Cambiamento sociale e modificazioni psicopatologiche. Risultati di un programma di ricerche in popolazioni africane

Social changes and psychopathological modifications. Results of a research program in african populationsFour ages, four minds

M.G. CARTA, B. CARPINIELLO, P.COPPO, M.C. HARDOY, M.A. REDA*, N. RUDAS

Clinica Psichiatrica, Universit� di Cagliari * Istituto di Psicologia Clinica e Generale, Universit� di Siena

Parole chiave:

Psichiatria transculturale o Depressione o Cambiamento sociale o Africa

Key words:
Transcultural psychiatry o Depression o Social change o Africa

Introduzione

Questo lavoro presenta i risultati di un programma di ricerche condotte dal nostro gruppo nell’arco di circa un decennio. Il filo conduttore era la valutazione dell’impatto delle modificazioni culturali sulla percezione di sé e sull’espressione del disagio psichico, in particolare della sintomatologia depressiva. Il campo di ricerca era rappresentato da popolazioni africane. La scelta dell’oggetto è stata in gran parte determinata da un percorso tracciato da studi precedenti sulla psicopatologia nell’emigrazione e nell’inurbamento (1,2) .Dopo avere studiato l’emigrazione sarda nel Nord Italia e nel resto d’Europa alla fine degli anni ’80, è stato preso in esame il nuovo fenomeno che vedeva la Sardegna nella veste di approdo o tappa intermedia di vettrici migratorie (3,4) .Da questa esperienza è maturata la collaborazione a due progetti condotti, rispettivamente, in Mali dalla Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri italiano (5) e da una organizzazione non governativa italiana in Malawi (6) .Abbiamo così potuto verificare, in situazioni in rapida evoluzione sociale, alcune ipotesi sull’influenza di variabili etologiche sulla psicopatologia africana che avevamo maturato attraverso gli studi sugli immigrati in Italia.
Riporteremo brevemente questo percorso per illustrare alcune teorizzazioni sulla sociobiologia della depressione che ne hanno rappresentato il traguardo.

La psicopatologia della depressione in Africa e le indagini sugli immigrati africani in Sardegna

Ricercatori del passato negarono l’esistenza della depressione in Africa. Più recentemente alcune indagini, condotte in setting prevalentemente urbani (7-9) ,o in sporadiche segnalazioni relative ad aree rurali, ma in campioni molto particolari, ad esempio sottoposti a stress da guerra, sembrano confutare tale ipotesi (10) .Tuttavia è spesso sostenuto che i disturbi somatoformi rappresentino l’elemento più caratteristico della psicopatologia africana (11) .Secondo la scuola di Collomb, la depressione risulterebbe il disturbo più frequente e significativo, ma la sua presentazione clinica sarebbe caratterizzata da idee di riferimento, deliri di persecuzione e sintomi psicosomatici, mentre le idee di colpa e le condotte suicidarie sarebbero estremamente rare (13) .
Questi aspetti furono studiati da autori di impostazione psicodinamica (14) e secondo prospettive sociologiche (15) ,le cui osservazioni concordano nel sottolineare il ruolo dei particolari stili educativi e di accudimento della prole con supporto “esteso” nella genesi di una personalità fortemente simbiotica e “comunitaria” (16) ,correlabile alle modalità di scompenso, rappresentate da sintomi persecutori sullo sfondo di un sentimento depressivo di “dislocazione da gruppo” (17) .Nostri precedenti studi condotti su popolazioni senegalesi emigrate in Sardegna avevano indicato come elementi di coesione culturale, quali le strutture associative delle confraternite islamiche, costituissero potenti fattori protettivi rispetto al rischio psicopatologico, e come l’integrazione lavorativa, se richiedeva un’allentarsi dei legami comunitari, esponeva l’individuo a scompensi (4) .Gli ambulanti senegalesi, se confrontati con individui sardi (18) ,non dimostravano di essere a rischio di depressione, al contrario dei pochi connazionali che si erano inseriti in lavori garantiti e regolarmente retribuiti. Un potente determinante era in questa seconda evenienza la perdita dei contatti con il gruppo dei connazionali.
È da notare che la partenza per lavorare in una nazione straniera è preceduta, presso le etnie dell’Africa Occidentale, da precisi rituali magico religiosi (il “Narval” in lingua Wolof). Si crea così una sorta di vincolo che sottopone l’individuo al controllo da parte della madre o della sposa in patria e che modula gli effetti di una esperienza fortemente centrifuga rispetto alla comunità. Si crede infatti che l’emigrante possa essere richiamato grazie ad un cerimoniale chiamato Wotal, se non dovesse rispondere egli perderebbe la salute mentale (19,20) .
Sul piano economico la famiglia potrà disporre con certezza delle rimesse periodiche del congiunto emigrato, sul piano psicologico e psicosociale la distanza non lederà gli stretti vincoli simbiotici che legano l’individuo al gruppo di appartenenza.
La quasi totalità degli immigrati senegalesi in scompenso psicotico da noi osservati era convinta di essere stata oggetto di Wotal (20) .I quadri clinici erano caratterizzati da bouffées con deliri persecutori e confusione mentale e richiamavano le descrizioni che Collomb a Dakar aveva interpretato come equivalenti depressivi, anche grazie al criterio ex adjuvantibus (17) .Nel caso di episodi psicotici in emigrati, al rientro in Senegal, fa seguito, da parte della famiglia e degli amici, la messa in atto di una serie di rituali tradizionali, atti a rompere gli effetti negativi del Wotal. Queste cerimonie hanno il significato di un rinsaldarsi dell’individuo con il gruppo, e, per la forte valenza culturale, non sono scoraggiate dagli psichiatri senegalesi (19) .
Secondo Murphy (21) una attenta analisi storica evidenzierebbe anche in occidente l’influenza dei fattori socio-economici nella trasformazione della fenomenologia depressiva. L’autore canadese aveva infatti analizzato le descrizioni della melanconia condotte da medici e religiosi nell’arco di una vasta epoca storica in Europa. Secondo questa prospettiva, l’emergere delle sindromi caratterizzate da idee di colpa, bassa stima di sé e sentimenti di inaiutabilità (helplessness), sarebbe individuabile in alcune aree dell’Inghilterra alla fine del XVII secolo, in verosimile relazione con il passaggio dall’economia feudale a quella industriale. Gli elementi essenziali, nel determinare la modificazione psicopatologica, sarebbero stati la dissoluzione della famiglia allargata, il conseguente cambiamento degli stili educativi e il minor supporto emotivo per il membro del gruppo. Inoltre, l’individualismo economico avrebbe prodotto una sorta di auto-responsabilizzazione: il destino ed il futuro, non erano più attribuiti al fato ed alla provvidenza, ma all’impegno e all’abilità personali.
Lo studioso canadese protende per la priorità dei cambiamenti economici; a questi sarebbe conseguito il mutare dei costumi religiosi, in particolare l’avvento del protestantesimo. È questa, tuttavia, una querelle che esula, ovviamente, dai limiti dell’argomento di nostra pertinenza.

La ricerca di cure psichiatriche nell’altopiano Dogon

L’intervento del nostro gruppo a Bandiagara, sull’altopiano Dogon in Mali, si è inserito nell’ambito di un progetto che mirava a valorizzare la fitoterapia tradizionale allo scopo di produrre medicinali a basso costo. Era previsto lo studio delle piante, l’identificazione dei principi attivi e la conduzione di studi clinici di efficacia.
Era stato anche programmato un lavoro di confronto fra i criteri nosologici dei guaritori tradizionali ed i criteri occidentali. Se una pianta medicinale era utilizzata verso un qualche disturbo si rendeva infatti necessario identificare il principio attivo e definire la patologia che poteva giovarsene.
In questo contesto, nel 1983 un ricercatore aveva condotto un piccolo studio attraverso guaritori come informatori chiave per definire la frequenza delle malattie “tradizionali” ed i corrispettivi sistemi di cura su un campione di popolazione dell’altipiano di Bandiagara (22) ,utilizzando un approccio che gli antropologi definiscono emico (22) .
Sorprendentemente, nessuno dei casi identificati nell’indagine poteva essere, secondo criteri nosologici occidentali, classificato come ansioso o depressivo. Tre potevano essere le ipotesi interpretative del dato: o casi simili non esistevano in quella cultura, o i guaritori non li riconoscevano, oppure, ancora, non li consideravano di loro competenza.
Questo in sostanza il retroterra dell’indagine epidemiologica da noi condotta sull’altipiano di Bandiagara su un vasto campione della popolazione stanziale (prevalentemente di etnia Dogon) e nomade (prevalentemente di etnia Peul).
Tralasciamo in questa sede la descrizione degli aspetti metodologici trattati altrove per quanto riguarda la messa a punto dello strumento di screening (23) e il campionamento (24) .Si trattava di una ricerca condotta utilizzando criteri nosologici occidentali nel tentativo di verificarne l’estensibilità, secondo un approccio che gli antropologi definirebbero “etico”, ma con un intento di confronto con le modalità interpretative proprie della cultura studiata (25,26) .
I principali risultati si possono così riassumere:

– Veniva identificata una certa quota di disturbi ansiosi e depressivi, la cui prevalenza in un punto era pari rispettivamente al 2,4 ed al 3,9%, tendenzialmente più bassa rispetto a quella riscontrata in ricerche condotte in Europa con strumenti analoghi quali la PSE IX (24) e in precedenti ricerche africane (7-9) .

-Oltre le diagnosi secondo il sistema PSE-ICD-IX, vennero utilizzati dei criteri diagnostici operazionali, definiti in collaborazione con medici maliani. I soggetti intervistati vennero così classificati come “sani”, “bisognosi di terapie somatiche” (SOM), “bisognosi di terapie psichiatriche” (PSY), “bisognosi di supporto sociale” (SOC). Molti soggetti presentavano più di un tipo di bisogno di cure.

Tutti i casi PSY “puri” (bisognosi di sole cure psichiatriche) risultavano scolarizzati; di conseguenza, la frequenza fra gli scolarizzati di PSY “puri” era maggiore ad un livello statisticamente significativo rispetto a quella riscontrata fra gli analfabeti.

– Gli individui con disturbi psichici presentavano, in una grande proporzione, anche disturbi somatici: i più frequenti risultavano i disturbi del tratto genito-urinario (OR = 49,9), la tubercolosi (OR = 9,3) e le cardiopatie disabilitanti (OR = 7,0). I dati clinici e di laboratorio dimostravano che nella maggior parte dei casi si trattava di reali, spesso severi, disturbi somatici, i cui sintomi si erano manifestati prima dell’inizio del disturbo psichiatrico nella quasi totalità dei soggetti. I nostri risultati non sembrano quindi supportare l’assunzione comune che la somatizzazione sia l’elemento più caratteristico della psicopatologia africana (10) ,benché le somatizzazioni fossero comunque frequenti all’interno di quadri depressivi. È piuttosto da sottolineare l’importanza del distress derivante dalle malattie somatiche fra i Dogon e i Peul, in particolare quando siano compromessi il ruolo riproduttivo (come nel caso delle orchiti parassitarie), o il ruolo sociale e familiare (come nel caso delle cardiopatie e della tubercolosi). Il valore attribuito nelle società dell’Africa Occidentale alla capacità del maschio di essere sessualmente adeguato e della donna di avere figli era stato infatti argomentato da Makanjoula e Olaifa (29) in uno studio sulla depressione mascherata nei nigeriani. I disturbi psicopatologici, e la depressione in particolare, possono essere quindi considerati sia come una reazione alla perdita della posizione del soggetto nel gruppo di appartenenza, sia come una reazione allo stress derivato da una catastrofe, laddove un disturbo somatico serio può essere effettivamente catastrofico in condizioni già pesantemente gravate da problemi economici, sociali e sanitari.

– Uno degli aspetti più interessanti della nostra ricerca è stato l’analisi del tipo di cure di cui i pazienti usufruivano. Fra i soggetti affetti da un disturbo psichiatrico (non associato ad un disturbo somatico) soltanto un caso era stato diagnosticato come “vento”, disturbo mentale secondo la nosologia locale. Questo soggetto, che era anche il solo che presentasse una chiara sintomatologia psicotica, si rivolgeva a trattamenti tradizionali che avevano diminuito l’intensità e la frequenza delle crisi. I soggetti identificati come ansiosi o depressi secondo criteri occidentali non erano considerati come affetti da malattie di pertinenza sanitaria sulla base dei criteri locali e quindi non richiedevano cure o trattamenti specifici. Per questi disturbi venivano invece messe in atto pratiche divinatorie, le stesse utilizzate per risolvere i problemi sociali.
In generale, questi risultati sembrano parzialmente convergere con lo studio di Patel et al. (8) ,condotto in un contesto urbano dello Zimbabwe, nel dimostrare che i casi di depressione non sono riconosciuti come tali in differenti contesti africani e che vengono il più delle volte considerati come problemi sociali più che medici.

La psicopatologia nell’altipiano Dogon

Un successivo lavoro (30) ha cercato di caratterizzare sul piano descrittivo le aggregazioni sindromiche, attraverso una metodologia più complessa, trattando la banca dati dello studio di Bandiagara mediante la analisi delle componenti principali.
Lo studio ha permesso di individuare 8 fattori con valore Eigen superiore o uguale a 1. Il più rilevante per quanto riguarda la percentuale di varianza totale coperta (Fattore I) raggruppava una costellazione sindromica che possiamo definire di “perdita della speranza”. Era composto da sintomi considerati, dalla tradizione psichiatrica occidentale, tipici della depressione: la tristezza, la polarizzazione cognitiva negativa, la perdita della speranza. L’altro elemento focale della sindrome depressiva, la perdita dell’interesse nelle cose, non rientrava fra i costituenti di questo fattore principale, ma costituiva l’unico elemento caratterizzante un fattore (VIII) che contribuiva scarsamente alla varianza totale. Il primo fattore risultava quindi non del tutto specifico, tale da essere considerato rappresentativo dei quadri depressivi.
Anche il fattore VII risultava rappresentato da sintomi abbastanza tipici della depressione, quali l’incapacità di pensare al futuro e il convincimento di inaiutabilità; era presente tuttavia un elemento culturalmente correlato, il convincimento di avere sogni che si realizzano.
Altri fattori emersi dal nostro studio risultavano caratterizzati da gruppi di sintomi abbastanza specifici della depressione in Africa (31-33) .Può essere infatti valutato in questo senso il quadro “disforico-ansioso” descritto dal fattore II (difficoltà di rapporto con gli altri, astenia e irritabilità) e gli aspetti paranoici evidenziati dal fattore IV.
Alcuni sintomi psicosomatici, quali insonnia e disturbi dell’appetito, tendevano ad aggregarsi nel Fattore V nel quale risultavano assenti, ancora una volta, i sintomi depressivi “classici”. La sindrome caratterizzante il fattore III (mal di testa, incubi, visita degli spiriti) era molto simile alla descrizione tradizionale della febbre malarica (34) .
L’analisi fattoriale ha confermato in sostanza la rilevanza della sintomatologia depressiva, in accordo con quegli autori che hanno indicato lo spettro depressivo come l’elemento più rilevante della psicopatologia africana (31) ,ma ha anche evidenziato alcuni elementi che sembrano suggerire una non sovrapponibilità della fenomenologia depressiva rispetto ai profili psicopatologici usualmente noti nei contesti occidentali.
Un unico studio aveva condotto l’analisi fattoriale del SRQ (strumento da cui è derivato il QDSM da noi usato) in una popolazione generale africana, in Etiopia (35) ,ed aveva posto in luce 3 soli fattori: Sintomi Cognitivi, Ansia e Depressione, Sintomi Somatici. Benché anche questo lavoro avesse sottolineato il rilievo della fenomenologia depressiva, i risultati non sono sovrapponibili a quelli del nostro studio. Una parziale analogia riguarda tuttavia l’indipendenza di un fattore “psicosomatico” da sintomi depressivi cognitivi e a carico dell’umore.
È di estremo interesse invece il confronto con il lavoro di Bertschy et al. (13) concernente l’analisi fattoriale delle risposte alla Comprehensive Psychopathological Rating Scale (36) in un campione di soggetti depressi afferenti ad un servizio psichiatrico urbano a Cotonou nel Benin. Il lavoro evidenziava due fattori “core” della sindrome depressiva, nei quali non erano presenti sintomi psicosomatici, considerati “tipici” della psicopatologia africana. Anche Bertschy et al. avevano rilevato, fra gli altri, un fattore “ansia” con irritabilità e un fattore “persecuzione”. Questi, come già accennato ritenuti anch’essi caratteristici della depressione africana, risultavano indipendenti dalle costellazioni sintomatologiche più “occidentali”, tuttavia non correlavano inversamente con esse. Questi risultati, pertanto, non confermavano l’approccio teorico proposto da alcuni autori secondo cui serie di sintomi contrapposti rispettivamente “tradizionali” africani e occidentali (Cefalea/Tristezza, Idee di Colpa/Persecuzione) potrebbero rappresentare due vie alternative, culturalmente determinate, di una analoga sottostante dimensione psicopatologica depressiva.
Anche il nostro lavoro evidenziava la presenza di due fattori (il I e l’VIII) che si possono situare all’interno delle sindromi depressive della nosografia psichiatrica, ma emergeva una tendenza alla correlazione inversa dei sintomi di entrambi i fattori depressivi con il sintomo psicosomatico più frequente nell’intero campione, il mal di testa. Il fattore VIII tendeva inoltre a correlarsi inversamente al sintomo idee persecutorie, considerato uno dei più specifici della depressione africana. Analogamente l’aggregazione di “sintomi psicosomatici” (Fattore V), ritenuti anche essi centrali nella espressività depressiva in Africa, presentava una tendenza ad una correlazione inversa con un sintomo depressivo convenzionale, quale la perdita della speranza. In sostanza il nostro studio, contrariamente al lavoro del Benin, sembrerebbe suggerire una possibile contrapposizione delle due modalità considerate da altri autori “alternative” di espressione del disagio.
Bisogna sottolineare che i soggetti analizzati nella ricerca in Benin erano urbani e parlavano francese, mentre il campione dello studio di Bandiagara è composto da contadini e nomadi in maggioranza illetterati e che, nella quasi totalità, non hanno mai assunto psicofarmaci.

Modificazioni psicopatologiche in una societ� in rapida evoluzione, lo studio in Malawi

Lo studio di Bandiagara suggeriva che i fattori sociali potessero influenzare le trasformazioni della espressione del disagio depressivo e modulare il rischio di ammalare di depressione, ma non consentiva di formulare alcuna ipotesi esplicativa di come ciò potesse realizzarsi.
Qualche dato interessante in tal senso poté essere tratto dai risultati di un altro studio condotto nella regione di Namwera in Malawi, al confine con il Mozambico (37) .La popolazione interessata era costituita da individui appartenenti alle etnie Yao e Chicewa, abitanti le terre intorno alla parte meridionale del lago Malawi.
L’obiettivo dello studio era valutare le possibili influenze dei cambiamenti economico-sociali, con particolare riferimento al ruolo lavorativo, sul benessere psicologico e sulle modalità di espressione psicopatologica nelle donne. Nella regione interessata solo recentemente si è assistito alla transizione da una economia puramente agricola a forme più diversificate, coinvolgenti nei nuovi ruoli lavorativi sia gli uomini che le donne e, nel caso di queste ultime, per la prima volta, l’emergere di impieghi che le allontanavano dai ruoli tradizionali di accudimento con contatto prolungato della prole. È peraltro opportuno sottolineare che durante i primi anni ’90, allorquando questo studio veniva realizzato, il Malawi era interessato da profonde trasformazioni sociali e politiche, il cui aspetto più saliente era rappresentato dal passaggio ad una forma di democrazia multipartitica, decretato da un referendum popolare (38) .Nel periodo strettamente antecedente il referendum, erano state osservate vere epidemie di forme isteriche, interessanti gruppi circoscritti di giovani donne (39) .Lo studio approfondito dei casi di una di tali epidemie aveva suggerito la presenza di una correlazione fra l’espressione psicopatologica e l’ipercoinvolgimento emozionale causato dal conflitto nella scelta fra tradizione e innovazione (39) .
In questo contesto, a partire dal 1988, era stata istituita nel villaggio di Namwera una sartoria industriale, programmata e finanziata dalla cooperazione italiana. All’epoca dello studio (1990-92) vi erano impiegate 25 donne. Il progetto prevedeva che le donne, concluso un periodo di formazione, potessero acquistare con facilitazioni apparecchiature sufficienti ad intraprendere nei villaggi di origine un’attività autonoma di sartoria.
Considerata la particolare condizione della donna nelle culture Yao e Chicewa, il passaggio così brusco da un ruolo femminile tradizionale ad uno in qualche modo imprenditoriale, ci è sembrato un terreno particolarmente adatto allo studio degli aspetti precedentemente esposti.
L’indagine riguardava tre campioni di donne appaiati per età: la totalità delle sarte, un campione di lavoratrici impegnate in ruoli tradizionali (contadine/casalinghe) ed un campione di infermiere e ostetriche, per un totale di 171 soggetti.
Le donne sono state sottoposte ad un questionario riguardante la storia di sviluppo, la presenza di eventi stressanti e altri di fattori di rischio psicopatologico; ad una intervista strutturata, derivata dal Self Reporting Questionnaire, che indagava la presenza di eventuali sintomi psicopatologici e conteneva alcuni items che miravano a definire le interpretazioni sulla causalità dell’eventuale malessere (27,40) e, infine, ad un colloquio psichiatrico (37) .
La scelta lavorativa delle giovani non era stata casuale rispetto alla storia personale di sviluppo. Infatti, coloro che si erano impegnate in occupazioni innovative (Sarte e Infermiere) avevano subito più frequentemente l’abbandono da parte del padre. In Malawi il matrimonio è matrilocale: l’uomo si trasferisce presso la famiglia della moglie, ma raramente, anche se meno infrequentemente negli ultimi anni, forse in relazione alle trasformazioni sociali, abbandona la famiglia dopo qualche tempo, lasciandola in gravi condizioni di precarietà economica. La ricerca di un lavoro innovativo rispetto alle tradizioni era stata probabilmente dettata in queste donne da necessità economiche e di soppravvivenza. Bisogna considerare che le famiglie erano numerose e, verosimilmente, sulla decisione di farsi carico dei problemi della famiglia hanno giocato anche delle attitudini personologiche peculiari.
In uguale misura la necessità di assumere un ruolo familiare più tradizionale, in seguito alla perdita della madre nella fanciullezza, evento più frequente alla anamnesi delle casalinghe, poteva avere condizionato le scelte successive di altre donne.
La soddisfazione lavorativa risultava maggiore nelle donne che avevano scelto occupazioni innovative (sarte e infermiere) ma le sole sarte (non le infermiere) manifestavano e dichiaravano una serie di conflitti sociali correlati al nuovo ruolo. Emergevano in questo gruppo difficoltà a trovare compagni stabili e frequenti abbandoni coniugali, sempre successivi all’assunzione del nuovo lavoro.
Sul piano della valutazione psicopatologica le casalinghe e le sarte apparivano più spesso sofferenti delle infermiere. Presentavano un numero medio di sintomi psicopatologici maggiore, e il numero di casi depressivi, identificati e diagnosticati sulla base del DSM-III-R (41) ,risultava più elevato in questi due gruppi (37) .
Un’analisi dei fattori di rischio (estrapolati da studi analoghi condotti in Africa) non metteva in evidenza differenze globali fra i tre gruppi, anche se emergevano differenze per quanto concerne specifici fattori. Fra questi, i principali associati alla depressione risultavano: l’evoluzione negativa del matrimonio (separazione), l’assenza di supporto finanziario da parte del marito e la perdita della madre prima dell’età di 11 anni.
Un’analisi statistica della frequenza degli specifici sintomi (Tab. I) ha posto in luce fra le casalinghe più frequentemente sintomi “psicosomatici” (mal di testa, poco appetito, difficoltà digestive), eccessiva affaticabilità, perdita di interessi e difficoltà di concentrazione, idee di svalutazione, convincimenti che gli altri non riconoscessero l’importanza del loro ruolo e che qualcuno potesse aver loro arrecato un’offesa. Queste donne avevano quindi la tendenza a sentirsi poco considerate dagli altri ed a localizzare esternamente le cause del proprio malessere.
Le sarte si sentivano più spesso tese, nervose e preoccupate, vivevano sentimenti di inutilità e più frequentemente esprimevano desideri di morte. Emergevano più che nei gruppi di controllo problematiche relative alla stima di sé e sintomi depressivi.
Le infermiere risultavano infine godere di un migliore benessere psicologico, in quanto meno interessate da sintomi psicopatologici.
Venne anche condotta un’analisi comparativa delle risposte agli item del SRQ fra le casalinghe depresse rispetto alle sarte depresse. Nelle casalinghe depresse furono trovate risposte positive più frequenti all’item riguardante l’attribuzione esterna del proprio malessere; esse presentavano inoltre più frequentemente il convincimento di non essere sufficientemente apprezzate dagli altri. Pensieri di inutilità sociale e la volontà di morire erano più frequenti nelle sarte depresse.
Si è tentata una possibile interpretazione di questi risultati che tenesse conto delle implicazioni psicosociali della modificazione. Il lavoro di infermiera sembrava permettere alla donna di Namwera di mantenere un ruolo non solo socialmente accettabile, ma anche percepito, probabilmente dalla donna stessa, come più vicino a quello femminile “tradizionale”, soprattutto per quanto riguardava la cura e il supporto all’individuo debole. Non era quindi sorprendente che le infermiere risultassero il gruppo emozionalmente più stabile, avendo esse raggiunto una situazione economica soddisfacente, che permetteva l’indipendenza, ma attraverso un ruolo individualmente e socialmente accettabile, ancorché innovativo. Le ricerche psicosociali che hanno investigato i processi di attenzione selettiva umana hanno infatti suggerito che la trasmissione culturale tende a perpetuarsi quando le specifiche istituzioni culturali (nel caso presente il ruolo lavorativo) sono percepite dal soggetto coinvolto come parte integrante della propria personale identità (“the evolving self”) ma, allo stesso tempo, come capaci di rispondere a nuove esigenze e bisogni (42) .
In maniera analoga anche gli altri componenti del gruppo potevano percepire l’istituzione-lavoro “infermiera” come parte integrante della loro identità. Questa ipotesi interpretativa ben spiegherebbe l’assenza di conflitti esterni connessi al nuovo ruolo e, di conseguenza, la facilità di integrazione in esso da parte delle infermiere.
Al contrario le sarte, coinvolte in un lavoro più individualistico e più distante dalla condizione tradizionale della donna, sembravano soffrire maggiormente il peso di una attività assolutamente differente in termini di responsabilità individuale e probabilmente meno accettata dallo stesso contesto sociale e familiare.
Può anche essere suggerito che i vettori economici causati dall’abbandono da parte del padre possano spingere individui predisposti a farsi carico delle problematiche del microgruppo, dotati quindi di una sorta di “autoresponsabilizzazione compulsiva” in termini bowlbiani (43) ,verso opportunità di successo sociale prima inesistenti e maturate in un contesto in trasformazione. Secondo questa chiave di lettura i nuovi ruoli capaci allo stesso tempo di offrire prospettive di sussistenza e di leadership, ma anche di indurre scompensi in termini “individualistici” prima sconosciuti, possono essere concepiti come la base per lo sviluppo, in individui predisposti, di un tipico stile depressivo di organizzazione del Sé. Secondo le concezioni cognitivistico costruttiviste (44,45) si intende con ciò un sistema attraverso cui il soggetto a livello esplicito e consapevole cerca di mantenere una immagine coerente di Sé attraverso una teoria che supporta una visione pessimistica del mondo, del futuro, e attribuendosi una sorta di “iperresponsabilizzazione votata alla sconfitta” e, a livello tacito, attraverso sentimenti di sfida circa i vissuti di perdita.
Le interpretazioni adottate, coerentemente con le ipotesi di Murphy, permetterebbero anche di chiarire le modalità di espressione sintomatologica emerse fra le sarte, apparentemente più simili alla depressione “occidentale” che alla fenomenologia depressiva tipica dell’Africa. Quest’ultima emergeva invece più chiaramente nel gruppo delle casalinghe, le cui componenti sembravano mantenere anche una lettura più tradizionale delle relazioni interpersonali e del proprio benessere in termini di equilibrio fra universi multipli (il Sé, gli altri, le forze della natura, gli spiriti degli antenati). Secondo l’interpretazione di Natan (46) ,le società africane tradizionali sarebbero caratterizzate da una profonda enfasi sulla realtà invisibile, oltre che dalla citata importanza rivestita dal gruppo piuttosto che dall’individuo. Non sorprende, quindi, che la malattia potesse essere interpretata da queste donne come causata da qualcosa di esterno, da una rottura degli equilibri per l’intervento di persone o forze negative. La sofferenza psichica in questi soggetti è anche espressa più frequentemente in termini psicosomatici e, anche quando si manifestava con sintomi simili alla depressione “occidentale”, non era mai espressa con sentimenti di autosvalutazione o di inutilità, che presupporrebbero una evoluzione individualistica del sé. Nella successiva figura (Tab. II) viene schematizzato l’ipotetico percorso attraverso cui il cambiamento sociale, interagendo con gli eventi di vita significativi ed in funzione di aspetti personologici di base, permette l’evoluzione in maniera coerente di modalità innovative di strutturazione del sé. Tale sistema organizzativo potrà scompensare attraverso vie specifiche di espressione del disagio mentale se il “salto” innovativo non riuscirà a raggiungere una condizione culturalmente mediabile e/o se il sistema organizzativo della conoscenza diviene troppo rigido ed incapace di flessibilità fra il bisogno di cambiamento e gli schemi tradizionali interni ed esterni.

Conclusioni

Le ricerche che ci siamo sforzati di sintetizzare in questo contributo hanno permesso di evidenziare quadri depressivi anche in popolazioni culturalmente distanti dai processi di acculturazione occidentale, quali i nomadi Peul e gli agricoltori Dogon del Subsahara. In queste popolazioni, tuttavia, i disturbi depressivi sono relativamente rari e quasi sempre secondari a disturbi somatici gravi, mentre emergono come disturbi primitivi solo nei soggetti più alfabetizzati. Se consideriamo la depressione come un pattern complesso di risposte comportamentali, emotive e cognitive, le nostre ricerche sembrano suggerire che la soglia di attivazione di questo schema si situi ad un livello più elevato che nelle culture occidentali.
Le nostre indagini tendono ad accreditare l’ipotesi di modalità di espressione psicopatologica contrapposta fra aggregazioni sindromiche che definiamo “occidentali” o “della colpa” e tradizionali o “della dislocazione dal gruppo”.
I fattori ambientali sembrano condizionare l’evoluzione dei sintomi depressivi non attraverso un meccanismo diretto per così dire “lamarckiano”, ma attraverso perturbazioni dell’assetto sociale che rendono adattive attitudini alla “autoresponsabilizzazione compulsiva” altrimenti destinate ad estinguersi.
Il cambiamento sociale sembra offrire inoltre il substrato per l’evoluzione, a partire da tali attitudini, di sistemi complessi e innovativi di interpretazione della realtà, di concepire la causalità ed il controllo degli eventi, di vivere le emozioni.
Il modello può contribuire a dare spiegazione dell’evoluzione delle modalità di espressione psicopatologica e suggerire una ridiscussione del concetto di soglia e di vulnerabilità, laddove si potrebbe ipotizzare che i nuovi sistemi cognitivi, benché adattivi rispetto alle nuove esigenze sociali, possano costituire fattore di vulnerabilità (“culturalmente specifica”) verso la malattia depressiva.

Tab. I.
Frequenza di sintomi psicopatologici nei due gruppi a rischio nell’indagine di Namwera. Frequency of psychopathological symptoms in two risk groups in the Namwera area.

Casalinghe
Sintomi psicosomatici (mal di testa, poco appetito, difficolt� digestive)
Eccessiva affaticabilit�
Perdita di interessi
Difficolt� di concentrazione
Idee di svalutazione
Convincimenti che gli altri non riconoscano l’importanza del proprio ruolo
Tendenza ad essere poco considerate dagli altri
Tendenza a localizzare esternamente le cause del proprio malessere
Sarte
Ansia psichica
Sentimenti di inutilit�
Pi� frequentemente desideravano di morire
Problematiche relative alla stima di s�
Sintomi depressivi

Tab. II.
Bisogno di cambiamento. Societ� in rapida evoluzione.
Change requirement in rapidly developing societies.

Bisogni economici che
spingono al cambiamento
(abbandono del padre,
famiglia numerosa)
Bisogni economici
che spingono verso
ruoli tradizionali
(perdita della madre)
Individui esplorativi
ed iperresponsabilizzati
Individui non
inclini ad esplorare
Lavoro che
rompe con
le tradizioni
Lavoro che
modifica il ruolo
senza rotture
Lavoro che impedisce
il cambiamento
Soddisfazione
Lavorativa
Soddisfazione
Lavorativa
Insoddisfazione
Lavorativa
Malessere
(Con quadro
depressivo)
Benessere Malessere
(Con modalit�
tradizionali)

1 Rudas N.
Emigrazione sarda: caratteristiche strutturali e dinamiche.
Studi Emigrazione (monografia) 1974;XI:34.

2 Rudas N.
Inurbamento e psicopatologia. Dal malessere urbano al disturbo mentale.
Roma: Il Pensiero Scientifico 1983.

3 Rudas N, Carpiniello B, Carta MG, Scarpa MC.
Primi risultati di una ricerca sull’immigrazione africana in Sardegna: Politiche e Programmi di Cooperazione.
Cagliari: ISPROM 1988.

4 Carta MG, Carpiniello B, Rudas N.
L’émigration senegalaise et marocaine en Sardaigne.
Psichopathol Afr 1991;XXIII;3:329-52.

5 Coppo P, Keita A.
Medicine traditionaille. Acteurs et itineraires terapeutiques.
Trieste: Edizioni E 1990.

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