Burn-out: una riflessione

Burn-out: a remark

C.P.C. STEINHILBER, E. CORALLI, F. BARALE

Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali, Cattedra di Psicoterapia, ASL Pavia, IRCCS "San Matteo", Università di Pavia

Parole chiave: Burn out • Relazione medico paziente • Stress lavorativo
Key words: Burn out • Physician-patient relationship • Job stress

Il burn-out è un fenomeno che ha iniziato a destare interesse negli anni ’70 in America. Quindi solo recentemente gli si è attribuita l’importanza meritata assegnandogli una dimensione autonoma.

Tale condizione nel tempo è stata considerata sia in un’ottica clinica, cercando di individuare quelle che potenzialmente sono le caratteristiche della personalità che possono predisporre alla manifestazione del burn-out, sia, analizzando il contesto lavorativo, in un’ottica psico-sociale, cercando di individuare le situazioni che possono risultare a rischio patogeno. Tuttavia, con il proseguire delle ricerche sull’argomento, è risultato evidente quanto entrambi gli aspetti siano presenti nel determinare la sintomatologia.

Oggi si considera che “l’eziopatogenesi” del burn-out sia da attribuire all’articolazione di fattori individuali, relazionali, lavorativi, organizzativi e storico culturali; tutti insieme contribuiscono a determinare lo stato di malessere che sfocia poi nella patologia conclamata. Nessuno di essi, isolatamente, può condurre al burn-out, la loro contemporanea presenza sembra determinarlo. La complessità della patogenesi multifattoriale giustifica la difficoltà dell’individuazione della sindrome del burn-out, il suo riconoscimento come entità nosologica e la sua diagnosi (1-3).

Il burn-out nelle helping professions. Riflessioni psicodinamiche

È stato considerato che a maggior rischio di sviluppo del burn-out sono gli operatori delle cosiddette helping professions, ossia tutte le attività caratterizzate da rapporto diretto con persone che hanno bisogno di aiuto per disturbi fisici o psichici e/o problemi di inserimento sociale (4,5). È quindi evidente che qualunque genere di considerazione su tale sindrome non può non tenere conto della complessità del contesto in cui essa si verifica e, nello specifico, della relazione medico-paziente (6,7). Le trame di rapporti che si dipanano fra uomo sofferente, curante ed istituzione, nella sua ricchezza, risulta estremamente delicata e le variabili di tali momenti relazionali possono talora configurare evoluzioni patologiche. In quest’ottica la sindrome del burn-out assume valore di autonoma entità nosologica.

La storia della relazione medico paziente ha inizi remotissimi (8). Essa potrebbe essere rivisitata anche come storia delle diverse modalità e dei diversi dispositivi, poteri e simboli attraverso i quali il curante si difende da un impatto troppo massiccio con la sofferenza.

Sono stati rinvenuti antichi documenti contenenti prescrizioni circa atteggiamenti, differenti approcci, uso del linguaggio, vestiario, considerati “idonei” alla professione medica risalenti ad epoche remote.

In epoca moderna va tuttavia riconosciuto alla psicoanalisi il tentativo di comprendere caratteristiche, funzioni, limiti della relazione con il paziente ed il merito d’aver sottolineato come il campo di tale relazione sia influenzato da componenti consce ed inconsce, appartenenti ad entrambi gli interlocutori (9).

Difficoltà e sofferenza non affliggono solo chi è allarmato per la propria sopravvivenza o mortificato per lo stato in cui si trova, ma fanno la loro comparsa anche in chi ascolta il linguaggio psicologico o somatico del dolore che intende lenire (10). Eccessiva freddezza e tecnicismo oppure atteggiamenti confidenziali possono essere manovre difensive nei confronti della minaccia che può configurarsi in seguito allo stretto contatto con il paziente. La complessità della situazione clinica del paziente, l’esiguo numero di risorse terapeutiche, una prognosi infausta facilmente possono innescare meccanismi difensivi e controtransferali.

Per poter vivere e lavorare sufficientemente bene e per poter provvedere per quanto possibile alla cura degli altri, occorre, ovviamente, che il medico abbia prima di tutto cura di se stesso. L’antica saggezza della massima “medice cura te ipsum” è stata accolta agli inizi del secolo dagli psicoanalisti, che fanno tesoro di questa raccomandazione avendo stabilito, quale punto di partenza della loro formazione professionale, il doversi – ma in fondo potersi – sottoporre ad analisi didattica (10). La consapevolezza di questa necessità si è progressivamente sviluppata ed affinata dapprima attraverso la tematica classica del “controtransfert”, poi di quella della identificazione e controidentificazione proiettiva, per approdare in fine alla concezione della situazione psicoanalitica come “campo” che coinvolge l’esperienza di paziente e terapeuta e, in ambito soprattutto anglosassone, alla visione “interazionistico-costruttivista” della relazione clinica (11,12).

Le “situazioni difficili” della medicina e della psichiatria si caratterizzano per la circolazione di intense istanze emotive, e perciò sono suscettibili di numerose e diverse evoluzioni, talora particolarmente rischiose, per la genesi del burn-out nell’operatore. Sofferenze psichiche e somatiche di elevato livello mobilitano la circolazione intensa di richieste regressive, evocando nei curanti sentimenti di livello simmetricamente profondo: desideri di “salvezza” onnipotente, sentimenti di ostilità, insofferenza, angosce persecutorie, aggressività.

Balint comprese quanto un rapporto medico paziente difficile, infelice o spiacevole potesse influenzare negativamente il decorso della sofferenza e, di conseguenza, indicò, attraverso una formazione di gruppo, come adoperare in modo tecnicamente corretto le capacità individuali di rapporto umano quotidianamente impiegate nell’esercizio professionale.

Esiste la possibilità che si instaurino relazioni fortemente regressive o perverse nel caso in cui prevalga la dimensione di esclusivo accoglimento del paziente, in assenza di un ragionevole contratto sugli obbiettivi realisticamente conseguibili in mancanza di una dimensione progettuale, di contenimento, ma anche di ridimensionamento di aspettative e richieste. Perciò, ad esempio, con il paziente psicotico, con il depresso cronico, con particolare struttura di carattere, l’investimento transferale è ineludibilmente coinvolgente: possono comparire dipendenza, bisogno di sicurezza, ricerca di un rapporto, ma anche il rischio di uno sbocco in una relazione che potremmo definire regressiva, sadomasochistica, simbiotica (13).

La capacità d’empatia, di contenimento e, in fondo, di cura vengono spesso sollecitate oltre misura da pazienti, che per il particolare assetto caratteriale, gravità di patologia, povertà di risorse personali, continuamente ” mettono alle corde” gli operatori quasi a volerne sfidare le capacità per saggiarne la solidità al fine di affidare loro parte del disagio.

In tali situazioni, che frequentemente si configurano come momenti di empasse e, soprattutto nel contesto di supervisioni di équipe, possono essere messe in luce dinamiche “slatentizzate” dalla gestione di casi difficili (vissuti depressivi di intere compagini di servizi o rivalità fraterne tra pari, competizione, rivendicazione nei confronti di primari vissuti come figure paterne …). L’istituzione stessa da cui dipende l’operatore, sia essa un servizio territoriale o un reparto ospedaliero, viene a volte proiettivamente vissuta come un complesso oggetto genitoriale profondamente deludente, reo di non aver saputo accogliere le aspettative e le illusioni dell’esordiente terapista. Alcuni Autori propongono a tale proposito una duplice lettura della sindrome del burn-out. Da un lato risulta inquadrabile come una “patologia delle velleità” che si sviluppa da una ipertrofia delle strutture ideali (Io ideale, ideale dell’Io, istanze megalomaniche) e dall’altro come una patologia da “scarsità da ideale” dove la guida di un lavoro di gruppo è condotta con atteggiamento rinunciatario, povertà tecnica e culturale, dove vi è sciatteria dell’ambiente e disinvestimento nei riguardi del lavoro e di sé come operatori (10,14,15). La disillusione, talvolta il fallimento di tentativi terapeutici, la mancanza di coesione e comunicazione nel gruppo di lavoro possono causare una sofferenza interna spesso percepita come eccessiva, un esaurimento delle risorse emotive o fisiche ed innescare meccanismi psicologici quali: distacco, intolleranza, negazione, ostilità, spostamento, proiezione, depersonalizzazione.

La clinica

Lo sgomentante senso di svuotamento di significati, la mancanza di ruoli, il bisogno d’identità all’interno del proprio ambito lavorativo, il disinvestimento e la frustrazione dell’onnipotenza del curare conducono progressivamente, ma inevitabilmente, verso la sindrome del burn-out.

Fenomeno i cui prodromi ed effetti spesso si avvertono aleggiare tra gli operatori dell’istituzione per le dinamiche sovraesposte; la sua frequenza è in continuo aumento e per tale ragione è importante conoscerlo e riuscire a diagnosticarlo.

È un lungo periodo di esposizione agli “stressor” lavorativi a cui segue l’iter di ogni forma di stress (reazione di allarme, fase di resistenza, fase di esaurimento), che la maggior parte degli autori riferiscono precedere la combustione totale del burn-out (16-,20).

Possiamo quindi dire che la sintomatologia origina da una condizione di prolungato stress all’interno dall’ambito lavorativo nel contesto di una relazione d’aiuto. Ciò è straordinariamente condensato nelle parole della Maslach: “un prolungato disagio, accumulatosi in una situazione lavorativa di stressante aiuto ad utenti bisognosi, conduce a poco a poco ad una condizione di cui “l’esaurimento emotivo” è il fenomeno principale” (21).

Tale situazione si può presentare come estremamente invalidante; la declinazione sintomatologica può comprendere polimorfi disturbi somatici (cefalee, “aghi alla testa”, vertigini che possono portare alla perdita d’equilibrio, fischio alle orecchie, dolore agli occhi, alla nuca e si estende fino alle spalle, allergie multiple senza allergeni specifici, intolleranze alimentari, gastroenterodispepsia, nausea, vomito, flatulenza che sfocia in sindrome del colon irritabile, mialgie ed artralgie, lombalgie, e soprattutto stanchezza ingravescente), disagio psichico (calo dell’autostima, sensazione di mancata realizzazione di sé, perdita di interessi ed iniziativa, ingravescenti difficoltà sul lavoro, insofferenza per gli altri, ostilità diffusa, noia del vivere e perdita di interesse per qualsiasi cosa. Ogni operazione si tinge di grigiore ed inutilità e la tensione alle relazioni interpersonali viene meno) (22).

Questa breve rassegna sintomatologica evidenzia quanto facilmente gli operatori possano accusare alcuni di questi disagi senza prestare loro attenzione, sottovalutandoli ed attribuendoli ad altro. Tale malessere conduce, tuttavia, inesorabilmente anche ad una diminuzione della prestazione dell’operatore.

È quindi nell’ambiente di lavoro, per come si configura, o per la reazione da esso evocata nel singolo operatore che si presentano i primi disagi; dapprima relazionati all’ambiente, poi alle persone ad esso correlate, ma poi, nel tempo, a seconda della personalità del soggetto, coinvolgono altri ambiti, sempre più personali. Si può dire che partendo dai problemi relazionali operatore-utente, operatore-struttura, operatore-colleghi, il disagio coinvolge l’esterno ed il privato.

È a Cherniss che si deve il merito di aver tracciato in modo esemplificativo e dettagliato la costellazione dei sintomi caratteristici del burn-out. Ha tracciato, infatti, una rassegna dei principali disturbi che segue un ordine cronologico, dai più lievi e precoci, per giungere a quelli più gravi e definitivi (23).

1) Resistenza nel recarsi sul luogo di lavoro. Si manifesta con ritardi, dimenticanze, ricerca di pretesti per allontanarsi dal lavoro, senso di peso nel percorso verso il luogo di lavoro.

2) Sensazione di fallimento. Dovuta al fatto che solo pochi dei molti interventi svolti danno risultato.

3) Rabbia e risentimento. Autodiretti in seguito alla sensazione di fallimento, e diretti ai colleghi e agli utenti per la mancanza delle risposte attese.

4) Scoraggiamento ed indifferenza. Emerge la sensazione di inutilità (“tanto non c’è nulla da fare”), a cui segue la risposta difensiva di indifferenza.

5) Senso di disistima. Ne sono maggiormente soggette le persone che avevano idealizzato il loro lavoro e che sono ambiziose; avvertono incompetenza e incapacità a soddisfare le aspettative.

6) Isolamento e ritiro sociale. Inizia una difesa per mettersi al riparo dalle continue situazioni frustranti sfuggendo il confronto con gli altri operatori.

7) Stanchezza che dura tutto il giorno.

8) Guardare spesso l’orologio.

9) Fatica notevole dopo il lavoro. Anche con l’allontanamento dal luogo di lavoro permane il sentimento di disagio e di frustrazione.

10) Perdita di sentimenti positivi verso gli utenti. È un evidente sintomo premonitore, difficilmente percepito per l’importanza che riveste e precede la “spersonalizzazione” del rapporto. L’utente non suscita più movimenti di avvicinamento davanti alla umana sofferenza.

11) Rimandare i contatti con gli utenti.

12) Respingere le telefonate e le visite.

13) Avere un modello stereotipato dei bisogni degli utenti. “Tutti gli utenti sono fatti così” si fa largo il pregiudizio negativo che autorizza a trattare male l’utente.

14) Incapacità a concentrarsi o ad ascoltare ciò che l’utente sta dicendo.

15) Sensazione di immobilismo. Si presenta con la critica alla rigidità della struttura. È aggravata da proiezioni della propria resistenza al cambiamento.

16) Cinismo verso gli utenti: colpevolizzazione nei loro confronti. Si manifesta con maltrattamenti e rimproveri perché l’utente “malato” non dà i risultati attesi.

17) Seguire in modo crescente procedure rigidamente standardizzate. È la “burocratizzazione”. Una strategia difensiva di tipo distanziante.

18) Problemi legati al sonno. Si presenta insonnia iniziale, intermedia, terminale, ma anche ipersonnia, sonnolenza e torpore mentale diurno.

19) Evitare discussioni sul lavoro. Ormai il soggetto è burn-out: rifugge le discussioni di lavoro.

20) Preoccupazione per sé. Non una forma di ipocondria, ma un’eccessiva introversione con sterile ruminazione sul proprio malumore.

21) Utilizzo inadeguato di sostanze psicoattive. La delusione per sé, per il mondo e la patologia polimorfa somatica portano il soggetto burned-out alla ricerca autoterapeutica farmacologica. Gli ansiolitici sono i più usati per ridurre tensione, irritabilità e disagio.

22) Disposizione ad ammalarsi di infezioni: raffreddori, influenze ecc.

23) Mal di testa, disturbi gastroenterici ed altre patologie psicosomatiche.

24) Rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento. Dovuto ai ripetuti sentimenti di fallimento. È il consolidarsi del burn-out.

25) Sospetto e paranoia. Non è un orientamento psicotico, ma un fenomeno proiettivo dovuto all’irritabilità ed all’intolleranza per chi ci circonda in ambito lavorativo.

26) Contrasti in famiglia. È un fenomeno che tende alla propagazione del disagio dal lavoro all’ambito domestico.

27) Assenteismo dal lavoro. Solitamente giustificato da reali disturbi psicosomatici.

(Tab. I).

Quanto descritto in sintomi specifici può essere considerato il risultato di ciò che è stato esposto dalla Maslach nelle tre dimensioni fondamentali del burn-out conseguenti all’interazione tra operatore ed utente. È a questa Autrice che si deve anche la M.B.I. (Maslach Burnout Inventory), una scala di valutazione e misurazione del burn-out inaugurata in America nel 1980, revisionata e collaudata anche in Italia da Sirigatti e Stefanile circa dieci anni dopo (24).

Secondo la Maslach, si presenta burn-out quando nel soggetto si riscontrano esaurimento emotivo, spersonalizzazione, riduzione delle capacità personali.

Con “esaurimento emotivo” l’Autrice intende una sorta di collasso emotivo: il soggetto burn-out non prova emozioni per gli utenti e il tiene tutti ad eguale distanza. Non ha interesse per l’attività e gradualmente ciò si manifesta anche nei confronti di familiari ed amici. L’esaurimento emotivo si configura con demotivazione, perdita del significato non solo del lavoro e dei suoi oggetti (utenti in primo luogo) e si riferisce anche alla persona dell’operatore che non trova più senso in se stesso, e tende a perdere una funzione essenziale della psiche umana: la capacità di attribuzione di significati.

È la situazione del “Sono io che non funziono…vedo molte cose che non vanno, ma non riesco a sistemare nulla …”.

La “spersonalizzazione” consiste nel cambiamento del comportamento verso gli utenti. L’operatore agisce in modo omologato. Dalla perdita dei sentimenti positivi verso l’utente, passa ad assumere un modello stereotipato negativo, quindi burocratizza la relazione ed arriva ad agire con indifferenza scostante, con maleducazione ed aggressivo cinismo.

L’utente è uno fra tanti uguali. È la fase del dis-umanizzarsi dell’operatore. Ma, contemporaneamente, continuano le richieste dell’utente. L’operatore, dunque, continua a sentirsi investito di aspettative ed è sollecitato a reinvestire quanto più tende a disinvestire. È per evitare l’angoscia della frustrazione che egli attua la strategia del distacco (burocratizzazione, indifferenza) e di distruzione dell’oggetto (colpevolizzazione, squalificazione, maltrattamento dell’utente). Tutto ciò, comunque, contrasta con l’ideale dell’Io del soggetto e ne scaturisce il senso di colpa.

Il risultato di tale fase del burn-out è una metamorfosi dell’assetto istintivo-affettivo della personalità.

È la situazione del “il dottore non mi ha neanche guardata”.

La riduzione della capacità personale è espressa con insoddisfazione, sfiducia in sé nel sentire di non aver fatto nulla di “buono” ed avvertire di non poterlo fare nemmeno in futuro.

È la fase del “qualche cosa si è rotto irrimediabilmente”.

È la fase che conduce ad un oggettivo calo di prestazioni. Questo quadro si avvicina molto ad uno stato depressivo secondario. Vi è la percezione di un cambiamento avvenuto, il soggetto comprende la metamorfosi, ma non è capace di gestire il proprio malessere, né di migliorare la situazione. Non avverte più energie sufficienti, ha una globale riduzione delle capacità e soprattutto di quelle adattative (22).

Il burn-out è quindi un’entità clinica che rapidamente passa dall’invalidare il soggetto fisicamente e psichicamente al comprometterlo nei rapporti familiari, amicali e relazionali in genere. Il soggetto burn-out è infatti colui che prova uno stato di disagio permanente e continuo che man mano si manifesta in tutte le aree della sua vita. Ne consegue una tendenza all’automedicazione sia farmacologica (ansiolitici e antidepressivi) che con altre sostanze ed in particolare alcol. Tutto ciò risulta di totale inutilità ed aggrava il quadro innescando un circolo vizioso da cui è sempre più difficile uscire (Tab. II).

La sindrome del burn-out può essere definita una “patologia da situazione” che prende piede in modo duraturo a seguito di una elaborazione negativa delle esperienze frustranti. Il quadro sintomatologico può apparire simile a quello depressivo, tuttavia, a differenza di quanto si verifica nella depressione, nel burn-out non si presentano particolari sensi di colpa ed autorimprovero, ma si alternano momenti di autocolpevolezzazione e di attacco verso agli altri attribuendo loro colpe. Non sono frequenti idee suicide (22).

Dati epidemiologici evidenziano che questo quadro si presenta in soggetti che lavorano a contatto con la sofferenza umana, che lavorano in istituzioni sanitarie, ma anche in poliziotti, insegnanti, assistenti sociali ed altre figure di aiuto. Con maggiore frequenza si manifesta in coloro che si occupano di malati terminali e di pazienti psichiatrici.

Sono più facilmente colpite le donne, soprattutto nubili o divorziate, in una fascia d’età tra i 20 anni ed i 40 anni (25).

Cenni di terapia

Non esiste alcuna terapia specifica e quindi realmente efficace per un quadro di manifesto burn-out.

Sebbene il soggetto tenda facilmente a cercare di alleviare il disagio con farmaci, questi non hanno nessun reale beneficio. Cambiare ambito lavorativo o attività risulta ugualmente di scarso effetto.

L’unico reale e valido rimedio è la prevenzione attuabile a diversi livelli: personale, istituzionale ed organizzativo.

Nel primo caso occorre considerare quanto svolgere un lavoro di “aiuto” obblighi l’individuo a confrontarsi frequentemente con la difficoltà di attribuzione di senso agli avvenimenti della vita umana. Tale riflessione risulta meno gravosa per chi abbia sviluppato una propria elaborazione personale in merito ai fondamentali nodi dell’esistenza (amore, vita, ma soprattutto dolore e morte) (22,26). In caso contrario, il soggetto, che necessariamente è esposto a continue sollecitazioni interrogative in merito a tali argomenti, produce inevitabilmente conflittualità e disagio spirituale. Questo ben si correla con la visione antropologica di V. Frankl, per il quale tale turbamento poi condurrebbe ai fenomeni psico fisici descritti.

Può inoltre risultare utile a livello preventivo prestare attenzione a non investire eccessivamente in campo lavorativo a scapito di relazioni affettive e familiari. Mancando infatti una adeguata rete affettiva, non avviene il necessario “rifornimento energetico” per affrontare gli stress lavorativi. Risulta quindi importante avere molteplici interessi extra lavorativi, il sostegno familiare ed una adeguata rete relazionale interpersonale (27,28).

Vi è poi un livello preventivo più ampio ed istituzionalizzato.

È importante evitare il pericolo dell’ipercoinvolgimento e per questo imparare a modulare la distanza tra l’operatore e l’utente. Operazione non semplice che chiama in causa capacità di dialettica continua di contatto e di separatezza, ma che è la condizione perché la relazione terapeutica non si collassi o irrigidisca. Tutti gli Autori oggi sono concordi nel suggerire agli operatori modalità di gestione delle proprie energie, ed una forma di “egoismo responsabile”. Stabilire orari, turni, vacanze adeguate può già essere considerato un fattore di prevenzione. Del resto, volendo collocare questo problema in un orizzonte metapsicologico più generale, si tratta di una declinazione particolare del complesso rapporto tra investimenti narcisistici ed investimenti oggettuali.

Tutti sono concordi soprattutto nel considerare la formazione la migliore fonte di prevenzione. Ciò anche per “imparare” a vivere con maggiore consapevolezza la relazione con gli utenti anche tramite una identificazione cosciente che permetta all’operatore di esercitare con l’utente la necessaria empatia.

Le modalità formative possono essere varie: corsi, valutazione attitudinale, aggiornamento, riunioni, programmazioni, supervisioni, gruppi Balint ed approfondimento culturale specifico. È tuttavia importante ricordare che la condizione stessa di operatore “in formazione” comporta conflitti specifici quali quelli identificabili nelle articolazioni fra onnipotenza ed impotenza, onniscienza ed ignoranza, rischi di inflazione del potere da parte dei docenti e pericolo di passività dipendente con implicazioni narcisistiche ed invidiose da parte dei discenti. L’apprendimento comporta di per sé un’alternanza di emozioni ed affetti opposti (fasi depressive di contemporanea svalutazione di sé e del soggetto formatore e fasi di esaltazione ed idealizzazione del docente con vorace desiderio di notizie). L’acquisizione della capacità di apprendere con pienezza affettiva implica invece un travagliato processo, durante il quale i desideri di formare/essere formato e l’illusione gruppale attraversano tutte le angosce, le questioni e le necessarie trasformazioni (particolarmente complicate nei gruppi istituzionali) che accompagnano i processi di individuazione, di separazione, di tolleranza di una dipendenza matura: in senso Kleiniano, l’elaborazione della posizione depressiva (29). L’aggiornamento ed un continuo interscambio con l’équipe permettono una riflessione ed una trasmissione della propria esperienza, anche della più frustrante, e ne permette una verifica ed una restaurazione (22,30).

Una particolare attenzione va rivolta al riconoscimento degli intrecci emozionali e dei loro antecedenti situazionali nell’ambito dell’istituzione che si costituisce come luogo del contenimento del disagio psichico.

Si è già accennato alla intensa mobilitazione emozionale suscitata dal contatto con situazioni difficili della medicina: un attento riconoscimento e la rielaborazione di tali componenti rappresentano senza dubbio una modalità di rafforzamento della rete di operatori che si dedicano all’assistenza ed un conseguente alleggerimento del carico emotivo che grava sul singolo. Dinamiche interne al gruppo di lavoro (di costituzione eterogenea: medici specialisti, infermieri, assistenti sociali ed eventualmente medici in formazione) reattive alla gestione del paziente o apparentemente legate a disfunzioni organizzative devono diventare motivo di riflessione e scambio all’interno dell’équipe.

La coesione del gruppo di lavoro appare inoltre un fattore protettivo nei confronti del burn-out: gruppi coesi presentano più elevati livelli di comunicazione, anche emozionale; all’interno di essi l’etica del lavoro e la soddisfazione lavorativa appaiono più sviluppate.

Un’attenzione alla “cura del contenitore istituzionale” ha dunque ripercussioni positive sia sulla qualità del lavoro degli operatori, che sull’andamento della gestione del paziente.

Il gruppo di lavoro si costituisce come elemento di continuità e stabilità nella difficile gestione di momenti “cruciali” del paziente e del reparto stesso. Appare di primaria importanza, in questo contesto, la figura del leader, al quale spesso il gruppo richiede attenzione paterna e che contemporaneamente però deve oggi confrontarsi con l’aziendalizzazione delle ASL e con problematiche di ordine economico, amministrativo che, essendo spesso lontane o contrastanti con esigenze cliniche, generano discordie, malumori, scissioni …

Il leader assume il delicato ruolo di continua mediazione tra richieste di diversa natura e provenienza, ma che tuttavia ugualmente influenzano il funzionamento del gruppo (31,32).

La prevenzione della sindrome del burn-out compete all’ambito dell’igiene mentale.

Alcune brevi riflessioni

Ogni operatore può facilmente ritrovare nella pratica clinica situazioni esemplificative di momenti di particolare difficoltà di interazione, gestione, organizzazione che si possono configurare come particolarmente delicati e a rischio per la genesi del burn-out.

Per tale ragione forniamo alcuni brevissimi esempi di situazioni che si possono verificare pressoché quotidianamente, che facilmente non sono oggetto di osservazione, ma che inevitabilmente producono effetti, talora rilevanti.

Riferendoci a quanto routinariamente accade durante un ricovero in SPDC e suddividendo in “fasi” la degenza, possiamo fornire, per ciascuna fase, una situazione esemplare, non esaustiva, su cui riflettere.

Fase 1: Accoglienza

Spesso accade che il medico di guardia che si occupa dell’accettazione del paziente non ne prosegua la presa in carico. La compilazione della cartella clinica e la trasmissione delle informazioni spesso si limitano a fornire dati circostanziali.

Il medico curante si trova spesso quindi a gestire situazioni in cui in una certa misura le “prime mosse del gioco” sono state effettuate da un altro.

In qualche modo, per particolari disturbi, la perdita di questo iniziale e fondamentale momento può risultare frustrante e condizionare le mosse successive.

Fase 2: Pianificazione

Per quanto sopra esposto appare evidente come il susseguirsi di figure mediche che, durante turni di guardia, o per altri motivi si occupano di degenti di cui non hanno approfondita conoscenza, possono interferire con progetti terapeutici dei quali per svariate ragioni non sono a conoscenza, “cadendo” nei giochi manipolatori dei pazienti. Talvolta anche piccoli interventi possono minare il lavoro di mesi risultando dannosi per il paziente e frustranti per il curante che molto ha investito.

Fase 3: Interventi

Frequentemente il momento dell’intervento rischia di diventare fonte di agiti che rimandano a dinamiche istituzionali. Citiamo a titolo esemplificativo l’occasione, non rara, in cui un paziente, per il quale era comunque in vista una dimissione, per motivi vari (mancanza di posti letto, presenza al momento di un familiare …) venga dimesso in assenza del medico referente, rendendo così impossibile un congedo adeguato. Tale situazione talvolta mina il rapporto con il paziente, spesso nuovamente ricoverato e crea attriti fra colleghi.

Fase 4: Valutazione dell’efficacia degli interventi

Il momento riflessivo successivo alla dimissione del paziente viene spesso trascurato a vantaggio di una routine di avvicendamenti che impone una rapidità di azione.

La valutazione dell’efficacia degli interventi permette anche la liberazione di forti cariche emotive, che in caso contrario rimangono inespresse, non condivise e quindi “portate a casa” dall’operatore.

Conclusioni

Il burn-out è una chiara entità clinica. Si ritiene oggi fondamentale conoscerla per la sua progressiva espansione tra coloro che agiscono nelle helping professions, e per il modo in cui insidiosamente si insinua nella vita sociale del soggetto burn-out (tanto da essere stata definita una malattia sociale).

Inoltre, non esistendo una terapia specifica, è di rilevante importanza la consapevolezza che può manifestarsi e, quindi, è necessaria attenzione mirata a bloccare i diversi livelli difensivi prima che si inneschi una spirale di difficile rimedio.

Fondamentale è in tal senso il lavoro di gruppo e una reale comunicazione all’interno dell’équipe.

Inoltre, non è possibile dimenticare o sottovalutare che tutti i meccanismi che si innescano nell’operatore, si ripercuotono sugli utenti, i malati, che già nella loro sofferenza si trovano ad essere vittime inconsapevoli dell’operatore e della struttura.

Corrispondenza: dott.ssa Clara Steinhilber, IRCCS Policlinico “San Matteo”, Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali, piazzale Golgi, 27100 Pavia – Tel. 0382 502621/502627 – Fax 0382 501817 – E-mail segreteria.psichiatria@smatteo.pv.it

Tab. I. L�andamento della sindrome burn-out. The clinical evolution of the burn-out syndrome.

Il burn-out origina
nell�ambito lavorativo
e presenta disturbi
somatici
psichici
familiari
sociali

Tab. II. Schema dell�andamento clinico di un soggetto burned out. Steps of clinical development of the burn-out syndrome.

 

demotivazione

 

anedonia

mancanza di soddisfazione sul lavoro

sentimento di ridotta realizzazione personale

elaborazione negativa

perdita di piacere nelle relazioni

perdita di significato

aggressione agli utenti   aggressione ai valori
burocratizzazione anarchia, delinquenza
 

spersonalizzazione

 

evoluzione verso la depressione

possibile alcolismo, uso di sostanze psicoattive e farmacofilia

(modificato da Poterzio et al., 1997)

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