Aspetti concettuali ed Interpretativi dell’Insight nella Malattia di Alzheimer

Conceptual and Interpretative Aspects of Insight in Alzheimer’s Disease

M. De Vanna, D. Carlino, E. Aguglia

U.C.O. di Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste

Key words: Alzheimer’s disease • Insight • Anosognosia • Awareness
Correspondence: Prof. Maurizio De Vanna, U.C.O. di Clinica Psichiatrica, via Paolo De Ralli 5, 34137 Trieste, Italy
Tel. +39 040 571077-51156, Fax +39 040/566179, e-mail: devanna@univ.trieste.it

Introduzione

Recentemente, grande attenzione è stata rivolta da alcuni Autori sul ridotto insight dei deficit cognitivi dei pazienti con malattia di Alzheimer.

La malattia di Alzheimer permette di indagare la questione della compromissione dell’autocoscienza in maniera chiara ed esemplare.

La conoscenza della propria storia è infatti imprescindibile dalla memoria, grazie alla quale ogni essere umano costruisce la propria identità e da cui deriva anche la consapevolezza della pianificazione dei propri progetti e la consapevolezza morale.

Tuttavia, esistono risultati contraddittori circa la frequenza dello scarso insight nella malattia di Alzheimer e delle sue relazione con la gravità dei deficit cognitivi, la depressione e le disfunzioni del lobo frontale.

Queste divergenze dipendono da problemi metodologici inerenti la numerosità, l’eterogeneità ed i criteri di inclusione dei pazienti con malattia di Alzheimer (1)-(3).

Per quanto riguarda gli aspetti epidemiologici, Sevush e Leve (4) suggeriscono una prevalenza dell’80% dell’anosognosia in pazienti con probabile malattia di Alzheimer, mentre per Migliorelli (5) si può parlare di una prevalenza del 20%.

Alcuni Autori hanno valutato il grado di segregazione familiare di questa dimensione in pazienti affetti da una forma familiare di malattia di Alzheimer a trasmissione autosomica dominante.

Questi studi hanno rilevato come i soggetti che negavano le proprie difficoltà con un umore eu-ipertimico mostravano più frequentemente delle mutazioni discrete localizzate sul cromosoma 21 (6) (7), mentre i soggetti maggiormente consapevoli e disforici presentavano più frequentemente delle alterazioni a livello del cromosoma 14 (8). L’anosognosia si è dimostrata quindi una variabile piuttosto eterogenea all’interno di uno ristretto numero di pazienti geneticamente determinato (9).

Le implicazioni teoretiche del concetto di anosognosia riguardano i processi ed i meccanismi che permettono la comprensione (“awareness”) ed il monitoraggio dello stato di funzionamento corticale.

Questo dibattito si è aperto con la pubblicazione di una monografia da parte di Weinstein e Kahn (10) nel 1955 che hanno focalizzato i punti irrisolti a proposito dell’anosognosia: la distinzione tra anosognosia come disturbo intrinseco cerebrale e meccanismi psicogeni o motivazionali come la negazione; i potenziali correlati anatomici ed il grado con cui l’anosognosia deve essere considerata un disturbo primario in assenza di una compromissione cognitiva generalizzata, le correlazioni con alterazioni propriamente neurologiche.

Il concetto di anosognosia è specifico sia in riferimento ad una funzione cognitiva (cioè può essere presente per una funzione e non per un’altra) (11) che ad un deficit personale (il soggetto quindi è in grado di valutare adeguatamente il funzionamento di alcune dimensioni cognitive in altre persone) (12).

Gli studi sperimentali valutano un deficit di consapevolezza attraverso:

– l’osservazione da parte dello sperimentatore della compromissione nella capacità di riportare i propri deficit mnesici (13) (14);

– l’osservazione di una significativa discrepanza tra l’opinione dei familiari e/o caregivers e quella del paziente (15) (16);

– l’incapacità di valutare adeguatamente le proprie performances mnesiche attraverso la somministrazione di tests opportuni (17).

I risultati divergenti a proposito dell’awareness nell’anosognosia nella malattia di Alzheimer dipendono dalle difficoltà metodologiche incontrate dagli sperimentatori: non è stata infatti considerata la possibilità di un’analisi a cluster per individuare sottopopolazioni di pazienti che presentano uno stesso grado di compromissione cognitiva, né è stato possibile fino ad ora stabilire se il paziente non è in grado di richiamare informazioni utili alla conoscenza del proprio stato, oppure se si tratta obiettivamente della mancanza della capacità di giudizio (“feeling of knowing”) (18).

Il livello di insight valutato sulla base della discrepanza tra quanto riportato dai familiari/caregivers e dal paziente stesso è strettamente dipendente dal punteggio ottenuto al MMSE, potendo così inficiare la valutazione degli studi cross-sectional, come è stato replicato dallo studio di Sevush (4).

Il lavoro di Duke et al. (19), oltre a ribadire l’eterogeneità di risultati che si ottiene con i diversi metodi di valutazione dell’autoconsapevolezza, permette ulteriori inferenze sulle variabili neuropsicologiche che definiscono l’insight.

I 24 pazienti alzheimeriani dello studio hanno permesso di evidenziare che i metodi “prediction-postdiction” (PP) sono dipendenti dal monitoraggio continuo delle performances mnestiche e cognitive (14).

Correa et al. (20) ritengono che, soprattutto i tests di valutazione postditiva, siano richieste dei processi cerebrali in linea dipendenti dall’integrità anatomo-funzionale dei lobi frontali.

La metodologia che utilizza la discrepanza di opinioni tra pazienti e familiari/caregivers è invece dipendente dal riconoscimento della propria efficienza mnesica generale.

Un altro importante dato è emerso da questo studio: l’analisi PP rivela che i pazienti erano in grado di valutare correttamente l’esecuzione dei compiti di fluenza verbale propri e dei cargivers.

Per quanto non sia stato possibile discernere se tale compromissione sia ascrivibile ad un deficit nella memoria semantica, nell’iniziazione o nella formulazione del linguaggio, questo risultato è in accordo con precedenti ricerche che considerano l’insight come il risultato di diversi processi cognitivi dissociabili (21)-(24).

I pazienti quindi mantengono conservata la consapevolezza immediata delle disfunzioni mnesiche ma falliscono nel collocare questo deficit nell’ambito di sistemi generalizzati di conoscenza del sé.

Considerazioni teoriche sulla psicopatologia dell’insight

Nel 1934, Aubrey Lewis (25), cercando di definire il problema dell’insight, ne illustrò le relazioni con la anosognosia, la patologia del lobo frontale e le implicazioni di questa dimensione con la compliance.

La visione di Lewis in merito all’insight era quindi di una variabile multidimensionale, in aperta opposizione all’ipotesi tutto o nulla invalsa fino ad allora (26)-(30).

La presenza/assenza di consapevolezza in seguito all’introduzione degli psicofarmaci e alla necessità di una valutazione neuropsicologica della compliance e del quadro psicopatologico del paziente, ha indotto i ricercatori a considerare l’insight da un punto di vista dimensionale ponendo agli estremi del continuum i concetti di “sealing over”, ovvero la condizione di negazione di malattia o per lo meno della sua gravità, e di “integration”, cioè del tentativo da parte del paziente di comprendere la propria esperienza psicotica inserendola in un adeguato contesto (31).

Già la fenomenologia psichiatrica aveva affrontato l’argomento con risultati analoghi.

La consapevolezza è prima di tutto un’esperienza che determina lo stato di comprensione.

Husserl (32) definì la consapevolezza come uno stato intenzionale, il che significa “mirare a qualcosa” e presuppone una certa “attenzione alla vita” (33). In questo senso la consapevolezza è, in termini fenomenologici, coestensiva con lo psichismo del soggetto (34).

Quello che gli Autori anglosassoni descrivono come “self-awareness”, o consapevolezza riflessiva od ontogenica, è la comprensione che il soggetto ha del proprio stato di consapevolezza (26).

Perciò il soggetto può separare il Sé dalla percezione che ha di esso e realizzare che egli è nel processo di percezione; quindi la consapevolezza riflessiva permette al soggetto di essere l’oggetto della sua comprensione.

L’aforisma cartesiano “cogito, ergo sum” dimostra che l’uomo può realizzare che egli pensa e da questo dedurre la realtà della sua esistenza.

Glatzel (35) distingue così le manifestazioni del comportamento dalle manifestazioni del vissuto. Le prime concernono le modificazioni del comportamento motorio, gestuale, mimico ed anche verbale (ivi compreso il contenuto “obiettivo” delle parole del paziente, ad esempio idee deliranti), che possono essere descritte senza riferimento allo sfondo (arrière-fond) del vissuto e alla totalità della persona mediante metodi di tipo etologico.

La specificità psicopatologica non è apportata da modificazioni del comportamento ma dalle manifestazioni del vissuto che comprendono le diverse forme del delirio, i disturbi dell’umore melanconico o maniacale e gran parte dei disturbi della percezione e del pensiero della psicopatologia classica. Ma queste modificazioni del vissuto che poggiano sulla totalità della persona e non sono riducibili a disturbi delle funzioni parziali dello psichismo, si nascondono sotto ciò che si mostra direttamente allo psichiatra e non possono essere afferrati che indirettamente mediante l’osservazione psichiatrica, i cui dati rinviano al comportamento materiale.

Sono queste modificazioni del vissuto, che si possono chiamare ad esempio “strutture” per distinguerle dai “sintomi”, a costituire le modificazioni del comportamento specificamente psichiatriche (36).

Sistemi di monitoraggio e strutture mnestiche: le basi teoriche per lo studio dell’insight nella malattia di Alzheimer

Nel 1974 Baddeley e Hitch (37), nell’intento di superare le critiche al modello di Atkinson e Shiffrin (38) del 1968 che considerava la memoria a breve termine come sistema unitario, hanno proposto una struttura che si articola in almeno tre sottosistemi. Parte del sistema è costituita da un centro di controllo dell’attenzione, il cosiddetto “central executive”, che forma un’interfaccia tra la memoria a lungo termine e due o più sottosistemi (39).

Il centro esecutivo (central executive) è considerato il responsabile della selezione ed esecuzione delle strategie e provvede a mantenere e spostare l’attenzione a seconda delle esigenze. Lo si considera associato alle operazioni del lobo frontale e sensibile al danno frontale, da cui deriva la cosiddetta sindrome dis-esecutiva (dysexecutive syndrome) o sindrome del lobo frontale.

Nel 1991 Baddeley et al. (40) hanno inoltre messo in evidenza che il centro esecutivo è responsabile della capacità di coordinare le informazioni provenienti da fonti differenti.

Tale capacità risulta caratteristicamente compromessa nel morbo di Alzheimer.

L’autocoscienza dei propri deficit mnesici non sembra interessare l’apprendimento procedurale, riferito a compiti motori e chinestetici, che Mishkin et al. (41) hanno ipotizzato essere mediato da circuiti cortico-striatali, relativamente conservati nei pazienti con AD. Questo concetto si concretizza operativamente nel fatto che l’aver avuto esperienza di una procedura, intesa come sequenza di azioni, comporta una facilitazione a riutilizzare la stessa procedura in contesti analoghi e tutto ciò avviene in modo inconsapevole.

Utilizzando proprio il modello di Baddeley (42), Becker (43) propone una spiegazione basata su di un modello a due livelli dei disturbi della memoria episodica nell’AD.

Questi attribuisce alla compromissione dell’ippocampo la causa di un deficit squisitamente mnestico nell’encoding e nel retrieval dell’informazione ed alla compromissione delle strutture pre-frontali la causa di un deficit attentivo per ciò che riguarda le prestazioni mnestiche, cioè del “central executive” nel modello di Baddeley.

I modelli proposti dagli neuropsicologi cognitivi considerarono l’anosognosia quale risultato dell’interruzione di specifici meccanismi che normalmente monitorano gli impulsi efferenti dei moduli percettivi e cognitivi individuali.

Bisiach et al. (44) rifiutano un modello piramidale del sistema di monitoraggio e propongono che processi sensoriali periferici, modalità-specifici rendano conto della consapevolezza delle dimensioni, dei domini individuali.

Infatti, questi modelli gerarchici cognitivi, validi sul piano descrittivo, non trovano corrispondenza sul piano neurobiologico, dove sembra invece prevalere una visione in parallelo del funzionamento delle diverse aree cerebrali.

L’emisfero sinistro, essendo dominante per quanto attiene al comportamento verbale, all’introspezione e alla pianificazione di comportamenti che vengono poi espressi verbalmente, sembra essere principalmente coinvolto nell’esplicitazione della consapevolezza individuale (45).

I lavori di Gazzaniga (46) (47) presuppongono che l’emisfero sinistro sia la sede di un “centro integratore” strettamente connesso con le funzioni linguistiche e che agisce sulle informazioni provenienti da diversi moduli cerebrali, collegando le esperienze di vita in una coscienza di sé unitaria.

Il centro integratore corrisponde alla “consapevolezza riflessiva” o “self-awareness”, in opposizione alla consapevolezza primaria che interessa le percezioni, i sentimenti, i pensieri e le azioni.

Tuttavia, Devinsky (45) individua anche nell’emisfero destro capacità volitive e di autocoscienza.

Pazienti con lesioni dell’emisfero destro, possono comprendere semplici domande o rispondere efficacemente con risposte non verbali, come disegnare una figura.

Allo stesso modo, la dominanza dell’emisfero destro si realizza anche per aspetti emozionali (48)-(51), motivazionali (52).

Per questi motivi, Devinsky (45) ritiene che la consapevolezza rifletta processi cerebrali che si attivano in parallelo e non secondo un sistema di integrazione piramidale. Infatti lesioni focali neocorticali non alterano la consapevolezza, che risulta quindi dal sincronismo di funzioni corticali e sottocorticali ampiamente diffuse (53).

Il talamo, che nei modelli di callosotomia non viene sezionato, rappresenta il trade union anatomo-funzionale tra consapevolezza e sincronismo dell’attività corticale (53).

Il livello di lateralizzazione ha probabilmente un’origine evoluzionistica secondo un meccanismo di “esclusione” relativo all’alta specializzazione dell’emisfero sinistro per le funzioni linguistiche (54) (55).

Nella review di Devinsky ci si pone quindi in aperta opposizione al modello gerarchico evoluzionista jacksoniano di fine Ottocento, che articolava tre diversi livelli funzionali corrispondenti ad altrettanti stadi evolutivi.

Ulteriori studi saranno necessari per avvalorare queste ipotesi nell’ambito delle patologie degenerative cerebrali.

Schachter (6) propone un modello per il quale la specificità del processo di comprensione, considerando l’esistenza di un sistema di monitoraggio centrale (il CAS) dotato di connessioni specifiche per le diverse modalità.

La disconnessione da specifici moduli (per esempio, quelli del linguaggio, della memoria, della percezione, ecc.) è responsabile di specifici deficit della consapevolezza.

Le vie efferenti dal CAS sono dirette ad una “sistema esecutivo” (il CES), responsabile dell’inizio, dell’organizzazione e del monitoraggio di sequenze complesse.

Mentre il substrato anatomico del CAS è rappresentato dal lobo parietale, quello del CES è considerato il lobo frontale.

Secondo Schachter, la dissociazione tra questi due sistemi rappresenta il substrato fisiopatologico delle diverse forme di anosognosia.

Le successive ricerche condotte da Agnew e Morris (56), hanno implementato queste informazioni descrivendo l’unico modello cognitivo di “unawareness” dei propri deficit mnesici.

Come già descritto da Schachter, i contenuti della memoria semantica ed episodica vengono continuamente rivisti alla luce di nuove informazioni in entrata.

Un comparatore mnemonico, localizzato all’interno del CES della memoria a breve termine, che permette di raffrontare le performances mnesiche con lo stato di funzionamento della memoria contenuto in un “personal knowledge base” (PBK) della memoria semantica.

In occasione di una discordanza tra le performances e lo stato di funzionamento mnesico, le informazioni vengono registrate dal CAS attraverso gli input provenienti dalla memoria a lungo termine.

In questo modo, le informazioni che vengono esperite dal soggetto derivano direttamente dalla memoria episodica, senza essere state filtrate dalla memoria semantica.

Secondo questo modello sono stati identificati tre situazioni di alterata consapevolezza dei propri deficit mnesici.

Nel caso dell’”anosognosia mnesica” la discordanza tra stato e funzionamento mnesico viene percepita ma non registrata a livello del PBK nella memoria semantica, cosicché questi soggetti negano un deficit mnesico ed, in virtù del collegamento tra memoria implicita ed il sistema comparatore del CES, evitano certe attività comportamentali che richiedono un sistema mnemonico efficiente. I soggetti non sembra riferiscano la dimenticanza ma non sono consapevoli delle implicazioni di questo evento.

Possono presentare anche alterazioni timiche secondarie, quali depressione, senza riconoscerne la causa.

Le funzioni esecutive sono conservate.

Questo tipo di anosognosia è correlato con la gravità dello stato dementigeno.

Nel caso dell’anosognosia esecutiva, esiste un’alterazione a livello del sistema di comparazione del CES.

In questo caso, i pazienti percepiscono il deficit ma non ci sono segnali che indicano tale evento come inusuale.

I soggetti cercano di colmare le lacune mnestiche con delle confabulazioni.

Nell’anosognosia primaria, il deficit viene percepito ed esperito solo attraverso la memoria implicita.

È possibile che l’anosognosia primaria sia analoga all’anosognosia mnestica, che mostra un’alterazione a livello del PBK, ma in questo caso il deficit si estende ad altre dimensioni cognitive e allo stato dementigeno nel suo complesso.

Inoltre, considerate le analogie con soggetti anziani di controllo, nell’anosognosia primaria i pazienti affermano di presentare le stesse difficoltà mnestiche che presentavano prima dell’esordio della malattia.

Questo modello è il primo tentativo di classificazione operativa dei disturbi dell’insight in soggetti affetti da morbo di Alzheimer.

Tuttavia, non spiega come gli stessi pazienti mostrino consapevolezza del deficit mnesico globale né il progressivo grado di discrepanza tra la valutazione autoriportata ed eteroriportata.

Inoltre, pur considerando che il sistema comparatore può essere influenzato dalle caratteristiche temperamentali, il modello non prevede delle associazioni con lo stato timico ed emozionale dell’individuo, come dimostrato dalla stretta correlazione con uno stato apatico, e dalla correlazione negativa con la sintomatologia ansiosa (57).

Babinsky (58) ha coniato a proposito il termine di anosodiaforia per descrivere soggetti la cui scarsa consapevolezza dei deficit mnesici è attribuibile primariamente a meccanismi affettivi.

Lo studio retrospettivo di Dereusne et al. (57) indica che, nelle fasi precoci del morbo di Alzheimer, i deficit emozionali sono attribuibili ad alterazioni a livello del nucleo amigdaloideo.

Correlati dell’anosognosia nella malattia di Alzheimer

Il range di possibili correlazioni dell’anosognosia nella malattia di Alzheimer, in confronto alle sindromi amnestiche pure, è dovuto sostanzialmente alla natura globale e progressiva di questa condizione.

Severità della demenza

Partendo dall’assunto che una compromissione generalizzata delle funzioni cognitive è un prerequisito necessario, anche se non sufficiente, per il riscontro di una condizione di anosognosia (4), alcuni Autori hanno evidenziato come i processi cognitivi critici per il monitoraggio consapevole delle stesse funzioni cognitive erano parallelamente compromesse con la progressione della patologia dementigena (59).

Lo studio più esteso a riguardo è stato condotto da Migliorelli et al. (20) nel 1995: i pazienti anosognosici hanno dimostrato punteggi al MMSE significativamente più bassi ed un grado di compromissione delle attività di vita quotidiane, valutate con la Functional Inventory Measure, più elevato rispetto al gruppo di pazienti non anosognosici.

Inoltre, il gruppo anosognosico ha evidenziato una più lunga durata di malattia, suggerendo che l’anosognosia potrebbe essere un marker di una più lenta progressione della malattia piuttosto che della usa gravità.

Vale la pena però considerare che la capacità mnesiche e verbali sono le funzioni cognitive maggiormente indagate dal MMSE e che, nello stesso tempo, sono anche indipendentemente correlate con le misure dell’anosognosia.

Recentemente Vogel et al. (60) hanno evidenziato in uno studio longitudinale un’ampia differenza individuale nel livello di insight tra pazienti con demenza lieve, MCI e controlli.

Inoltre, come testimoniato da precedenti ricerche, per quanto i disturbi amnesici siano la principale area di interesse, la scarsa consapevolezza interessa anche le alterazioni comportamentali, i deficit funzionali, le relazioni sociali ed il controllo emozionale.

Una possibile spiegazione dello scarso insight sia nel MCI che nella malattia di Alzheimer, riguarda il graduale adattamento del paziente al lento e progressivo deterioramento delle abilità mnesiche, anche se ciò non spiega l’ampia variabilità riscontrata nel grado di insight (60).

Infatti, Gil et al. (61), che hanno valutato un campione di 45 soggetti affetti da malattia di Alzheimer di grado lieve o moderato, hanno riscontrato che il livello di auto-consapevolezza (“self-consciousness”) era tanto più compromesso quanto la gravità della malattia di Alzheimer; nello stesso studio sono però state analizzate delle correlazioni tra alcune dimensioni neuropsicologiche dell’awareness in funzione dei punteggi ottenuti al MMSE e che sottolineano il carattere multidimensionale dell’insight.

L’auto-consapevolezza dei propri deficit è particolarmente compromessa per quanto riguarda le alterazioni cognitive, la capacità di giudizio morale e la memoria prospettica.

Le funzioni meno compromesse riguardavano la propria identità e la rappresentazione dello schema corporeo.

La compromissione anosognosica della capacità di giudizio inoltre correla con i punteggi ottenuti al MMSE, mentre lo stato affettivo, i disturbi della rappresentazione dello schema corporeo, la memoria prospettica e le capacità di introspezione non sono risultate correlate alla severità della demenza.

Disfunzioni del linguaggio

I deficit del linguaggio assumono un ruolo decisivo nella valutazione dell’anosognosia, implicando, per definizione, un’autovalutazione delle proprie funzioni cognitive.

Nella malattia di Alzheimer, un solo studio ha correlato le disfunzioni del linguaggio con l’anosognosia.

Sevush e Leve (12) hanno osservato che l’anosognosia era correlata con un solo item della loro “assessment of cognitive abilities in dementia score” valutante le capacità di naming.

Tuttavia, questa evidenza non è stata successivamente replicata per il fatto che non riflette un deficit intrinseco nella nominazione ma può anche dipendere dalla difficoltà intrinseca del task. Inoltre in questo task sono coinvolte le capacità visuo-percettive e del linguaggio che rendono meno specifica l’indagine.

Sembra infatti che le proprietà di linguaggio necessarie per evidenziare clinicamente il riscontro dell’anosognosia, non rifletta un deficit nel formal testing.

In molti pazienti con AD, con la progressione della malattia, alla compromissione della memoria episodica si associa quella della memoria semantica. Analizzando i vari dati sperimentali, bisogna tener presente che i compiti più frequentemente utilizzati per indagare tale funzione (fluenza e naming) coinvolgono anche componenti linguistiche, attentive e di working memory e non sempre è possibile isolare, nei vari disegni sperimentali, le sole componenti semantiche.

Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare le cause della compromissione della memoria semantica nei pazienti con AD. Alcuni Autori attribuiscono la causa del deficit semantico ad una incapacità di accedere ad un archivio semantico relativamente ben conservato, altri ad una compromissione nell’organizzazione dell’archivio semantico, ed altri ancora ad un decadimento della traccia (39).

Secondo Spinnler (62) quest’ultima ipotesi è oggi non più sostenibile e viene contraddetta dalla osservazione che spesso il paziente ad una seconda richiesta, dopo un insuccesso, risponde in modo corretto alla medesima domanda.

L’ipotesi più verosimile, secondo questo Autore, è la prima, laddove il difetto di accesso all’archivio sarebbe dovuto all’incapacità di attuare una strategia di ricerca adeguata nell’archivio mnestico.

Alcuni studi (63)-(65) che hanno indagato la memoria semantica utilizzando test di fluenza verbale hanno evidenziato che:

a) la performance di pazienti con AD è relativamente normale quando le richieste semantiche sono meno marcate (fluenza verbale per lettera) e diventa invece deficitaria quando la richiesta semantica aumenta (fluenza per categorie);

b) i pazienti con AD, rispetto ai controlli, producono un numero significativamente inferiore di termini ed un basso numero di cluster (ossia di raggruppamenti semantici dei vari termini).

Secondo gli Autori questi dati confermerebbero l’ipotesi di una disgregazione delle rappresentazioni semantiche nei pazienti con AD come causa del disturbo a carico della memoria semantica. Anche le prove di denominazione confermano questa ipotesi.

Disfunzioni mnesiche

Il grado di compromissione mnesica è correlato, secondo lo studio di Feher et al. (66) con il grado di discrepanza tra quanto riportato dai caregivers e dai pazienti relativamente al deficit mnesico. È stato inoltre già citato lo studio di Migliorelli et al. (20) a proposito del richiamo ritardato di informazioni che fa supporre come sia la compromissione della memoria episodica il presupposto all’incapacità di riportare uno stesso deficit mnesico.

Tuttavia, la letteratura che si è occupata delle sindromi amnestiche pure ha dimostrato che queste sono due variabili indipendenti (67).

È stato perciò proposto e riportato in un case-report da Schachter (68) nel 1983, che la compromissione mnesica sia un fattore di mantenimento dell’anosognosia.

Questa ipotesi è stata suffragata da altri Autori che non hanno riscontrato un’associazione statisticamente significativa tra anasognosia e impairment cognitivo (8) (69) (70) così come la severità globale della malattia misurata al MMSE (8) (10). Da questi lavori emerge come il l’attenzione dei ricercatori dovrebbe essere orientata alla valutazione del contributo del deficit del lobo frontale nell’etiopatogenesi dell’anosognosia.

Disfunzioni esecutive e deficit del lobo frontale

La valutazione delle disfunzioni esecutive dovute ad una compromissione del lobo frontale nelle sindromi amnesiche rende assiomatica l’indagine relativamente alla malattia di Alzheimer, tanto più che nella malattia di Pick e della demenza vascolare, il deficit cognitivo e la perdita di insight rappresentano alterazioni patognomoniche di queste sindromi (71) (72).

La sintomatologia tipica delle disfunzioni esecutive è rappresentata dalla confabulazione, dal disorientamento e dalle false identificazioni, che diversi studi hanno dimostrato essere associate alla scarsa consapevolezza di malattia (11) (73) (74). Per quanto le ipotesi circa l’insorgenza di questi disturbi siano molteplici, gli aspetti neurobiologici sono sempre indicativi di un coinvolgimento del lobo frontale.

Anche alterazioni del tono dell’umore in senso ipertimico e atteggiamenti disinibiti sono indicativi di scarsa consapevolezza di malattia (20) (21) (75).

Secondo Migliorelli (76), l’anosognosia risulta essere correlata anche con la sintomatologia psicotica del paziente con morbo di Alzheimer.

A suffragare questa relazione, le ricerche di Starkstein et al. (75) e Reed et al. (8) hanno osservato una correlazione tra il grado di awareness per le funzioni mnesiche ed il lobo frontale dorsoparietale destro in pazienti alzheimeriani.

Secondo Goldberg e Barr (77), l’alterazione dell’attività di controllo esecutivo della corteccia pre-frontale influisce pesantemente sull’autoconsapevolezza dell’individuo compromettendo le funzioni cognitive preposte all’autorilevazione di errori e alla comprensione delle conseguenze sulla propria vita. Ciò potrebbe verificarsi nell’Alzheimer, nelle psicosi schizofreniche e nelle sindromi deliranti, dove il disturbo si osserva a livello delle funzioni sensoriali primarie e delle funzioni cognitive più elevate, correlate all’attività della corteccia posteriore destra e alle sue connessioni con le regioni più anteriori della corteccia frontale (31).

Il discernimento tra immagine e percezione sembra dipendere in gran parte dalla parte anteriore del giro cingolato, come dimostrano gli studi di Aizenstein et al. (78) ed in passato in pazienti sottoposti a cingolectomia anteriore (79), i quali testimoniano la produzione spontanea di immagini a contenuti percettivi. Il giro cingolato anteriore sembra quindi coinvolto in relazione a compiti svolti in risposta a stimoli esterni, codificanti come tali dai processi cognitivi deputati al monitoraggio della realtà.

Ed è proprio la corteccia prefrontale a permettere di distinguere i processi mentali interni dagli esterni.

Questi processi si traducono nella clinica delle psicosi nella definizione di agnosia autonoetica, ovvero il deficit nella capacità di identificare eventi mentali autogenerati e che la letteratura in materia ha individuato in disfunzioni della corteccia pre-frontale quali (31):

– deficit di memoria;

– deficit dei processi contestuali;

– deficit del sistema supervisore dell’attenzione.

Inoltre, le aree che svolgono l’elaborazione delle emozioni (circuito limbico) lavorano a stretto contatto con la corteccia frontale, che svolge la funzione di controllare, modulare o eventualmente reprimere i comportamenti impulsivi causati dalle emozioni, ma al contempo attivano una serie di funzioni cognitive complesse (pianificazione) finalizzate ad attuare il comportamento più efficace possibile nel rispondere ai bisogni indicati dalle emozioni. Quando c’è un danno al circuito limbico, oppure alla corteccia frontale, il comportamento della persona è gravemente alterato: è inadeguato dal punto di vista sociale, è disordinato e afinalistico, e sostanzialmente inefficiente. Una persona con simili deficit è assolutamente incapace di vivere autonomamente, anche se le funzioni superiori sono tutte perfettamente funzionanti di per sé, perché non è più in grado di percepire e controllare i bisogni di base, né di organizzare di conseguenza il proprio comportamento. Nella demenza frontotemporale, ad esempio, vi è proprio un deficit di questo tipo.

A questo punto è anche chiaro il motivo per cui un’informazione emotivamente rilevante viene immediatamente consolidata ed immagazzinata dall’ippocampo, notoriamente compromesso nella malattia di Alzheimer (80): se l’informazione ha connotati emotivi ciò significa che essa è molto importante per i bisogni primari dell’organismo. Il fatto che l’ippocampo sia implicato, sia nel sistema emotivo che in quello della memoria, serve a garantire che non vengano dimenticate informazioni necessarie per la sopravvivenza.

Depressione

La correlazione negativa tra depressione e malattia di Alzheimer ha validità intuitiva. È stato proposto che la depressione sia più comune in soggetti con compromissione cognitiva lieve e mantenuto un buon livello di insight. In questi termini, la depressione è considerata reattiva all’instaurarsi progressivo delle invalidità nelle attività di vita quotidiane e nella vita di relazione (81) (82).

Tuttavia, così come l’anosognosia, anche la depressione può essere spiegata in relazione all’impairment cognitivo globale, essendo possibile il riscontro clinico della sintomatologia depressiva anche in fasi avanzate della malattia (83) (84).

È possibile che lo scarso insight per il deficit mnesico riguardi anche il tono dell’umore dei pazienti, indicando per questo una possibile sovrapposizione tra queste due condizioni; tuttavia questa tesi non è stata suffragata dall’unico lavoro valutante proprio la consapevolezza dello stato depressivo nella malattia di Alzheimer effettuato da Vasterling et al. (19).

Questi risultati sostengono l’ipotesi della caratteristiche multidimensionale dell’anosognosia.

La relazione tra consapevolezza dei propri deficit cognitivi e stato timico del paziente affetto da malattia di Alzheimer, non ha portato a risultati conclusivi circa i presunti rapporti con la severità della sintomatologia depressiva (85)-(90).

Derouesne et al. (57) hanno condotto uno studio retrospettivo su 88 soggetti affetti da morbo di Alzheimer evidenziando una correlazione positiva tra i punteggi della scala Index of Unawareness (IU) e quelli della Zung Self-Rating Scale for Depression, mentre opposti risultati si sono ottenuti con la Zung Self-Rating Scale for Anxiety.

Gli stessi Autori però sottolineano la relazione statisticamente significativa tra il punteggio della IU e quello del Psychobehavioral Questionnaire relativamente all’item valutante l’apatia, avvalorando due precedenti lavori di Ott et al. (91) e di Starkstein et al. (71), per i quali questa correlazione può essere spiegata nelle prime fasi della malattia con delle alterazioni a livello del nucleo amigdaloideo (92).

Caratteristiche premorbose

La letteratura sulle caratteristiche premorbose della malattia di Alzheimer, che possono influenzare il livello di insight dei pazienti, è piuttosto scarsa.

Weinstein et al. (1992) (93) hanno osservato come la scarsa tendenza ad esprimere i propri sentimenti, aspetti temperamentali compulsivi sono predisponenti alla negazione e alla scarsa consapevolezza di malattia. Lo studio di Weinstein et al. è però gravato da importanti limiti metodologici: infatti è stata indagata una popolazione di soggetti con grave deficit cognitivo che si manifestava con confabulazioni e che quindi ha reso necessaria un’indagine retrospettiva sulla base di quanto riportato dai parenti. Questa post hoc analysis riduce la validità empirica e la riproducibilità della conclusioni di Weinstein.

Operatività dello studio dell’insight nella malattia di Alzheimer: l’esempio della percezione di malattia tra i caregivers

Gli studi sulla riabilitazione cognitiva nelle fasi precoci della malattia di Alzheimer (94)-(96), supportate dalle ricerche sulla riabilitazione a seguito di danno cerebrale, indicano l’esistenza di una correlazione positiva tra la consapevolezza dei cambiamenti e delle difficoltà insorte e gli outcome valutati, suggerendo che l’awareness è una dimensione necessaria da valutare nella pianificazione di interventi appropriati (97) (98).

Il livello di self-awareness ha importanti implicazioni nello studio del caregiving come dimostrato dal fatto che la scarsa consapevolezza sembra essere positivamente correlata con la percezione di una presa in carico più difficoltosa da parte dei caregivers (2).

La condizione che si viene a creare quando l’interazione con l’ambiente diventa difficile o quando si ha la sensazione che le capacità di adattamento (“mezzi”) rischino di venir eccedute si definisce stress (99). Uno dei risultati della ricerca psicologica dell’ultimo decennio sullo stress è la conoscenza della differenza tra le influenze oggettive dell’ambiente e la, consapevole o inconsapevole, valutazione cognitiva o interpretazione di queste (“cognitive appraisal”): lo stress non viene causato solo dalle influenze oggettive dell’ambiente, ma anche dalla valutazione soggettiva della situazione (99)-(103). Questa valutazione soggettiva sarebbe collegata con le vulnerabilità dell’individuo e con l’adeguatezza del suo sistema di difesa, in altre parole con la sua caratteristica struttura fisiologica e psicologica. Questo spiegherebbe perché certe situazioni siano vissute come stressanti da alcuni individui e perché in un periodo di crisi situazioni che normalmente sono considerate come poco gravi possano venire vissute come molto gravi (104).

Tuttavia, la rappresentazione della malattia non è stata ancora investigata per quanto riguarda la malattia di Alzheimer. Sebbene una precedente ricerca abbia esaminato la conoscenza della malattia di Alzheimer nella popolazione generale (105) e le attitudini riguardo la malattia di Alzheimer dei caregivers e dei fornitori di servizi (105) (106), è stata prestata un’attenzione limitata alle credenze e alle esperienze dei parenti di primo grado dei pazienti.

Infatti, i familiari di primo grado dei soggetti con malattia di Alzheimer svolgono due importanti funzioni: come caregiver e come individui essi stessi a rischio di AD (107).

Leventhal (108), distingue cinque principali componenti nella rappresentazione della malattia:

1. la percezione dell’identità del disturbo (evidenze e sintomi);

2. la linea del tempo (acuto vs. cronico);

3. le conseguenze;

4. le cause;

5. la controllabilità.

Tra l’altro queste variabili sono state utilizzate per altre malattie croniche altamente invalidanti quali il diabete e l’ipertensione arteriosa grave (109)-(111).

Queste percezioni sono importanti aspetti della rappresentazione della malattia, descritta come uno schema cognitivo complesso (108) che guida le reazioni a un reale o potenziale problema medico.

Per esempio, la minaccia percepita può motivare un comportamento pro-attivo verso la salute, mentre una concezione sbagliata della malattia può gravare sulla compliance al trattamento e sulla relazione terapeutica.

Roberts & Connell (107) hanno condotto a riguardo uno studio indagando le attitudini, le convinzioni e le percezioni di 203 parenti di primo grado di soggetti con malattia di Alzheimer. Molti partecipanti, pur riconoscendo i fattori eziologicamente significativi ed essendo in grado di mantenere un appropriato senso del loro rischio di malattia, dimostrano in molti casi concezioni errate sulla genetica della malattia di Alzheimer e livelli di angoscia e di minaccia generalmente elevati. Queste considerazioni sono associate maggiormente con il sesso femminile e con la più giovane età. Considerando la crescente attenzione sull’educazione sanitaria e sulla prevenzione terziaria nei caregivers e nella popolazione generale ed i positivi risvolti di queste iniziative sulla qualità di vita dei pazienti, sarebbe interessante progettare nuovi studi a carattere longitudinale finalizzati a correlare queste variabili, per una maggiore integrazione ed ottimizzazione degli aspetti assistenziali e clinici del malato di Alzheimer.

Conclusioni

Gil et al. (61) affermano che la “self-consciousness” è il risultato della convergenza di diversi network neurali, che sono variamente alterati nella malattia di Alzheimer: infatti il transito di informazioni dalle aree associative della corteccia frontale alle aree della memoria, del linguaggio e delle funzioni visuospaziali risulta compromesso o disturbato. Perciò la corteccia prefrontale dorsolaterale, che presenta funzioni associative eteromodali, non è in grado di assicurare l’ordine sequenziale degli stimoli tra le diverse aree cerebrali.

A questo punto è però naturale chiedersi se un tale riscontro per l’insight nella malattia di Alzheimer è stato parallelamente evidenziato nella schizofrenia, essendo stato ormai accertato il coinvolgimento della corteccia prefrontale dorsolaterale nel determinismo della sintomatologia schizofrenica.

Anche per ovvi limiti metodologici, non esiste in letteratura un lavoro che affronti questa problematica.

Tuttavia, possiamo fornire alcune inferenze.

Nella malattia di Alzheimer il ruolo dell’insight nel determinismo psicopatologico della malattia assume aspetti del tutto peculiari e che sottolineano il carattere neurodegenerativo della patologia stessa.

Secondo Frith (112), per esempio, i sintomi positivi della schizofrenia sarebbero dovuti ad un danneggiamento della funzione di monitoraggio delle azioni, risultante da un’alterazione delle vie nervose che connettono i lobi prefrontali allo striato. Quando un atto motorio è stato generato ed eseguito, ed ancora la regione che ha iniziato il processo (corteccia prefrontale) è stata dissociata dal movimento stesso in seguito ad un danneggiamento nei collegamenti tra la corteccia prefrontale e la corteccia motoria, il movimento può essere esperito come generato da forze esterne al self, come si osserva nei deliri di controllo.

Uno studio neuropsicologico di Cuesta e Peralta (113), non solo non ha riscontato alcuna associazione tra ridotti livelli di insight ed anormalità neuropsicologiche, ma ha rilevato invece, mediante test valutanti compiti visivi immediati e ritardati e di memoria verbale, una relazione tra scarsa consapevolezza di malattia e migliorata funzionalità, suggerendo con questo che la mancanza di insight potrebbe non essere correlata ad anormalità cognitive della schizofrenia, ma potrebbe essere essa stessa un sintomo primario, “bleuleriano”, della schizofrenia.

Diversamente, nella malattia di Alzheimer, il grado di compromissione della “self-consciousness” presenta un’ampia variabilità individuale, indipendente dalla severità della malattia, presupponendo il danneggiamento focale di aree associative in accordo con un’ipotesi neurodegenerativa del disturbo e con l’evidenziazione di placche multiple.

Queste conclusioni sono importanti dal punto di vista psicometrico ma anche nella comprensione dei meccanismi fisiologici dell’autoconsapevolezza.

Francis Crick (114) nel suo libro “La scienza e l’Anima” assume che parte del nostro cervello è progettato per l’elaborazione di progetti per le azioni future, senza essere necessariamente essere coinvolto nella loro esecuzione. Inoltre presuppone che si possa essere coscienti di tali progetti e quindi che essi possano essere richiamati immediatamente alla memoria. Tuttavia l’uomo non è cosciente delle “computazioni” compiute da questa parte del cervello, ma solo delle “decisioni” che essa prende, e cioè dei suoi progetti. Naturalmente, queste computazioni dipenderanno in primo luogo dalla struttura di quella parte del cervello (struttura la cui determinazione è in parte epigenetica, in parte da ascriversi alla passata esperienza individuale) e in secondo luogo dagli input che essa riceve in quel momento da altri parti del cervello. Infine, la decisione di agire secondo un progetto piuttosto che un altro fosse anch’essa soggetta alle stesse limitazioni. In altre parole, anche se si può essere consapevoli di un particolare progetto, si avrà un ricordo immediato del risultato della decisione, e non delle computazioni che hanno avuto luogo per arrivare a quella decisione. Quindi un organismo così strutturato apparirà a se stesso dotato di libero arbitrio, purché possa personificare il proprio comportamento, ovvero purché abbia un’immagine di “se stesso”. La causa effettiva della decisione potrebbe essere chiara, oppure deterministica ma caotica, il che comporterebbe la possibilità che piccole perturbazioni inducano importanti differenze nel risultato finale. Questo conferirebbe all’arbitrio il suo carattere di “libero”, in quanto renderebbe essenzialmente imprevedibile l’esito finale della decisione.

Inoltre potrebbe cercare di spiegare a se stesso il perché di una certa decisione (usando l’introspezione). A volte potrebbe raggiungere la decisione corretta, altre volte non ci riuscirà o, più probabilmente, entrerà in una sorta di confabulazione, in quanto non avrà conoscenza alcuna delle “motivazioni” della scelta.

L’estrema variabilità delle presentazioni cliniche spiega il perché a tutt’oggi non è stata fatta nessuna ricerca sistematica, che indaghi su come un paziente con la malattia di Alzheimer affronti e viva la sua malattia e il ricovero. Descrizioni al riguardo, in letteratura, fanno riferimento per lo più alle interpretazioni di osservazioni del comportamento. Queste interpretazioni sono, in parte, determinate dalla prospettiva teorica usata e pertanto si riscontrano nei diversi ricercatori notevoli differenze nell’elenco delle difficoltà presentate dal paziente. Non esiste ancora un quadro teorico generale sull’adattamento alle conseguenze della malattia di Alzheimer.

È quindi auspicabile che in futuro l’attenzione dei ricercatori si focalizzi maggiormente sugli aspetti longitudinali della valutazione dell’insight nella malattia di Alzheimer, allo scopo di definire criteri operativi standardizzati utili per la valutazione diagnostica, prognostica e nel tentativo di identificare alcune variabili su cui intervenire a livello riabilitatorio.

1 Anderson SW, Tranel D. Awareness of disease states following cerebral infarction, dementia, and head trauma: standardized assessment. Clin Neuropsychologist 1989;3:327-39.

2 DeBettignies GH, Mahurin RK, Pirozzolo FJ. Insight for impairment in independent living skills in Alzheimer�s disease and multi-infarct dementia. J Clin Exp Neuropsychol 1990;12:355-63.

3 Verhey FJ, Rozendael N, Ponds RHM, Jolles J. Dementia, awareness and depression. Int J Ger Psychiatry 1993;8:851-6.

4 Sevush S, Leve N. Denial of memory de.cit in Alzheimer�s disease. Am J Psychiatry 1993;150:748-51.

5 Migliorelli R, Teson R, Sabe L, Petracca G, Petracchi M, Leiguardia R, et al. Anosognosia in Alzheimer�s disease: a study of associated factors. J Neurosci 1995;7:338-44.

6 Kennedy AM, Newman SK, McCaddon A, Ball J, Roques P, Mullen M, et al. Familial Alzheimer�s disease: a pedigree with a missense mutation in the Amyloid Precursor Protein gene. Brain 1993;116:309-24.

7 Newman S, Warrington E, Kennedy A, Rossor M. The earliest cognitive change in a person with familial Alzheimer�s disease: presymptomatic neuropsychological features in a pedigree with familial Alzheimer�s disease confirmed at necropsy. J Neurol Neurosurg Psychiatry 1994;57:967-72.

8 Kennedy AM, Newman SK, Frackowiak RSJ, Neary D, Roques P, Bruton CJ, et al. Chromosome 14 linked Familial Alzheimer�s disease: a clinicopathological study of a single pedigree. Brain 1995;118:185-205.

9 Agnew S. The neuropsychology of autosomal dominat Alzheimer�s disease, Ph.D. Thesis. University of London 1993.

10 Weinstein E, Kahn R. Denial of illness:symbolic and physiological aspects. Springfield, IL: Thomas CC 1955.

11 Anton G. Uber Herderkrankungen des Gehirnes, welche van Patienten selbst nicht wahrkommen werden. Weiner Klinische Wochenschrift 1898;11:227-9.

12 Schachter D. Toward a cognitive neuropsychology of awareness: implicit knowledge and anosognosia. J Clin Exp Neuropsychol 1990;12:155-78.

13 Lopez OL, Becker JT, Somsak D, Dew MA, DeKosky ST. Awareness of cognitive deficits and anosognosia in probable Alzheimer�s disease. Eur Neurol 1994;34:277-82.

14 Reed BR, Jagust WJ, Coulter L. Anosognosia in Alzheimer�s disease: relationship to depression, cognitive function, and cerebral perfusion. J Clin Exp Neurophysiol 1993;15:231-4.

15 Vasterling JJ, Seltzer B, Watrous WE. Longitudinal assessment of deficit unawareness in Alzheimer�s disease. Neuropsychiatry Behav Neurol 1997;10:197-202.

16 Michon A, Deweer B, Pillon B, Agid Y, Dubois B. Relation of anosognosia to frontal lobe dysfunction in Alzheimer�s disease. J Neurol Neurosurg Psychiatry 1994;57:805-9.

17 Dalla Barba G, Parlato V, Iavarone A, Boller F. Anosognosia, intrusion and “frontal” functions in Alzheimer�s disease and depression. Neuropsychologia 1995;33:247-59.

18 Kaszniak AW, Zak MG. On the neuropsychology of metamemory: contributions from the study of amnesia and dementia. Learn Individ Differences 1996;8:355-81.

19 Duke LM, Seltzer B, Seltzer JE, Vasterling JJ. Cognitive components of deficit awareness in Alzheimer�s disease. Neuropsychology 2002;16:359-69.

20 Correa DD, Graves RE, Costa L. Awareness of memory deficit in Alzheimer�s patients and memory-impaired older adults. Aging Neuropsychol Cogn 1996;3:215-28.

21 Green J, Goldstein FC, Sirockman BE, Green RC. Variable awareness of deficits in Alzheimer�s disease. Neuropsychiatry Neuropsychol Behav Neurol 1993;6:159-65.

22 Kotler-Cope S, Camp CJ. Anosognosia in Alzheimer disease. Alzheimer Dis Assoc Disord 1995;9:52-6.

23 Starkstein SE, Sabe L, Cuerva AG, Kuzis G, Leiguarda R. Anosognosia and procedural learning in Alzheimer�s disease. Neuropsychiatry Neuropsychol Behav Neurol 1997;10:96-101.

24 Vasterling JJ, Seltzer B, Foss JW, Vanderbrook V. Unawareness of deficit in Alzheimer�s disease: Domain specific differences and disease correlates. Neuropsychiatry Neuropsychol Behav Neurol 1995;8:26-32.

25 Lewis A. The psychopathology of insight. Br J Med Psycol 1934;14:32.

26 Lechevalier B. Polysémie de la coscience. In: Lechevalier B, Eustache F, Viader F, eds. La coscience et ses troubles. Paris: de Boeck Université 1998, pp. 9-21.

27 Delacour J. An introduction to the biology of consciounsness. Neuropsychologia 1995;33:1061-74.

28 Dennett DC. Consciounesness explained. Boston: Little, Brown and Company 1991.

29 Engel P. La coscience selon Dennett. Neuropsycologia 1994;9:257-305.

30 Alain. Définitions. In: Les arts et les dieux. Paris: La Pléiade, Gallimard.

31 Pini S, Bandettini di Poggio A. L�insight. In: Conti L, ed. Repertorio delle scale di valutazione in psichiatria. SEE-FI, tomo III 2000, pp.1399-1412.

32 Husserl E. Méditations Cartésiennes. Traduction de G. Pfeiffer et E. Levinas, Paris: Vrin 1969.

33 Bergson H. Oeuvres. Edition du Centenaire. Paris: Presses Universitsires de Frances 1966.

34 Zeman AZJ, Grayling AC, Cowey A. Contemporary theories of consciousness. J Neurol Neurosurg Psychiatry 1997;62:549-52.

35 Glatzel I. Das Psychich Abnorme. Kritische. Ansätze zu einer Psychopathologie. Münich: Urban et Schwarzenberg 1977.

36 Tatossian A. La phénoménologie des psychoses. Paris: Masson 1979.

37 Baddeley AD, Hitch G. Working memory. In: Bower GA, ed. The Psychology of Learning and Motivation. Vol. 8. New York: Academic Press 1974, pp. 47-89.

38 Atkinson RC, Shiffrin RM. Human memory: A proposed system and its control processes. In: Spence KW, eds. The psychology of Learning and Motivation: Advances in Research and Theory. Vol. 2. New York: Academic Press 1968.

39 Ravizza L, Barzega G, Bellino S, Montarolo PG, Ghirardi M. Memoria. In: Cassano GB, Pancheri P, eds. Trattato Italiano di Psichiatria. Milano: Masson Editore 1999, pp. 445-69.

40 Baddeley AD, Bressi S, Della Sala S, Logie R, Spinnler H. The decline of working memory in Alzheimer�s disease: a longitudinal study. Brain 1991;114 (Pt 6):2521-42.

41 Mishkin M, Malamut B, Bachevalier J. Memories and habits: two neuronal system. In: Lynch G, McGough JL, Weinberger NM, eds. Neurobiology of Learning and Memory. New York: Guilford Press 1984.

42 Baddeley AD, Wilson BA, Watts FN. Handbook of memory disorders. Wiley Chichester 1995.

43 Becker JT. Working memory and secondary memory deficits in Alzheimer�s disease. J Clin Exp Neuropsychol 1988;10:739-53.

44 Bisiach E, Berti A. Dischiria: an attempt at its systemic explanation. In: Jeannerod M, ed. Consciousness in contemporary science. New York: Oxford University Press 1987.

45 Devinsky O. Right cerebral hemisphere dominance for a sense of corporeal and emotional self. Epilipsy & Behavior 2000;1:60-73.

46 Gazzaniga M. The social brain. New York: Basic Books 1985.

47 Gazzaniga MS, Eliassen JC, Nisenson L, Wessinger CM, Fendrich R, Baynes K. Collaboration between hemispheres of a callosotomy patient. Brain 1996;119:1255-62.

48 Heilman K, Scholes R, Watson R. Auditory affective agnosia. J Neurol Neurosurg Psychiatry 1974;38:69-72.

49 Blonder L, Bowers D, Heilman K. The role of the right hemisphere in emotional communication. Brain 1991;114:1115-27.

50 Tucker D, Frederick S. Emotion and brain lateralization. In: Wagner H, Manstead A, eds. Handbook of social psychophysiology. New York: Wiley 1989.

51 Cacelliere A, Kertsz A. Lesion localization in acquired deficits of emotional expression and comprehension. Brain Cogn 1990;13:133-47.

52 James W. The principles of psychology. New York: Holt 1890:561.

53 Llinas R, Ribary U, Joliot M, Wang XJ. Content and context in temporal thalamocortical binding. In: Buzaski G, ed. Temporal coding in the brain. Berlin: Springer-Verlag 1994, pp. 251-272.

54 Gazzaniga M. The split brain revisited. Sci Am 1998;297:51-5.

55 Chircon C, Jambaque I, Nabbout R, Lounes R, Syrota A, Dulac O. The right brain hemisphere is dominant in human infants. J Child Neurol 1997;12:253-9.

56 Agnew SK, Morris RG. The heterogeneity of anosognosia for memory impairment in Alzheimer�s disease: a review of the literature and a proposed model. Aging & Mental Health 1998;2:7-19.

57 Derouesne C, Thibault S, Lagha-Petrucci S, Baudouin-Madec V, Ancri D, Lacomblez L. Decreased awareness of cognitive deficits in patients with mild dementia of the Alzheimer type. Int J Ger Psychiatry 1999;14:1019-30.

58 Babinski J. Contribution à l�étude des troubles mentaux dans l�hémiplégie organique. Rev Neurol 1914;22:845-8.

59 Schneck MK, Reisberg B, Ferris SH. An overview of current concepts of Alzheimer�s disease. Am J Psychiatry 1982;139:165-73.

60 Vogel A, Stokholm J, Gade A, Andersen BB, Hejl AM, Waldemar G. Awareness of deficits in mild cognitive impairment and Alzheimer�s disease: do MCI patients have impaired insight? Dement Geriatr Cogn Disord 2004;17:181-7.

61 Gil R, Arroyo-Anllo EM, Ingrand P, Gil M, Ornon C, Bonnaud V. Self-consciousness and Alzheimer�s disease. Acta Neurol Scand 2001;104:296-300.

62 Spinnler H. Il decadimento demenziale. Inquadramento neurologico e neuropsicologico. Roma: Il Pensiero Scientifico 1985.

63 Shallice T. Specific impairments of planning. London: Philosophical Transactions of the Royal Society 1982;298:199-209.

64 Baddeley AD. Working memory. Oxford: Claredon Press 1986.

65 Norman DA, Shallice T. Attention to action: willed and automatic control of behavior. In: Davidson RJ, Schuarts GE, Shapiro D, eds. Consciousness and Self-Regulation. Advances in Research and Theory. New York: Plenum Press 1986.

66 Feher EP, Mahurin RK, Inbody SB, Crook TH, Pirozzolo FJ. Anosognosia in Alzheimer�s disease. Neuropsychiatry Neuropsychol Behav Neurol 1991;4:136-46.

67 Shimamura AP, Squire LR. Memory and metamemory; a study of the feeling-of-knowing phenomenon in amnesic patients. J Exp Psychology 1986;12:452-60.

68 Schachter D. Toward a cognitive neuropsychology of awareness: implicite knowledge and anosognosia. J Clin Exp Neuropsychol 1983;92:236-42.

69 Auchus AP, Goldstein FC, Green RC. Unawareness of cognitive impairments in Alzheimer�s disease (AD). Neurology 1994;42(Suppl 3):223.

70 Starkstein SE, Fedoroff JP, Price TR, Seiguarda R, Robinson RG. Neuropsychological deficits in patients with anosognosia. Neuropsychiatr Neuropsychol Behav Neurol 1993;6:43-8.

71 Starkstein SE, Sabe L, Vazquez S, Teson A, Petracca G, Chemerinski E, et al. Neuropsychological, psychiatric and cerebral blood flow findings in vascular dementia and Alzheimer�s disease. Stroke 1996;27:408-14.

72 Neary D, Snowden JS, Mann DM, Northen B, Goulding PJ, Macdermott N. Frontal lobe dementia and motor neuron disease. J Neurol Neurosurg Psychiatr 1990;53:23-32.

73 Weinstein EA, Friedland RP, Wagner EE. Denial/unawareness of impairment and symbolic behavior in Alzheimer�s disease. Neuropsychiatr Neuropsychol Behavior Neurology 1994;3:176-84.

74 McGlynn SM, Schachter DL. Unawareness of deficits in neuropsychological syndromes. J Clin Exp Neuropsychol 1989;1:143-205.

75 Starkstein SE, Vazquez S, Migliorelli R, Teson A, Sabe L, Leiguarda R. A single emission computed tomographic study of anosognosia in Alzheimer�s disease. Arch Neurol 1995;52:415-20.

76 Migliorelli R, Teson A, Sabe L, Petracca G, Petracchi M, Seiguarda M, et al. Anosognosia in Alzheimer�s disease: a study of associated factors. J Neuropsychiatr Clin Neurosci 1995;7:338-44.

77 Goldberg E, Barr VB. Three possible mechanisms of anawareness of deficit. In: Prigatano GP, Schechter DL, eds. Awareness of deficit after brain injury: clinical and hteoretical issue. New York: Oxford University Press 1991.

78 Aizenstein HJ, Stenger VA, Cochran J, Clark K, Johnson M, Nebes RD, et al. Regional brain activation during concurrent implicit and explicit sequence learning. Cereb Cortex 2004;14:199-208.

79 Whitty CW, Lewin W. Vivid daydream an unusual form of confusion following anterior cingulectomy. Brain 1957;80:72-6.

80 Scheltens P, Erkinjunti T, Leys D, Wahlund LO, Inzitari D, del Ser T, et al. White matter change on CT and MRI: an overview of visual rating scale. European Task Force on Age-Related White Matter Change. Eur Neurol 1998;39:80-9.

81 Kral V. The relationship between senile dementia (Alzheimer type) and depression. Can J Psychiatry 1983;28:304-6.

82 Wragg R, Jeste D. Overview of depression and psychosis in Alzheimer�s disease. Am J Psychiatr 1989;146:577-87.

83 Burns A, Jacoby R, Levy R. Psychiatric phenomena in Alzheimer�s disease. II: Disorders of perception. Br J Psychiatry 1990;157:76-81.

84 Pearson J, Teri L, Reifler B, Raskind M. Functional status and cognitive impairment in Alzheimer patients with and without depression. J Am Ger Soc 1989;37:1117-21.

85 Derouesne C, Alperovitch A, Arvay N, Migeon P, Moulin F, Vollant M, et al. Memory complaints in elderly. A study of 367 community dwelling individuals from 50 to 80 year old. In: Derouesne C, Guez D, Porier P, eds. Memory and aging. Arch Gerontol Geriatr 1989;(Suppl)1:151-64.

86 Grut M, Jorm AF, Fratiglioni L, Forsell Y, Viitanen M, Windblat B. Memory compliants of elderly people in a population survey: variation according to dementia stage and depression. J Am Geriatr Soc 1993;41:1295-300.

87 Jorm AF, Christensen H, Henderson AS, Korten AE, Mackinnon AJ, Scott R. Compliants of memory decline in the elderly: a comparison of reports by subjects and informants in a community survey. Psychol Med 1994;24:365-74.

88 McGlone J, Gupta S, Humphrey D, Oppenhaimer S, Mirsen T, Evans DR. Screening for early dementia using memory compliants from patients and relatives. Arch Neurol 1990;47:1189-93.

89 O�Connor DW, Pollitt PA, Roth M. Coexisting depression and dementia in a community survey. Int Psychogeriatr 1990;2:45-54.

90 Mangone CA, Hier DB, Gorelik PB, Ganellen RJ, Langenberg RJ, Boarman R, et al. Impaired insight in Alzheimer�s disease. J Geriatr Psychiatr Neurol 1991;4:189-93.

91 Ott BR, Lafleche G, Whellihan WM, Buongiorno GW, Albert MS, Fogel BS. Impaired awareness of deficits in Alzheimer disease. Alzheimer Dis Assoc Disord 1996;10:68-76.

92 Braak H, Braak E. Neuropathological staging of Alzheimer�s-related changes. Acta Neuropathol 1991;82:239-59.

93 Weinstein EA, Friedland RP, Wagner EE. Denial/unawareness of impairment in Alzheimer�s disease. Neurology 1992;42(Suppl 3):200.

94 Clare L. Awareness of memory functioning in early stage Alzheimer�s: Concept, assessment, and relationship to the outcome of cognitive rehabilitation interventions. Proceedings of the Alzheimer Europe 10th anniversary meeting, Munich, 12-15 October 2000, pp. 195-207. Berlin: Deutsche Alzheimer Gesellschaft e.V. 2001.

95 Clare L, Wilson BA, Carter G, Gosses A, Breen K, Hodges JR. Intervening with everyday memory problems in early Alzheimer�s disease: An errorless learning approach. J Clin Exp Neuropsychol 2000;22:132-46.

96 Koltai DC, Welsh-Bohmer KA, Schmechel DE. Influence of anosognosia on treatment outcome among dementia patients. Neuropsychol Rehabil 2001;11:455-75.

97 Prigatano GP. Motivation and awareness in cognitive neurorehabilitation. In: Stuss DT, Winocur G, Robertson IH, eds. Cognitive neurorehabilitation. Cambridge: Cambridge University Press.

98 Prigatano GP. Principles of neuropsychological rehabilitation. New York: Oxford University Press 1999.

99 Lazarus RS, Folkman S. Stress, appraisal, and coping. New York: Springer Publ Comp 1984.

100 Kaplan HB. Psychological distress in sociological context: toward a general theory of psychosocial stress. In: Kaplan HB, ed. Psychosocial stress; trends in theory and research. New York/London: Academic Press 1983.

101 Thomae H. Alterns stile und Altersschicksale. Bern/Stuttgart/Wien: Verlag Hans Buber 1983.

102 Thomae H. Theory of aging and cognitive theory of personality. Hum Dev 1970;13:1-16.

103 Van der Wulp JC. Verstoring en verwerking in verpleeghuizen. Uitg. Intro, Nijkerk 1986.

104 Dröes R-M. Problematica psicosociale dei pazienti Alzheimer. In: Beweging. Utrecht: De Tijdstroom 1991.

105 Connel CM. Knowledge, attitudes, and beliefs about Alzheimer�s disease. The Annual Meeting of the Gerontological Society of America, Washington, DC, November 20, 1996.

106 Connel CM, Gallant MP. Spouse caregivers�attitudes toward obtaining a diagnosis of a dementing illness. J Am Geriatr Soc 1996;44:1003-9.

107 Roberts JS, Cathleen MC. Rappresentazione di malattia tra i familiari di primo grado dei soggetti con malattia di Alzheimer. Alzheimer Dis Assoc Disord 2001;2:19-26.

108 Leventhal H, Benyamini Y, Brownlee S, Piefenbach M, seventhal EA, Patrick-Miller L, et al. Illness representations: theoretical foundations. In: Petrie KJ, Weinman JA, eds. Perceptions of health and illness. Amsterdam: Harwood Academic Publishers 1997, pp. 19-46.

109 Meyer D, Leventhal H, Gutmann M. Common-sense models of illness: the example of hypertension. Health Psychol 1985;4:115-35.

110 Petrie KJ, Weinman JA. Perceptions of health and illness. Amsterdam: Harwood Academic Publishers 1997.

111 Schiaffino KM, Shawaryn MA, Blum D. Examining the impact of illness representations on psychological adjustment to chronic illness. Health Psychol 1998;17:262-8.

112 Frith CD, Blakemore SJ, Wolpert DM. Explaining the symptoms of schizophrenia: abnormalities in the awareness of action. Brain Res Rev 2000;31:357-63.

113 Cuesta MJ, Peralta V. lack of insight in schizophrenia. Schizophr Bull 1994;20-359.

114 Crick F. La scienza e l�anima. Milano: Rizzoli Editore 1994.