazioni di D-cicloserina alla 8a settimana di trattamento si correlavano significativamente con il cambiamento delle concentrazioni sieriche del glutammato (p < 0,001). Non sono stati riportati particolari effetti collaterali. In teoria l’uso combinato di agonisti del recettore della glicina e antipsicotici potrebbe determinare effetti neurologici collaterali, poiché si è dimostrato che gli antipsicotici aumentano le concentrazioni di glutammato nello striato (26) e che elevate concentrazioni di amminoacidi eccitatori nel liquido cefalorachidiano sono associate a discinesia tardiva (27). Sono necessari quindi trial più estesi per poter valutare eventuali effetti neurotossici. La relazione inversa tra la dose di antipsicotico e la risposta alla D-cicloserina potrebbe riflettere gli effetti concentrazione-dipendenti degli antipsicotici sul sito modulatorio della glicina, in grado di condizionare l’attività della D-cicloserina (28)-(30). L’effetto della D-cicloserina, agonista parziale sul recettore NMDA, con attività approssimativamente del 40-60% rispetto alla glicina, è condizionato dalle concentrazioni dei ligandi endogeni, inclusi la glicina, la serina e l’alanina, e dell’acido chinurenico, antagonista endogeno. La D-cicloserina è stata utilizzata in augmentation con antipsicotici convenzionali, olanzapina o risperidone nel trattamento di pazienti schizofrenici resistenti a terapia (31). Ai 24 pazienti selezionati per lo studio veniva somministrato placebo o D-cicloserina (50 mg/die), in aggiunta al trattamento antipsicotico; le valutazioni cliniche erano effettuate con la PANSS, l’Hamilton Rating Scale for Depression (Ham-D), e l’AIMS ogni 2 settimane. Il trattamento con D-cicloserina portava ad una riduzione del PANSS per i sintomi negativi (del 15,2%), della psicopatologia generale (del 10%), e del PANSS totale (del 10,6%), non modificando, invece, i sintomi positivi. Gli effetti del trattamento con D-cicloserina si mostravano significativi a partire dalla 6a settimana. I pazienti che avevano ricevuto antipsicotici atipici mostravano un significativo miglioramento dei sintomi negativi durante il trattamento con D-cicloserina (p = 0,003). Non c’era differenza significativa, nel miglioramento dei sintomi negativi, tra i pazienti che ricevevano antipsicotici tipici e quelli trattati con antipsicotici atipici. La D-cicloserina era ben tollerata per tutta la durata dello studio. I pazienti trattati con risperidone o olanzapina mostravano un significativo miglioramento durante il trattamento con D-cicloserina. Complessivamente, il trattamento combinato D-cicloserina/antipsicotico sembrava apportare un miglioramento clinico di entità moderata o comunque inferiore rispetto ai notevoli effetti osservati con agonisti pieni del recettore NMDA in aggiunta agli antipsicotici tipici (19) (32). È stato valutato anche se esiste un effetto dose-dipendente della D-cicloserina quando somministrata in associazione con risperidone in pazienti con predominanza di sintomatologia negativa (33). Le valutazioni cliniche sono state effettuate secondo la SANS, la BPRS, l’Ham-D, la Global Assessment Scale (GAS) e l’AIMS, alla fine di due settimane di trattamento, e sono state videoregistrate. Sono state anche misurate le concentrazioni sieriche degli amminoacidi. I sintomi negativi subivano un significativo miglioramento nel gruppo di pazienti trattato con D-cicloserina alle dosi di 50 mg/die, mentre non risultavano modificati da trattamenti con 5, 15 o 250 mg/die di D-cicloserina. Le concentrazioni sieriche di risperidone non erano condizionate dal trattamento, mentre quelle di glutammato e serina erano aumentate significativamente nel gruppo trattato con 50 mg/die di D-cicloserina, sebbene né i livelli basali né le modificazioni dei livelli plasmatici degli amminoacidi mostrassero correlazione con i cambiamenti rilevati dalla SANS. Quindi la D-cicloserina, alla dose di 50 mg/die e in augmentation con risperidone, sembra associata ad un miglioramento significativo dei sintomi negativi, in media del 10%. In studi precedenti, invece, la D-cicloserina (50 mg/die), quando aggiunta ad antipsicotici tipici, migliorava del 23% i sintomi negativi della schizofrenia (25) mentre, quando aggiunta alla clozapina, ne causava un peggioramento del 13% (34). In conclusione, il cotrattamento D-cicloserina/risperidone sembra migliorare selettivamente i sintomi negativi, con un effetto intermedio tra il miglioramento osservato nel cotrattamento D-cicloserina/antipsicotici tipici e il peggioramento verificatosi con l’associazione D-cicloserina/clozapina.

D-cicloserina e clozapina

Come per la glicina, la ricerca di nuove strategie terapeutiche di potenziamento in pazienti schizofrenici poco responsivi ha portato a sperimentare l’associazione tra clozapina e D-cicloserina (34). D-cicloserina alla dose di 50 mg/die è stata somministrata per 13 settimane a pazienti con schizofrenia diagnosticata in media da 14,8 � 8,4 anni e sottoposti a terapia con clozapina (490 � 141,1 mg/die). Nel gruppo trattato con D-cicloserina è stato evidenziato, rispetto ai livelli basali e alla 6a settimana, un aumento dello score secondo la SANS (di 13,5%) e dei sintomi negativi valutati secondo la PANSS (di 10%), mentre nel gruppo placebo si è osservata una riduzione in media del 3,7% alla SANS e del 4,3% dei sintomi negativi. Questo studio conferma i risultati di studi precedenti secondo cui la D-cicloserina, quando aggiunta alla clozapina, peggiora selettivamente i sintomi negativi della schizofrenia. Comunque l’esacerbazione dei sintomi negativi, sebbene statisticamente significativa, era piuttosto modesta e non associata a cambiamenti significativi nelle valutazioni cliniche globali. La clozapina, dunque, sembra agisca sulla neurotrasmissione glutammatergica in maniera diversa rispetto agli antipsicotici convenzionali (35). Un recente studio di Melone et al. (36) ha evidenziato che il trattamento cronico con clozapina determina nel ratto una diminuzione significativa del trasportatore del glutammato di tipo 1 (GLT1) (principale responsabile del reuptake del glutammato) in corteccia prefrontale e di conseguenza potrebbe essere responsabile di un incremento delle concentrazioni sinaptiche di glutammato a livello di questa regione cerebrale. Polese et al. (37), in un modello animale di augmentation, hanno dimostrato un’azione differenziale della D-cicloserina in aggiunta all’aloperidolo o clozapina sull’espressione di geni precoci come c-fos o Homer, suggerendo che anche a livello molecolare il potenziamento della D-cicloserina ad antipsicotici tipici o atipici riconosce meccanismi verosimilmente differenti.

D-serina e antipsicotici

La D-serina è un selettivo e potente agonista glutammatergico agente sul sito della glicina del recettore NMDA (38). La D-serina blocca selettivamente l’iperattività e i comportamenti stereotipati indotti dalla PCP (39)-(41), dimostrandosi, in tal modo, un possibile candidato per terapie di potenziamento con antipsicotici. In uno studio in doppio cieco su 31 pazienti (32) sono stati valutati gli effetti dell’aggiunta della D-serina, 30 mg/kg/die, agli antipsicotici nel trattamento della schizofrenia. I pazienti avevano un punteggio SANS ≥ 40, erano poco responsivi alla terapia antipsicotica standard (400-600 mg di clorpromazina per 4-6 settimane), ed avevano un punteggio CGI (Clinical Global Impression) ≥ 4. Le valutazioni cliniche, degli effetti collaterali, dei livelli sierici degli amminoacidi e della D-serina venivano effettuate ogni settimana. I risultati clinici sono stati molto incoraggianti, poiché nel gruppo della D-serina sono stati osservati miglioramenti significativi nella CGI (p = 0,04 alla 6a settimana), una riduzione del 17% dei sintomi positivi e una riduzione del 21% dei sintomi negativi, un miglioramento nelle funzioni cognitive valutate con il Wisconsin Card Sorting Test (WCST). Nel gruppo della D-serina, i livelli di tale amminoacido risultavano aumentati già dopo 2 settimane, persistendo fino alla 4a e 6a settimana due ordini di grandezza superiori rispetto all’inizio e al gruppo del placebo. È importante sottolineare che alla 4a e alla 6a settimana i livelli di D-serina si correlavano con le modifiche del PANSS-positivo, del SANS e del PANSS-cognitivo: livelli sierici più elevati di D-serina erano associati a più evidenti miglioramenti clinici. Quindi la D-serina, agendo come agonista pieno sul sito della glicina del recettore NMDA, sembra migliorare i sintomi positivi, negativi e cognitivi. A differenza della glicina e della D-cicloserina, la D-serina migliora sia i sintomi positivi sia quelli negativi.

È improbabile che l’effetto terapeutico della D-serina sia dovuto alla sua conversione in glicina, tuttavia il sovraccarico di glicina può aumentare la D-serina nel cervello attraverso il sistema di clivaggio della glicina (42). Non ci sono informazioni circa la biodisponibilità centrale della D-serina somministrata perifericamente negli uomini, ma studi su animali hanno ripetutamente mostrato che basse dosi di D-serina, somministrate perifericamente, inducono effetti centrali (38).

D-serina e clozapina

Tra le possibili associazioni D-serina/antipsicotico, è stata sperimentata anche una terapia di potenziamento con la clozapina. Sono stati selezionati 20 pazienti schizofrenici per uno studio in doppio cieco (43) ai quali è stato somministrato D-serina (30 mg/kg/die) o placebo in aggiunta alla clozapina. Le misurazioni cliniche non hanno evidenziato alcuna differenza significativa nel gruppo della D-serina rispetto al placebo alla 2a, 4a e 6a settimana (CGI p = 0,27, PANSS positiva p = 0,38, SANS p = 0,45, PANSS cognitiva p = 0,41), né nell’ambito di uno stesso gruppo nel corso dello studio. I livelli sierici degli amminoacidi e della D-serina non subivano significativi cambiamenti, eccetto che nel gruppo trattato con D-serina in cui i livelli di tale amminoacido aumentavano alla 2a settimana e restavano elevati fino alla 6a settimana. Questo studio dimostra che i pazienti trattati con clozapina non hanno benefici dal trattamento combinato con D-serina.

In conclusione, la D-serina e gli altri agonisti della glicina sul recettore NMDA (glicina, D-cicloserina) migliorano i sintomi negativi nei pazienti trattati con antipsicotici diversi dalla clozapina, ma nessun agente ha dimostrato di avere efficacia terapeutica nei pazienti trattati con clozapina (20) (21) (24) (34). Tale insuccesso probabilmente non deriva da interazioni farmacocinetiche, in quanto i livelli di D-serina nei pazienti trattati con clozapina erano comparabili con quelli misurati in pazienti con altra terapia antipsicotica (32). Piuttosto la clozapina potrebbe avere attività di agonista parziale sul sito della glicina posto sul recettore NMDA, interferendo così con la D-serina (o con gli altri agonisti) e risultando responsabile dell’assenza di miglioramenti clinici nei pazienti trattati con l’associazione clozapina/D-serina (43). Un altro motivo potrebbe essere che i pazienti trattati con clozapina sono spesso anziani, hanno una patologia di lunga durata, hanno avuto diversi trattamenti antipsicotici, e rappresentano una sottopopolazione con una severa patologia; tuttavia alte dosi di glicina sono risultate efficaci nel migliorare i sintomi negativi di pazienti schizofrenici rigorosamente definiti resistenti ai trattamenti antipsicotici, suggerendo che pazienti resistenti potrebbero trarre beneficio da una terapia di potenziamento con un agonista della glicina agente sul sito del recettore NMDA (19) (25) (32).

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con sarcosina

La facilitazione della neurotrasmissione glutammatergica NMDA-mediata può essere ottenuta interferendo con il reuptake di agonisti del recettore NMDA piuttosto che mediante gli agonisti stessi. La N-metilglicina (denominata sarcosina) è un inibitore del trasportatore della glicina tipo 1 (GlyT-1), e può essere utilizzata per aumentare indirettamente i livelli di glicina nel SNC e potenziare in tal modo la trasmissione glutammatergica (44) (45). In seguito ai risultati ottenuti in diversi studi con l’augmentation degli antipsicotici con glicina, Tsai et al. (46) hanno condotto un trial clinico in doppio cieco su 38 pazienti schizofrenici, somministrando sarcosina per 6 settimane alle dosi di 2 g/die, in associazione alla terapia antipsicotica già seguita dal paziente, e confrontando poi i risultati con un gruppo di controllo che seguiva la sola terapia antipsicotica. La valutazione clinica dei pazienti è stata effettuata mediante la PANSS, la SANS, la BPRS, l’Ham-D; la comparsa di effetti collaterali extrapiramidali è stata misurata utilizzando la Simpson-Angus Rating Scale, l’Abnormal Involuntary Movement Scale (AIMS) e la Barnes Akathesia Scale. I pazienti trattati con sarcosina hanno mostrato un miglioramento dei sintomi positivi (con una riduzione del 17%), negativi (del 14%) e anche dei sintomi cognitivi (del 13%) rispetto al gruppo di controllo, nel quale non è stata registrata alcuna variazione della sintomatologia rispetto alle condizioni iniziali. Il punteggio secondo la Ham-D è rimasto invariato al termine del trial in entrambi i gruppi. Si ottengono risultati analoghi anche considerando soltanto i pazienti trattati con risperidone (20 pazienti) ed escludendo dall’analisi statistica quelli trattati con altri antipsicotici. Sia il gruppo della sarcosina sia il gruppo di controllo presentavano all’ingresso nel trial sintomi extrapiramidali di media gravità, senza differenze significative tra i due gruppi sia all’inizio sia al termine dello studio. Alcuni disturbi sopraggiunti in fase di trattamento (come tremore e salivazione in alcuni pazienti del gruppo di controllo o tachicardia in due pazienti trattati con sarcosina) sono stati di breve durata e si sono risolti spontaneamente. In definitiva, la sarcosina ha mostrato interessanti proprietà di potenziamento di farmaci antipsicotici, senza effetti collaterali di rilievo. La sua efficacia sulla sintomatologia schizofrenica sembra poter essere ricondotta alla riduzione del reuptake della glicina, sebbene la sarcosina potrebbe essere demetilata dalla sarcosina deidrogenasi a glicina, e il suo effetto essere mediato da quest’ultima. La localizzazione prevalente della sarcosina deidrogenasi nel fegato (47) e la necessità di dosi di sarcosina molto più elevate delle corrispettive dosi di glicina per ottenere un miglioramento clinico rilevante fanno propendere per un’azione diretta della sarcosina nel SNC. L’augmentation con sarcosina ha conseguito un miglioramento dei sintomi positivi superiore a quanto ottenuto mediante D-cicloserina e glicina in altri studi (25) (31) (19), tuttavia sarebbe necessario confrontare in parallelo, in un trial unico, i diversi farmaci. La scarsa efficacia della D-cicloserina e della glicina sui sintomi positivi potrebbe essere dovuta alla parziale azione agonista della D-cicloserina sui recettori NMDA e alla bassa biodisponibilità della glicina nel SNC. I risultati attuali sono molto incoraggianti, anche per gli irrilevanti effetti collaterali associati all’utilizzo della sarcosina o degli agonisti del recettore NMDA nelle terapie di potenziamento degli antipsicotici.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con antagonisti serotoninergici

Una delle teorie che cerca di spiegare la cosiddetta “atipicità” dei nuovi antipsicotici pone in primo piano l’azione di antagonismo su recettori serotoninergici 5HT2. Più volte è stata posta l’evidenza di una correlazione tra i sintomi negativi e disfunzione del lobo frontale. L’antagonismo sui recettori 5HT2 presenti nel lobo frontale causa un aumento della frequenza di scarica di neuroni dopaminergici e un incremento della liberazione di dopamina (DA) nella corteccia prefrontale (48), un meccanismo che, attraverso il miglioramento della funzionalità dopaminergica, potrebbe essere responsabile o contribuire all’effetto degli antipsicotici atipici sui sintomi negativi (49). L’antagonismo 5HT2 nella corteccia prefrontale potrebbe agire mediante modulazione della funzionalità di interneuroni ivi localizzati (50), oppure attraverso facilitazione della neurotrasmissione glutammatergica (51). Per poter distinguere gli effetti farmacologici attribuibili esclusivamente all’antagonismo serotoninergico da quelli causati da un’attività antidopaminergica, dovrebbero essere utilizzati farmaci che siano antagonisti selettivi per recettori 5HT2 e privi di affinità per recettori dopaminergici, ma attualmente tali farmaci non sono disponibili per uso clinico. La ciproeptadina ha affinità maggiore per il sottotipo 5HT2 e presenta bassa affinità per i recettori della DA, per cui potrebbe essere un buon candidato per valutare selettivamente il ruolo dell’antagonismo 5HT2 nel meccanismo d’azione degli antipsicotici, sebbene la ciproeptadina espleti anche lieve attività di antagonista istaminergico, colinergico, adrenergico (52). Pur con questi limiti, studi su scala ristretta hanno dimostrato l’efficacia della ciproeptadina sui sintomi negativi (52) (53), risultato però non confermato da altre sperimentazioni, in cui la ciproeptadina sembrava efficace solo nel ridurre gli effetti collaterali extrapiramidali dovuti all’aloperidolo (54) (55). Un altro antagonista serotoninergico sperimentato è la ritanserina, la quale ha selettività per i sottotipi recettoriali 5HT2A/2C, ma è dotata anche di affinità per recettori della dopamina. La ritanserina sembra migliorare il quadro clinico di pazienti con predominanza di sintomi negativi quando aggiunta a trattamento antipsicotico (56). Riportiamo uno degli studi più recenti sull’utilità di antagonisti 5HT2 nel trattamento della schizofrenia (57) volto a esaminare l’effetto della ciproeptadina sulla funzionalità dei lobi temporale e frontale valutata tramite test neuropsicologici. Il campione dello studio è costituito da 18 pazienti con sintomatologia schizofrenica manifesta da almeno 5 anni, clinicamente e farmacologicamente stabili da almeno 12 mesi. Sono stati selezionati pazienti che ricevevano come presidio terapeutico formulazioni depot di flupentixolo o flufenazina, poiché tali farmaci hanno bassa affinità su recettori serotoninergici, e quindi si può considerare relativamente minimo il grado di interferenza tra l’azione dell’antipsicotico e quella dell’antagonista 5HT2 sperimentato; eventuali effetti osservati in seguito a trattamento con ciproeptadina possono, quindi, essere attribuiti all’attività antiserotoninergica della ciproeptadina. Lo studio è stato organizzato in doppio cieco con crossover tra gruppo trattato con ciproeptadina e gruppo placebo. La ciproeptadina veniva somministrata alla dose di 8 mg per due volte al giorno e per 4 settimane; il crossover ciproeptadina-placebo era preceduto da un periodo di wash out di 6-8 settimane. La valutazione neuropsicologica comprendeva: la fluidità dell’eloquio, Stroop colour word test, Trail making tests. Il rallentamento dell’eloquio mostrava miglioramento in seguito alla somministrazione di ciproeptadina dopo il crossover, mentre si accentuava nel gruppo con placebo. Lo Stroop colour word test evidenziava una maggiore rapidità di esecuzione del compito assegnato ai pazienti trattati con ciproeptadina rispetto ai pazienti trattati con placebo. Un miglioramento nel gruppo della ciproeptadina era registrato anche dal Trail making test e nella stima degli Antisaccade error. Le valutazioni della psicopatologia generale per i sintomi negativi e le funzioni cognitive generali non evidenziavano, invece, alcun miglioramento, mentre un progresso si otteneva in diversi test cognitivi specifici nel gruppo di pazienti trattati con ciproeptadina. Una spiegazione di questi risultati può risiedere nell’efficacia di tale trattamento nel migliorare le funzioni motorie: responsabile di ciò potrebbe essere l’azione di antagonismo della ciproeptadina sui recettori 5HT2 o muscarinici che porterebbe ad una riduzione degli effetti collaterali extrapiramidali indotti dagli antipsicotici, con miglioramenti riscontrabili anche nella fluidità dell’eloquio o nel Trail B making test e, parzialmente, allo Stroop colour-word conflict. In test non correlati all’abilità motoria del paziente, come il WCST, non si registrava alcuna differenza tra il gruppo placebo e il gruppo della ciproeptadina, confermando l’ipotesi che gli effetti della ciproeptadina sono mediati dal miglioramento della velocità delle prestazioni, e quindi questi risultano evidenti solo nei test in cui siano coinvolte le capacità motorie del paziente. L’Antisaccade task evidenzia difetti dei meccanismi inibitori di risposte motorie inappropriate, così come il Trail B making test e lo Stroop colour-word conflict task; parimenti, un eloquio fluente può essere garantito solo grazie alla soppressione della ripetizione di parole precedentemente generate. L’Antisaccade task, il Trail B making test, lo Stroop colour-word conflict task, la fluidità dell’eloquio erano tutti migliorati nei pazienti che ricevevano ciproeptadina, per cui l’effetto della ciproeptadina potrebbe essere mediato anche dall’aumento dell’efficienza dei meccanismi di risposta inibitori. Tuttavia tale ipotesi non riesce a fornire una spiegazione dell’assenza di miglioramento del WCST, per la cui esecuzione sarebbero richieste tali risposte inibitorie. Alla efficacia della ciproeptadina sulle funzioni motorie si oppongono gli scarsi risultati ottenuti sulla sintomatologia negativa. Tuttavia, molti dei pazienti scelti per il trial clinico presentavano un basso punteggio dei test relativi ai sintomi negativi, quindi tale inefficacia potrebbe essere solo apparente.

Un miglioramento dei sintomi negativi nei pazienti trattati con ciproeptadina è documentato da uno studio nel quale tale farmaco è stato somministrato a 15 pazienti in augmentation ad aloperidolo (58). I pazienti selezionati non ricevevano alcun trattamento con antipsicotici da almeno una settimana, e non ricevevano formulazioni depot da almeno due mesi. Le dosi di aloperidolo e di ciproeptadina utilizzate erano rispettivamente di 30 mg/die e di 24 mg/die. Le valutazioni psicopatologiche venivano effettuate dopo 2-4-6-8 settimane dall’inizio dello studio. La PANSS per i sintomi positivi mostrava un miglioramento significativo in entrambi i gruppi rispetto alle condizioni basali, a partire dalla quarta settimana, senza alcuna differenza tra i due gruppi. Anche le misurazioni PANSS per i sintomi negativi presentavano una riduzione del punteggio, ma tale miglioramento iniziava dalla quarta settimana per il gruppo della ciproeptadina, dalla sesta per il gruppo placebo. Inoltre, al termine delle 8 settimane, il punteggio PANSS per i sintomi negativi risultava significativamente più basso nel gruppo trattato con ciproeptadina rispetto al gruppo ricevente placebo, e tale differenza iniziava a presentarsi a partire dalla sesta settimana. Non fu registrata alcuna regressione degli effetti collaterali extrapiramidali indotti dall’aloperidolo. Questi risultati, quindi, sembrano essere contrastanti con quanto pubblicato in precedenza (52)-(55), e necessitano di ulteriori chiarimenti.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con antagonisti alfa2-adrenergici

Il ruolo del sistema adrenergico nel meccanismo d’azione degli antipsicotici è stato oggetto di numerosi studi, soprattutto negli ultimi anni, e sono state caratterizzate l’attività intrinseca e la potenza di legame della clozapina e di altri antipsicotici nei confronti di recettori adrenergici, alfa2A e alfa2C (59). L’antagonismo di clozapina, olanzapina, aloperidolo, yohimbina e idazossano è stato quantificato usando linee cellulari che esprimevano recettori ricombinanti alfa2A, alfa2C e D2 e misurando le variazioni dei livelli di cAMP come cambiamenti della luminescenza. Dallo studio si è evidenziato che: l’idazossano e la yohimbina sono i più potenti alfa2-antagonisti, la yohimbina e l’iloperidone sono i maggiori antagonisti alfa2C, l’aloperidolo e l’olanzapina sono i più forti antagonisti D2, e infine la clozapina ha la più alta selettività alfa2C/D2. I risultati dello studio portano ad ipotizzare che l’antagonismo del recettore alfa2C contribuisca al miglioramento delle funzioni cognitive.

Il ruolo del sistema noradrenergico è stato considerato soprattutto per tentare di spiegare il motivo per cui la clozapina abbia un’efficacia superiore rispetto agli antipsicotici di prima generazione, nonostante abbia ridotta affinità per i recettori dopaminergici D2 i quali esplicano un ruolo cruciale nell’azione antipsicotica. Diversi studi clinici e di laboratorio (59)-(61) hanno dimostrato l’aumento significativo dei livelli di noradrenalina (NE) e di normetaepinefrina durante il trattamento con clozapina. Tale dato potrebbe essere spiegato dalla potente azione antagonista sui recettori alfa2 tipica della clozapina, con conseguente riduzione del feed-back inibitorio presinaptico, e aumento del firing neuronale adrenergico. Da queste osservazioni si può ipotizzare che il blocco dei recettori alfa2 svolga un ruolo importante nel meccanismo d’azione degli antipsicotici. È stata rilevata un’interessante interazione tra la raclopride, antagonista D2 D3 della dopamina, e l’idazossano, antagonista alfa2-adrenergico (62) (63). La raclopride somministrata nei ratti, da sola, modifica il rilascio di dopamina, inducendone un aumento marcato nell’accumbens e nello striato, mentre nella corteccia prefrontale mediale si verifica solo un incremento di modesta entità; l’idazossano da solo aumenta il rilascio di dopamina selettivamente nella corteccia prefrontale mediale; quando le due sostanze sono somministrate contemporaneamente, la raclopride aumenta in maniera significativa il rilascio di dopamina anche nella corteccia prefrontale mediale, potenziata dall’idazossano. È notevole l’evidenza della selettività regionale dell’idazossano, che è provata da studi con altri antagonisti alfa2-adrenergici. L’effetto di potenziamento di raclopride-idazossano nell’incrementare i livelli di dopamina corticali sarebbe ascrivibile ad un aumento della liberazione di dopamina mediato da recettori D2, associato ad una riduzione del reuptake della dopamina extracellulare per competizione, sullo stesso trasportatore, con la noradrenalina rilasciata per effetto dell’idazossano su recettori alfa2 adrenergici.

Tali dati sperimentali sono stati confermati da studi clinici (64) che hanno dimostrato l’effetto di potenziamento dell’idazossano quando somministrato insieme alla flufenazina. In uno studio in doppio cieco double dummy, su 17 pazienti schizofrenici ospedalizzati, resistenti al trattamento (64) e rispondenti ai criteri del DSM III-R per la schizofrenia o per il disturbo schizoaffettivo, è stata valutata l’efficacia clinica del cotrattamento flufenazina-idazossano rispetto alla sola flufenazina. L’idazossano è stato somministrato alla dose iniziale di 20 mg, fino ad arrivare alla dose ottimale di 120 mg/die. La durata complessiva del trattamento è stata di oltre 4 settimane. I risultati del cotrattamento flufenazina-idazossano sono stati una riduzione significativa della sintomatologia psicotica, sia dei sintomi negativi che positivi (valutati con le scale B-H, per la psicosi, l’ansietà, la mania e la depressione, BPRS e SANS), rispetto al trattamento con la sola flufenazina.

Nella valutazione comparativa dell’augmentation idazossano-flufenazina vs. clozapina si sono verificati miglioramenti clinici simili tra un gruppo e l’altro, sebbene, per la maggior parte dei pazienti, il trattamento con clozapina risultasse più efficace. Questo dato sembra suggerire che l’aumento della neurotrasmissione noradrenergica costituisca un target importante nel meccanismo d’azione degli antipsicotici.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con antagonisti dell’istamina

La famotidina è un antagonista specifico del recettore dell’istamina-2, capace di attraversare la BEE (65). C’è notevole interesse sul ruolo dei neuroni istaminergici nella patogenesi della schizofrenia: è stato evidenziato che le proiezioni istaminergiche innervano aree cerebrali implicate nella fisiopatologia della schizofrenia (66). I neuroni istaminergici modulano il rilascio di acetilcolina (Ach) nello striato ventrale e la famotidina, antagonista H2, elicita il rilascio di Ach (67) (68); la famotidina, all’opposto degli agonisti dell’istamina, riduce la durata del ritmo elettroencefalografico ultradiano a livello dell’ipotalamo del ratto (69). Inoltre, l’evidenza clinica che un paziente schizofrenico con ulcera peptica abbia mostrato notevoli miglioramenti della sintomatologia negativa durante il trattamento con famotidina (70) ha portato a sperimentare una terapia di potenziamento degli antipsicotici con la famotidina nel trattamento della schizofrenia.

Deutsch et al. (71) hanno valutato l’effetto dell’aggiunta della famotidina agli antipsicotici convenzionali. Nel trial clinico, della durata di 3 settimane, sono stati selezionati 10 pazienti che hanno ricevuto famotidina (20 mg 2 volte al giorno) in aggiunta al loro trattamento antipsicotico standard in steady-state da almeno una settimana. Tutti i pazienti erano in qualche modo refrattari alle terapie convenzionali. Le valutazioni cliniche sono state eseguite secondo le scale BPRS, SANS e CGI. Durante le 3 settimane di terapia di potenziamento con la famotidina, i punteggi alla BPRS e alla CGI sono stati significativamente più bassi rispetto a quelli della settimana precedente e successiva al cotrattamento, anche se questa riduzione non è stata molto rilevante. I sintomi negativi, misurati secondo la SANS, non sono diminuiti significativamente, sebbene si sia riscontrata una tendenza alla riduzione del punteggio totale della SANS durante il potenziamento con famotidina. Durante il trial si è riscontrato un miglioramento significativo solamente della sottocategoria dei sintomi specifici, e non di quelli aspecifici, alla BPRS. Oyewumi et al. (65) hanno sperimentato la terapia di potenziamento con famotidina in un trial con 12 pazienti schizofrenici resistenti al trattamento antipsicotico convenzionale, ai quali è stata somministrata la famotidina in aggiunta al loro regime terapeutico convenzionale. Sette dei 12 pazienti hanno mostrato miglioramenti tali da consentire la dimissione dall’ospedale. I dati sembrano supportare l’ipotesi che l’attività dei recettori H2 nel SNC potrebbe giocare un ruolo nella fisiopatologia del disturbo schizofrenico. Questi dati richiedono ulteriori conferme con studi più ampi e in doppio cieco. Rosse et al. (70) hanno riportato il caso clinico di un paziente con schizofrenia cronica indifferenziata, resistente al trattamento antipsicotico, che ha mostrato significativi miglioramenti della sintomatologia, temporalmente correlati con la somministrazione di famotidina (40-100 mg/die) in augmentation al trattamento antipsicotico convenzionale (molindone 150-200 mg/die), per un periodo di circa 10 mesi. Per 2 settimane i sintomi psicotici sono stati controllati dalla sola famotidina (40 mg/die). Il caso clinico suggerisce che esiste una certa attività adiuvante della famotidina in alcuni pazienti schizofrenici. Rosse et al. (66) hanno poi eseguito uno studio aperto in cui hanno valutato l’effetto di alte dosi di famotidina in associazione ad un antipsicotico nella farmacoterapia della schizofrenia. In questo studio sono stati esaminati 18 pazienti, tutti rispondenti ai criteri della schizofrenia secondo il DSMIII-R, ed è stata loro somministrata famotidina (100 mg/die) in aggiunta al trattamento antipsicotico convenzionale. I pazienti sono stati valutati all’inizio dello studio, settimanalmente durante il trattamento, e una settimana dopo l’interruzione della famotidina, secondo la BPRS, la SANS e la CGI. Sono stati riscontrati miglioramenti statisticamente significativi alla BPRS, alla SANS e alla CGI; questi risultati suggeriscono un benefico effetto derivante dall’aggiunta della famotidina. Il farmaco (100 mg/die) è stato ben tollerato da tutti i pazienti inclusi nello studio. C’è stata un’ampia variazione dei livelli plasmatici della famotidina alla fine delle 3 settimane di trattamento, ma questi livelli ematici non si correlavano con le variazioni dei punteggi della SANS e della BPRS. Tuttavia bisogna rilevare che i pazienti che hanno mostrato la maggiore riduzione del punteggio della BPRS avevano in assoluto i più alti livelli plasmatici di famotidina. Questi risultati sono molto incoraggianti, ma richiedono ulteriori conferme con studi in doppio cieco.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con celecoxib

Il celecoxib, un inibitore selettivo della cicloossigenasi-2 (COX-2), è un farmaco antiinfiammatorio, che ha proprietà immunomodulatorie, e che attraversa la BEE. L’idea di utilizzare tale farmaco con l’intento di potenziare l’azione di antipsicotici è derivata dall’evidenza di anormalità del sistema immunitario (72) e di alterazioni dei patterns di risposta infiammatori/immunitari comuni in alcuni pazienti schizofrenici che hanno suggerito un loro possibile coinvolgimento nella patogenesi della schizofrenia (73)-(75). Nei pazienti schizofrenici, infatti, sono stati ritrovati aumentati livelli di citochine attivanti, come l’interleuchina 1 (IL-1) e la IL-2, nel liquido cefalorachidiano (CSF) (77) (78). Questi dati hanno spinto a pensare che l’utilizzo di farmaci in grado di ridurre la produzione o il rilascio di tali citochine (quali i farmaci antiinfiammatori) potesse avere effetti terapeutici sui pazienti schizofrenici. Questa idea è anche supportata dal fatto che gli antipsicotici atipici hanno proprietà immunomodulatorie (79)-(81), che si esplicitano con la repressione della risposta immune nel SNC. Uno studio clinico in doppio cieco (82) ha valutato l’efficacia di un trattamento combinato celecoxib-risperidone confrontandolo con una terapia condotta con il solo risperidone. Per tale sperimentazione, della durata di 5 settimane, sono stati selezionati 50 pazienti schizofrenici in fase acuta che, dopo un periodo di wash-out di 25 giorni, ricevevano celecoxib (400 mg/die in due somministrazioni giornaliere) o placebo in aggiunta al loro trattamento con risperidone (2-6 mg/die). Le valutazioni cliniche sono state eseguite settimanalmente. Alla fine del trial, entrambi i gruppi hanno mostrato significativi miglioramenti della psicopatologia, con una graduale riduzione del punteggio totale della SANS rispetto all’inizio. Tuttavia il gruppo del celecoxib ha mostrato un miglioramento significativamente maggiore del punteggio totale della SANS rispetto al placebo (p = 0,05), ma le differenze tra i 2 gruppi non sono state omogenee durante il trial: infatti gli effetti del celecoxib si sono manifestati in particolare nel periodo centrale del trattamento (p = 0,001), con una relativa perdita dell’efficacia nelle fasi finali. La differenza nell’efficacia dei due trattamenti iniziava ad essere significativa tra la 2a e la 4a settimana. Altro dato interessante è che nel gruppo del celecoxib si è notato un precoce miglioramento del punteggio di tutte le sottocategorie della SANS. Questi risultati non sono ascrivibili ai diversi dosaggi di risperidone o a differenze nei livelli plasmatici di risperidone o del suo unico metabolita attivo, il 9-idrossirisperidone. Tra i due gruppi non si sono riscontrate variazioni statisticamente significative degli effetti collaterali extrapiramidali valutati con la Simpson-Angus Rating Scale, né sono stati osservati effetti collaterali gastrointestinali attribuibili all’uso del celecoxib. I risultati del trial evidenziano che la terapia di potenziamento con il celecoxib ha effetti positivi e significativi sulla psicopatologia della schizofrenia, tuttavia gli effetti del celecoxib sul SNC non sono ancora chiari. Non c’è dubbio che l’attivazione di COX-2 media l’infiammazione e che COX-2 è espresso nel tessuto cerebrale e attivato da citochine come IL-2, IL-6, IL-10, L’espressione di COX-2 mediata dalle citochine determina, a sua volta, aumento dell’infiammazione poiché ne aumenta la produzione di mediatori. È stato riportato che i livelli di IL-2, IL-2R e IL-6R solubili, IL-6 (79) e IL-10 (83) sono alti nei pazienti schizofrenici. Gli alti livelli di citochine nel SNC potrebbero essere associati ad un’aumentata espressione di COX-2. Il celecoxib potrebbe agire tramite inibizione di COX-2 o interruzione del suo pathway di attivazione mediato da citochine. Inoltre l’inibizione di COX-2, mediata dal celecoxib, sembra modulare l’espressione di molecole di adesione la cui regolazione è alterata nella schizofrenia (84)-(86). Alcune di tali molecole di adesione potrebbero essere la molecola-1 di adesione intracellulare e la molecola-1 di adesione cellulare e vascolare (87) (88), la cui espressione modulata dal celecoxib potrebbe mediare l’effetto del farmaco soprattutto sui sintomi negativi della schizofrenia. In definitiva, l’ipotesi di un’alterata regolazione del sistema immunitario nel SNC, in pazienti schizofrenici, potrebbe spiegare l’efficacia terapeutica di farmaci antiinfiammatori lipofilici capaci di attraversare la BEE. Il celecoxib si è dimostrato efficace già in altre patologie neuropsichiatriche come l’Alzheimer (89) o l’ischemia cerebrale (90). Sono necessari ulteriori studi per confermare il ruolo del celecoxib nella terapia della schizofrenia e per definirne il meccanismo d’azione, ispirati dalle nuove interessanti evidenze circa gli effetti modulatori del celecoxib sul sistema glutammatergico: COX-2 è espresso su neuroni (91) di strutture criticamente coinvolte nella patologia della schizofrenia, come l’ippocampo e l’amigdala (92) (93), ed è funzionalmente correlato con i neuroni glutammatergici (94); è stata riscontrata una reciproca correlazione tra l’attivazione dei recettori del kainato e quella di COX-2 (95) e tra l’inibizione dei recettori NMDA del glutammato e l’attivazione di COX-2 (91). Questo potrebbe essere importante per gli effetti del celecoxib sulla schizofrenia perché la sua attività si tradurrebbe in una modulazione della neurotrasmissione glutammatergica (96).

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con mao-b inibitori

La selegina (Deprenyl), un inibitore irreversibile delle MAO-B, è stato recentemente sperimentato nella terapia di potenziamento degli antipsicotici nella schizofrenia. È stato dimostrato che gli inibitori delle MAO (MAOIs) attivano i pazienti in cui prevale una condizione di anergia (97). La scoperta, accidentale, che i pazienti trattati con iproniazide per la tubercolosi avevano notevoli miglioramenti dell’umore durante il trattamento ha portato ad eseguire dei trial con iproniazide in pazienti psichiatrici (98). Questo farmaco è stato dapprima sperimentato in pazienti schizofrenici, per i quali sembrava dotato di un effetto attivante e privo di effetti collaterali (99). Successivamente, studi che usavano MAOIs in combinazione con gli antipsicotici hanno evidenziato un miglioramento dei sintomi negativi della schizofrenia, tuttavia ci sono stati anche studi che hanno rilevato un’esacerbazione della psicosi (98) (100) (101). Per le restrizioni dietetiche e farmacologiche richieste e per il rischio di scatenare episodi psicotici, la terapia di potenziamento degli antipsicotici con MAOIs è stata esclusa dalla pratica psicofarmacologica (102). La selegilina, essendo un inibitore selettivo ed irreversibile delle MAO-B, che ossidano solo la dopamina e in ridotta misura le altre monoamine, potrebbe essere considerata un’utile opzione terapeutica (103). La selegilina espleta la sua azione inibitrice a dosaggi inferiori a 15 mg/die (104) e, a questi dosaggi, ha scarso rischio di determinare reazioni avverse in seguito all’assunzione di tiramina. Il meccanismo neurochimico che sottende alla sintomatologia negativa non è chiaro e non esiste un definito modello patofisiologico. Sono stati proposti diversi meccanismi per spiegare la sintomatologia negativa, incluso il deficit di dopamina, l’atrofia cerebrale, l’eccesso noradrenergico, danni cerebrali precoci e l’iperattività colinergica (105)-(111). Basse concentrazioni di acido omovanillico (HVA) nel liquido cerebrospinale sono associate a ritiro sociale e ad assenza di motivazione dei pazienti schizofrenici con prognosi peggiore (112). L’anomalia più rilevante nei pazienti schizofrenici potrebbe essere un deficit del rilascio di dopamina (113). Questa affermazione si basa sull’evidenza clinica che i pazienti ricoverati per acuzie avevano bassi livelli di acido omovanillico nel liquido cerebrospinale e coloro che avevano le manifestazioni cliniche più eclatanti mostravano bassissimi livelli di HVA nella fase post-acuta. Il miglioramento dei sintomi negativi associati alla terapia di potenziamento con selegilina supporta l’ipotesi di una ipodopaminergia in corteccia prefrontale: la selegilina potrebbe essere efficace perché aumenta la trasmissione dopaminergica nella corteccia prefrontale. Bodkin et al. (102) hanno studiato l’effetto del trattamento combinato antipsicotici-selegilina in pazienti schizofrenici cronici con prominenti sintomi negativi. Sono stati selezionati 21 pazienti e sono stati trattati con basse dosi di selegilina (5 mg/die b.i.d.), in aggiunta al loro trattamento antipsicotico convenzionale. Dopo 6 settimane di trattamento con selegilina si è riscontrato: una riduzione del 37,4% dei sintomi negativi della schizofrenia valutati secondo la SANS, una riduzione dei sintomi depressivi del 36,8%, secondo la Ham-D, e dei sintomi collaterali extrapiramidali del 27,7%, secondo la Simpson Angus Scale. Non sono stati osservati cambiamenti della severità dei sintomi positivi misurati secondo la BPRS. Un miglioramento clinico globale mediamente del 17,6% è stato riscontrato alla CGI. Questi dati supportano l’ipotesi che i sintomi negativi della schizofrenia possano essere manifestazione del deficit della funzionalità dopaminergica regionale. Gupta et al. (103) hanno descritto 3 casi clinici di pazienti con diagnosi di schizofrenia secondo il DSM IV e con prevalenti sintomi negativi, i quali hanno mostrato un significativo miglioramento della loro sintomatologia e delle funzioni globali dopo l’aggiunta di selegilina al regime antipsicotico. Non sono stati osservati effetti collaterali durante il trattamento combinato. Tutti e 3 i pazienti sono stati valutati clinicamente con la BPRS, la SANS, la Mini-Mental State Examination (MMSE), la Simpson Angus Scale, la Geriatric Depression Scale (GDS), e l’Ham-D. I tre pazienti sono stati trattati con selegilina alla dose di 5 mg/die in aggiunta al loro trattamento antipsicotico standard (perfenazina o risperidone); tutti hanno mostrato miglioramento nelle capacità relazionali e nel grado di autosufficienza. Non sono stati osservati effetti collaterali, nonostante l’uso concomitante di inibitori selettivi del reuptake della serotonina. In tutti e 3 i casi il dato più rilevante era la riduzione del SANS, a dimostrazione dell’efficacia del potenziamento con la selegilina sui sintomi negativi della schizofrenia. Nonostante questi risultati siano incoraggianti, l’esiguità del campione considerato (3 pazienti) impone ulteriori studi con una casistica più vasta. In un trial più ampio (114), in doppio cieco e della durata di 8 settimane, sono stati selezionati 16 pazienti schizofrenici con preponderanti sintomi negativi e stabilizzati con terapia antipsicotica, alla quale è stato associato un trattamento con selegilina (15 mg/die) o placebo. Il follow-up clinico è stato effettuato durante il trial e anche 8 settimane dopo l’interruzione della selegilina. Entrambi i gruppi hanno mostrato miglioramenti statisticamente significativi ma clinicamente marginali durante le 8 settimane di trattamento. Tale miglioramento è poi regredito dopo l’interruzione. In questo trial clinico, quindi, la selegilina (15 mg/die) non sembra efficace come terapia di potenziamento. Il motivo della discordanza di questi studi potrebbe essere ascritta a ragioni metodologiche o alla diversa gravità dei pazienti scelti; pertanto sarebbero necessari trial clinici più rigorosi per potere valutare l’efficacia della terapia di potenziamento degli antipsicotici con selegilina.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con antagonisti degli oppioidi

In letteratura sono ormai ampiamente documentate alterazioni del sistema oppioide ritrovate in pazienti affetti da schizofrenia: aumentati o ridotti livelli di peptidi oppioidi, sia nel plasma sia nel sistema nervoso centrale (115); anomalo clivaggio dei precursori oppioidi (116) (117); alterata sequenza amminoacidica (118); irregolarità del ciclo di secrezione circadiana (119); alterato rapporto tra le quantità dei diversi peptidi oppioidi (120). Si è dunque sperimentato l’utilizzo di antagonisti oppioidi (naloxone e naltrexone) nella terapia della schizofrenia, nel tentativo di potenziare l’azione di farmaci antipsicotici. Il naloxone è stato utilizzato in più di 300 casi (121) (122), mostrandosi attivo soprattutto sulla sintomatologia positiva. Poiché il naloxone può essere somministrato solo per via endovenosa e richiederebbe più dosi giornaliere a causa della sua breve emivita, risulta di scarsa compliance per i pazienti e poco adeguato per terapie prolungate. Come alternativa al naloxone, il naltrexone si è proposto quale farmaco più maneggevole (poiché somministrabile per via orale) e adatto a terapie di lunga durata. Studi dei primi anni ’80 hanno mostrato una scarsa efficacia del naltrexone quando somministrato a dosi comprese tra 50 e 800 mg/die per 6 settimane (123) (124), probabilmente perché, quando somministrato ad alte dosi, il farmaco espleta azione di agonista parziale (125). Nonostante i primi insuccessi, l’utilizzo del naltrexone associato ad antipsicotici nel trattamento della schizofrenia ha continuato a suscitare grande interesse, poiché risulta comprovata l’efficacia del naltrexone in altre patologie psichiche quali l’autismo infantile (126), il comportamento auto-lesivo (127). Il motivo per cui i risultati dei primi studi sono stati deludenti potrebbe risiedere, secondo alcuni autori, nella metodologia di valutazione clinica (128). Procedure di valutazione differenti sono state adottate in uno studio in doppio cieco (128) su 18 pazienti schizofrenici. I pazienti selezionati non mostravano cambiamenti del loro quadro clinico nell’arco del mese precedente all’ingresso nello studio, le dosi di antipsicotico assunto non subivano variazioni superiori al 10%. Il naltrexone è stato dato via orale alla dose di 50 mg/die per 14 giorni, insieme alla terapia antipsicotica. Le misurazioni secondo la BPRS e la CGI effettuate all’inizio dello studio (D0) e dopo 7 (D7) e 14 (D14) giorni non hanno evidenziato alcuna differenza significativa tra il gruppo trattato con il naltrexone e il gruppo del placebo, sebbene entrambi abbiano mostrato alla BPRS dei miglioramenti nel corso del tempo rispetto all’inizio della sperimentazione. Tali variazioni si sono presentate statisticamente significative già dopo la prima settimana di trattamento per il gruppo del naltrexone, mentre per il gruppo placebo alla fine delle due settimane di studio (D14). Nel solo gruppo trattato con naltrexone è stato riscontrato, inoltre, un significativo miglioramento anche nelle registrazioni di altri due punteggi: il Withdrawal-Retardation (che valuta il ritiro emozionale, il rallentamento motorio, l’appiattimento affettivo), già dalla prima settimana, e l’Hostile Suspiciousness (che valuta l’ostilità, la sospettosità e la collaboratività), alla fine dello studio. La valutazione con la CGI, invece, non ha mostrato modificazioni significative nel corso delle due settimane né con il naltrexone né con placebo. Calcolando la BPRS in sottogruppi di pazienti classificati in base alla predominanza di sintomatologia positiva o negativa, i risultati mostrano che gli effetti favorevoli della terapia di potenziamento con naltrexone sono più evidenti nei pazienti con sintomi negativi. Tale risultato non sembra imputabile ad una riduzione degli effetti collaterali dovuti al trattamento con antipsicotici, poiché il naltrexone migliora il punteggio di parametri specifici della sintomatologia schizofrenica, ovvero il Withdrawal-Retardation e l’Hostile Suspiciousness, i quali risentono solo del disturbo psichiatrico in esame, non dei sintomi psichici indotti dagli antipsicotici somministrati (129). Sebbene tali risultati possano avvalorare l’ipotesi di un possibile ruolo degli oppioidi nella farmacoterapia del disturbo schizofrenico, non è ancora chiaro quale sistema di neurotrasmissione possa essere implicato. Sono ormai note le interazioni tra il sistema oppioide e il metabolismo e la secrezione della dopamina: l’attivazione dei recettori MI causa un aumento della secrezione di dopamina (130) e il naltrexone ha particolare affinità per tali recettori (125); il blocco del sistema oppioide provoca riduzione della secrezione della DA, dimostrandosi efficace nel migliorare la discinesia tardiva (131). Sebbene il meccanismo d’azione del naltrexone nell’interferire con il miglioramento della sintomatologia schizofrenica sia ancora tutto da chiarire, dallo studio descritto (128) sembra evidente l’efficacia che tale antagonista degli oppioidi ha sulla sintomatologia negativa in pazienti schizofrenici, con il vantaggio di poter essere somministrato per via orale.

I risultati in letteratura, però, non sono sempre concordanti. In uno studio più recente, del 1998 (132), sono stati selezionati 21 pazienti schizofrenici, a cui è stato somministrato naltrexone alla dose di 200 mg/die oppure placebo, oltre all’antipsicotico precedentemente assunto, per la durata di 3 settimane, al termine delle quali seguiva un periodo di crossover per altrettante 3 settimane. Ogni settimana sono stati registrati i punteggi della BPRS totale e delle sue sottoscale. Al termine delle prime 3 settimane nel gruppo del naltrexone non è stata rilevata alcuna modifica del punteggio alla BPRS totale né alle altre misurazioni. I pazienti a cui è stato somministrato naltrexone dopo il periodo di placebo hanno mostrato l’esacerbarsi dei sintomi negativi, con aumento del BPRS totale e del Withdrawal-Retardation, sulle cui rilevazioni il farmaco aveva un effetto tempo-dipendente. Questi risultati sembrano quindi scoraggiare l’utilizzo del naltrexone nella terapia di potenziamento degli antipsicotici, ma una possibile spiegazione dell’insuccesso della terapia con naltrexone potrebbe risiedere nel dosaggio elevato di farmaco utilizzato in tale studio, dosaggio a cui il naltrexone si comporta prevalentemente da agonista parziale (125).

Sia lo studio di Marchesi et al. (128) sia quello di Sernyak et al. (132) appena descritto hanno reclutato un esiguo numero di pazienti (rispettivamente 18 e 21 pazienti) e sono quindi necessari ulteriori approfondimenti prima di giungere alla definitiva valutazione dell’efficacia del naltrexone in associazione con antipsicotici.

Terapia di potenziamento degli antipsicotici con acidi grassi

I recettori per la serotonina, per la dopamina e per il glutammato possono attivare una serie di sistemi intraneuronali di trasmissione del segnale. Uno di tali sistemi utilizza come secondi messaggeri la fosfolipasi A2 (PLA2), l’acido arachidonico (AA) o altri acidi grassi poliinsaturi (PUFA). La PLA2 è in grado, quando attivata, di liberare acido arachidonico oppure altri PUFA dai trigliceridi contenuti nella membrana plasmatica cellulare. Un alterato funzionamento di tale sistema potrebbe, quindi, compromettere a valle la trasmissione del segnale, sebbene in presenza di una normale neurotrasmissione e funzione recettoriale. In soggetti schizofrenici sono state riscontrate alcune anomalie che potrebbero derivare da alterazioni del sistema di trasduzione del segnale PLA2-mediato (133). Tali anomalie consistono in: variazioni della risposta infiammatoria e febbrile; anomalie alla spettroscopia del (31)P, con aumento dei livelli di fosfodiesteri e riduzione dei fosfomonoesteri (rispettivamente cataboliti e precursori dei fosfolipidi) nei lobi prefrontali e temporali, indice di aumentato turnover dei fosfolipidi (134) (135); bassi livelli di AA e altri PUFA nel cervello o nelle membrane cellulari degli eritrociti (136)-(139); elevati livelli di PLA2 nel cervello, nel plasma, negli eritrociti e nelle piastrine (140)-(143). Questi risultati potrebbero rispecchiare un’iperattività di uno degli enzimi della classe delle PLA2, con conseguente aumento della liberazione di AA dalle membrane cellulari e depauperamento del contenuto di AA in tali strutture.

Vari PUFA sono stati sperimentati come presidio terapeutico adiuvante nel trattamento della schizofrenia, e tra essi l’acido docosaesaenoico (DHA) e l’acido eicosapentaenoico (EPA). L’EPA, presente in quantità molto piccola nel cervello rispetto all’AA e al DHA, è in grado di inibire la PLA2, e riveste enorme importanza come precursore di eicosanoidi attivi capaci di competere con AA e DHA per l’incorporazione nella membrana plasmatica (144). La somministrazione di un precursore dell’AA, l’acido Y-linolenico, sembra avere lievi effetti favorevoli in pazienti schizofrenici. Uno tra gli studi più recenti (145) ha valutato l’efficacia dell’acido etileicosapentaenoico (E-EPA) come terapia di potenziamento con farmaci antipsicotici. Sono stati inclusi nello studio in doppio cieco della durata di 12 settimane 115 pazienti con diagnosi di schizofrenia parzialmente responsivi alla farmacoterapia, divisi in 3 gruppi in base al trattamento antipsicotico: antipsicotici tipici, antipsicotici atipici (risperidone, olanzapina o quetiapina) e clozapina, a cui è stato aggiunto E-EPA o placebo. In base alla dose di E-EPA (1, 2 o 4 g/die), i pazienti sono stati suddivisi in 3 sottogruppi. La valutazione dei pazienti è stata effettuata prima del trattamento e alla 4a, 8a, 12a settimana, utilizzando la PANSS totale e la PANSS sub-scales ristrette ai sintomi positivi, negativi e alla psicopatologia generale. Nei gruppi di pazienti trattati con antipsicotici tipici o atipici, la somministrazione di placebo o di E-EPA ha dato un miglioramento rilevato con la PANSS e nelle sub-scales, ma senza alcuna differenza significativa tra il gruppo trattato con placebo ed i gruppi trattati con E-EPA. I pazienti trattati con clozapina ed E-EPA, invece, hanno mostrato un netto miglioramento registrabile in tutte le scale, con il massimo risultato quando la dose di E-EPA era di 2 g/die. La differenza tra E-EPA alla dose di 2 g/die ed il placebo è risultata statisticamente significativa nelle registrazioni della PANSS totale e generale. Per quanto riguarda i livelli di acidi grassi nelle membrane eritrocitarie nei pazienti del gruppo E-EPA/clozapina, le variazioni dell’EPA o del DHA non hanno mostrato alcuna correlazione con i risultati clinici, mentre un aumento dei livelli di AA si è associato a miglioramento clinico. Infatti, dosi di E-EPA pari a 2 g/die si sono associate al miglior risultato clinico e ad aumento di AA nelle membrane plasmatiche delle emazie; invece, con dosi pari a 4 g/die, è stata riscontrata una riduzione di AA. Il maggior effetto dell’E-EPA nel gruppo trattato con clozapina può trovare spiegazione nell’aumento della sintesi di apoD indotta dalla clozapina stessa (146): apoD faciliterebbe il trasporto di AA e in tal modo agirebbe in maniera sinergica con E-EPA (dato alla dose di 2 g/die) nell’aumentarne i livelli nelle membrane plasmatiche. La somministrazione di E-EPA ha determinato, inoltre, una riduzione della trigliceridemia che, nel gruppo di pazienti trattati con clozapina, si presentava ai limiti superiori fin dall’inizio dello studio. L’E-EPA è stato efficace anche nell’alleviare gli effetti collaterali dovuti ad antipsicotici, come aritmie o anomalie cardiovascolari o metaboliche, infiammazione del miocardio o sindrome X (147). Unico effetto collaterale dell’E-EPA è stato rappresentato da modesti disturbi gastrointestinali. Lo studio ha evidenziato la presenza di una variabile inizialmente non prevista. La composizione in acidi grassi delle membrane plasmatiche è indice affidabile dell’introito giornaliero di grassi (148), per cui, misurando gli acidi grassi delle emazie, è stato rilevato che i pazienti in terapia con antipsicotici tipici o atipici modificavano la loro dieta, dopo essere stati informati che alcuni cibi, come frutti di mare, oli di pesce, uova e carne, contengono grassi analoghi alla sostanza che sarebbe stata loro eventualmente somministrata tramite pillola. Sembrano sufficienti piccole variazioni dell’introito di grassi per modificare lo stato psichico di pazienti schizofrenici (149). Perciò, i miglioramenti registrati nel gruppo di pazienti trattati con antipsicotici tipici o atipici e con placebo potrebbero anche essere contaminati dalle modificazioni della loro dieta. Una dieta controllata e l’esclusione dallo studio dei pazienti che assumono oli di pesce, anticoagulanti, colestiramina, clofibrato o altri agenti antilipidemici potrebbero ovviare a questo tipo di problema. Un gruppo di pazienti con tali caratteristiche ha rappresentato il campione di uno studio in doppio cieco (150). La compliance dei pazienti è stata valutata tramite la quantificazione degli acidi grassi nella membrana plasmatica eritrocitaria. Alle dosi di 3 g/die di E-EPA utilizzate, in associazione con gli antipsicotici che il paziente continuava ad assumere, non sono state riscontrate variazioni cliniche di rilievo rispetto al gruppo di controllo. Gli autori dell’articolo attribuiscono alla maggiore durata di malattia e all’età avanzata dei pazienti da essi considerati la discordanza tra i loro studi ed il successo delle terapie di potenziamento con EPA rilevate da studi precedenti.

Anche il DHA potrebbe, in teoria, essere utile nella terapia di potenziamento degli antipsicotici, poiché EPA e DHA interferiscono in maniera simile con lo stesso sistema di trasmissione del segnale. EPA o DHA sono stati somministrati alla dose di 2 g/die per tre mesi in pazienti che ricevevano antipsicotici (151). Il controllo è stato effettuato con olio cereale come placebo. I risultati hanno evidenziato un consistente miglioramento, nel gruppo trattato con EPA, del punteggio alla PANSS totale rispetto al placebo, e alla PANSS positiva rispetto al gruppo trattato con DHA. In particolare, l’EPA è efficace sullo score dei sintomi positivi. Gli effetti più marcati si sono riscontrati in pazienti con alti livelli di EPA e AA iniziali.

Per studiarne l’efficacia come unico agente terapeutico, l’EPA è stato somministrato da solo (senza antipsicotici) ad un gruppo di 15 pazienti alla dose di 2 g/die per tre mesi e gli effetti sono stati confrontati con quelli ottenuti in un gruppo di altrettanti 15 pazienti che assumevano olio cereale come placebo. Nel gruppo del placebo, tutti i pazienti hanno manifestato la necessità di trattamento farmacologico con antipsicotici, contro i 9 del gruppo dell’EPA. Tra i 6 rimanenti, 4 non hanno avuto alcuna necessità di trattamento farmacologico, ad uno solo è stato somministrato un antipsicotico soltanto per la prima settimana, ad un altro paziente è stata data un’unica dose di flupentixolo decanoato corrispondente in media ad un trattamento di 14 giorni. Al termine del trial clinico, i punteggi della PANSS nel gruppo EPA è stato significativamente più basso che nel gruppo placebo. Nell’ambito della valutazione dei sintomi positivi, solo due dei pazienti a cui è stato dato placebo hanno mostrato un miglioramento superiore al 50%, mentre sono stati 8 tra quelli del gruppo EPA.

Sembrerebbe, quindi, che l’EPA possa sortire degli effetti clinicamente rilevabili solo in associazione a clozapina.

Terapia di potenziamento con deidroepiandrosterone

Strous et al. (152) hanno valutato l’effetto di potenziamento della terapia con deidroepiandrosterone (DHEA) sui sintomi negativi, depressivi e ansiosi della schizofrenia. Il DHEA e soprattutto il DHEA-S sono importanti neurosteroidi circolanti con molte funzioni neurofisiologiche vitali, come la regolazione dell’eccitabilità neurale. Nello studio clinico sono stati inclusi 30 pazienti schizofrenici con prevalente sintomatologia negativa, che hanno ricevuto il DHEA o il placebo in aggiunta al loro trattamento antipsicotico standard. Le dosi di DHEA sono state aumentate progressivamente fino a raggiungere 100 mg/die. Il trial è durato 6 settimane. I risultati dello studio hanno indicato un significativo miglioramento dei sintomi negativi (P < 0,01), depressivi (P < 0,05) e ansiosi (P < 0,001) nel gruppo del DHEA. Tale effetto è più evidente nelle donne. Il miglioramento dei sintomi negativi è stato indipendente dal miglioramento dei sintomi depressivi. Non ci sono state differenze riguardo i sintomi positivi misurati con la PANSS rispetto al placebo. I soggetti del gruppo DHEA hanno mostrato un significativo incremento dei livelli plasmatici di DHEA (P < 0,05) e DHEA-S (P < 0,01) senza variazioni dei livelli di cortisolo. L’aumento dei livelli plasmatici di DHEA e DHEA-S erano correlati al miglioramento dei sintomi negativi (P < 0,05), ma non al miglioramento dei sintomi depressivi e ansiosi. Non si sono riscontrati effetti collaterali durante il trattamento con DHEA. Sembra, quindi, che il DHEA possa contribuire al controllo della sintomatologia negativa, depressiva e ansiosa della schizofrenia, e che i neurosteroidi in generale, e il DHEA in particolare, possano avere un ruolo nel potenziamento della terapia farmacologica del disturbo schizofrenico.

Ruolo di antiossidanti nella terapia della schizofrenia

Radicali dell’ossigeno, ossido nitrico o suoi derivati, possono causare la perossidazione di varie strutture cellulari (membrane fosfolipidiche, proteine, DNA), a tal punto da alterare una o più funzioni della cellula (trasporto di membrana, produzione mitocondriale di energia, espressione genica, trasduzione del segnale mediata da recettori e da secondi messaggeri di natura fosfolipidica). In pazienti schizofrenici sono state riscontrate alterazioni del sistema degli enzimi antiossidanti, aumento della perossidazione lipidica e ridotti livelli di acidi grassi poliinsaturi (PUFA), che porterebbero ad un consistente stress ossidativo (153) nelle cellule neuronali. Se questo fosse vero, un trattamento volto a ridurre gli stress ossidativi e ripristinare l’equilibrio ossido-riduttivo potrebbe giovare ai pazienti schizofrenici. L’utilizzo di PUFA e antiossidanti come presidio terapeutico complementare ha sortito incoraggianti risultati, riducendo la gravità del quadro clinico di pazienti schizofrenici. Si è anche ipotizzato che l’utilizzo di antiossidanti nel periodo iniziale della patologia schizofrenica possa prevenire l’ulteriore danno ossidativo neuronale. Abitudine al fumo, all’alcol, diete ipercaloriche, scarsa attività fisica, sono tutte condizioni presenti frequentemente nella vita degli schizofrenici e che aumentano ancor di più il rapporto tra ossidanti e antiossidanti nell’organismo, per cui, oltre alle terapie tradizionali, sembra opportuno intervenire modificando lo stile di vita del paziente.

Conclusioni

La ricerca di nuovi approcci farmacologici per la terapia della schizofrenia nasce dall’evidenza che sia gli antipsicotici tipici sia gli atipici non sono sempre in grado di controllare pienamente la complessa sintomatologia schizofrenica e possono risultare poco efficaci su una percentuale non trascurabile di pazienti. Da queste osservazioni deriva l’esigenza di studiare nuove strategie terapeutiche, eventualmente associando agli antipsicotici farmaci a diverso profilo recettoriale, con lo scopo di migliorarne l’efficacia terapeutica e di ridurne gli effetti collaterali. I risultati dei vari studi presi in esame possono essere così riassunti: il trattamento combinato flufenazina-idazossano riduce i sintomi psicotici positivi e negativi in maniera significativamente maggiore rispetto alla terapia con la sola flufenazina; l’aggiunta del celecoxib al risperidone riduce globalmente il punteggio della SANS; il potenziamento con famotidina dà incoraggianti risultati nella terapia dei pazienti resistenti ai trattamenti standard; l’augmentation con selegilina o ciproeptadina sembra efficace in pazienti in cui prevalgono i sintomi negativi; il DHEA, in associazione con gli antipsicotici standard, riduce i sintomi negativi, depressivi e ansiosi della schizofrenia; l’associazione E-EPA-clozapina determina significativi miglioramenti della psicopatologia schizofrenica rispetto al controllo; sono contrastanti i dati riguardo i trattamenti di potenziamento con naltrexone.

I dati più interessanti, a nostro avviso, riguardano l’augmentation di antipsicotici tipici con agonisti parziali del sito di legame della glicina o con sarcosina. Gli studi al riguardo hanno evidenziato, infatti, un importante effetto sinergico con significativo miglioramento sia dei sintomi positivi che negativi della schizofrenia e, aspetto particolarmente importante, un’azione differenziale della D-cicloserina in aggiunta ad antipsicotici tipici o atipici. In conclusione, alla luce dei dati sperimentali a disposizione, l’associazione di antipsicotici con farmaci non convenzionali sino ad oggi testati sembra essere potenzialmente efficace e non avere significativi effetti collaterali; tuttavia, data l’esiguità dei campioni, sono auspicabili ulteriori e più ampi trial per confermare le recenti acquisizioni.

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