Diagnosi operazionalizzata, linee guida terapeutiche, giudizio clinico

Working diagnosis, treatment guidelines, and clinical judgement

P. CURCI, G.M. GALEAZZI

Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Patologia Neuropsicosensoriale, Università di Modena e Reggio Emilia

Assai numerose nella letteratura italiana ed internazionale sono le valutazioni, più o meno esplicite, di ricercatori e clinici soddisfatti per l’attendibilità diagnostica raggiunta attraverso l’impiego dei correnti criteri operazionalizzati per la diagnosi dei disturbi mentali. Anche Allan Tasman, Presidente uscente dell’Associazione degli Psichiatri Americani, partecipa di questa soddisfazione; tuttavia, in un recente discorso centrato sulla relazione medico-paziente (1), subito dopo essersi compiaciuto per i progressi fatti nel migliorare l’attendibilità delle diagnosi DSM, manifesta preoccupazione per il pericolo, da lui avvertito come molto concreto, “di stare formando una generazione di psichiatri carenti anche delle minime capacità psicoterapeutiche”. In questo breve contributo proponiamo, in termini problematici, una riflessione sulle implicazioni del concetto di giudizio clinico tra diagnosi operazionalizzata e linee guida terapeutiche.

Accanto al requisito della copresenza di un numero minimo di sintomi o comportamenti (spesso indipendentemente dalle loro differenti combinazioni) rilevabili dal diagnosta o dall’entourage del paziente o riferiti all’anamnesi, i criteri prescritti (oltre a varie clausole di esclusione) richiedono che, per un buon numero di disturbi, al gruppo di caratteristiche così individuate, sia associato un “disagio clinicamente significativo” e/o “menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti”.

Se è stato posto un notevole impegno, nei manuali diagnostico-statistici a cui ci riferiamo, per cercare di operazionalizzare (a) i criteri sintomatologici dei disturbi, la definizione di “disagio clinicamente significativo” rimane sfuggente e poco approfondita. Nella Introduzione del DSM-IV (3) si riconosce che l’uso del giudizio clinico per valutare non solo l’entità, ma il significato stesso del quadro sindromico rilevato (se cioè si tratti di un disturbo o meno), è uno dei problemi nell’utilizzo del manuale e, forse sbrigativamente, si ammette che il giudizio clinico possa giustificare una certa diagnosi per un individuo anche se la presentazione non è tale da soddisfare completamente i criteri del disturbo; d’altra parte, si scoraggia un’applicazione troppo flessibile e idiosincrasica dei criteri convenzionali dello strumento. Nella stessa sezione gli estensori del DSM sottolineano il fatto che i criteri e le descrizioni del testo sono destinati all’impiego da parte di persone con adeguato addestramento clinico ed esperienza nella diagnosi, giustamente sollevando un punto problematico, ma eludendolo in maniera tautologica e autoreferenziale.

A noi la questione del “giudizio clinico” appare un punto centrale per la comprensione non solo della diagnosi, ma delle scelte mediche in toto e del lavoro psichiatrico in particolare: punto che a nostro avviso non sembra aver trovato finora adeguato spazio di riflessione. Cosa si intende, infatti, per “disagio clinicamente significativo”? Il termine clinica rimanda direttamente al rapporto di cura definendo, già col suo etimo, il setting del medico al letto del malato e implica, soprattutto, il riferimento valutativo a un mondo di valori e di priorità non riducibili al campo strettamente “scientifico”. In ogni caso, la situazione clinica ha sempre un fine ben preciso, quello della cura che dà significato alla relazione fin dal momento della diagnosi. Ovvero, i sintomi passati al setaccio attraverso le griglie operazionalizzate del DSM-IV o dell’ICD-10 acquistano un significato solo in un’interazione tra la persona sofferente e un’altra persona, il clinico, che raccoglie, cioè legge questa sofferenza in una prospettiva di cura. In maniera radicale diremmo che non c’è diagnosi significativa senza rapporto clinico o, più limitatamente, che tutte le diagnosi “statistiche” acquistano un senso solo all’interno di questa relazione.

Scorrendo la letteratura recente, ci si può imbattere in studi che mostrano come la questione del giudizio clinico investa in modo rilevante anche la ricerca epidemiologica e la sua interpretazione (che oggi sembrano sempre più assumere un ruolo guida nel dirigere le scelte operative della medicina come istituzione). Esempio, in questo senso significativo, può essere uno studio prospettico epidemiologico nazionale olandese sull’incidenza dei disturbi mentali condotto con l’impiego di interviste strutturate e validate (4). La ricerca, che interessava un campione rappresentativo di più di settemila abitanti, ha utilizzato l’intervista CIDI (5) e ha previsto la re-intervista telefonica da parte di psichiatri con la SCID (6) per i soggetti risultati positivi alla CIDI per almeno un item di fenomeni psicotici delle classi “psicosi clinica” e “sintomi psicotici plausibili” (con probabile spiegazione non patologica). Ben il 17,5% del campione risultava aver esperito possibili fenomeni psicotici secondo l’intervista CIDI, porzione che è stata riclassificata dopo intervista SCID telefonica dei soggetti sopra indicati, nei seguenti gruppi: soggetti “con sintomi presenti ma non clinicamente significativi” (12,9%), soggetti in cui i fenomeni erano attribuiti all’effetto di sostanze o malattie mediche generali (0,6%), soggetti con sintomi di psicosi clinica (4,2%) e soggetti che avevano sintomi con spiegazione “plausibile” (4%) (b). Anche se talune obiezioni metodologiche possono essere mosse a questo interessante studio, ci sembra tuttavia che ben si presti a considerazioni pertinenti al nostro discorso. Una presenza così alta di fenomeni, che secondo la descrizione criteriologica delle interviste standardizzate utilizzate possano definirsi ed essere inquadrati come psicotici, indica proprio come tali criteri, di per sé, paiono incapaci di guidare la diagnosi dei disturbi mentali in assenza del “giudizio clinico”. E se appare arbitraria l’etichettatura del gruppo con sintomi “clinicamente” significativi, ciò accade forse proprio perché tale giudizio viene posto in una relazione “altra” rispetto a quella della clinica, cioè della relazione medico-paziente. E che pensare del vasto gruppo con fenomeni psicotici “non clinicamente significativi”? Che, come proposto dagli Autori, anche sintomi che il senso comune considera distribuiti in maniera discreta nella popolazione siano invece punti di una funzione continua? Oppure, pragmaticamente ma in modo pertinente, che un fattore non trascurabile di ciò che definisce la psicosi, anche a livello epidemiologico, è proprio venire a contatto con il sistema di cura? O, ancor meglio, che la diagnosi di un disturbo psicotico è attendibile (e non ci riferiamo qui al senso statistico, ovviamente, ma al fatto che un sintomo possa essere definito compiutamente come tale) solo all’interno di una relazione, questa sì, clinicamente significativa? In tale accezione il giudizio sulla significatività clinica appare cosa ben diversa di un semplice tentativo di innalzamento della soglia per porre diagnosi di disturbo, attraverso la valutazione del disagio complessivo del paziente, come sembrano intendere Spitzer e Wakefield in uno dei rari interventi sull’argomento (7). Gli Autori ritengono che, così interpretato, il criterio sul disagio clinicamente significativo risulti il più delle volte ridondante e non utile a ridurre il tasso di falsi positivi, tanto da chiedersi e proporre se esso non possa essere meglio sostituito da un innalzamento della soglia di disagio associato alle singole voci dei criteri sintomatologici e dall’aggiunta di un criterio che escluda le reazioni normali agli stress psicosociali. Oltre ad evitare una problematica atomizzazione e matematizzazione del disagio, che verrebbe smembrato in “quanti” di disagio associato a ciascun sintomo, sembra che proprio una concezione di più ampio respiro del giudizio clinico (giudizio capace anche di evolvere processualmente e progettualmente con la relazione) sia l’unica a consentire questa distinzione tra disturbo e reazione normale.

Se poi si prendono in considerazione strumenti sempre più incidenti nella nostra pratica quotidiana, le linee guida terapeutiche, ci sembra che la riflessione possa continuare seguendo il filo rosso del “clinicamente significativo”.

Principalmente sulla base di risultati di ricerche condotte utilizzando i criteri operazionalizzati è apparsa, infatti, una serie sempre più estesa di linee guida per la pratica (c), che dovrebbero guidare il medico a decidere, per gruppi di pazienti con la stessa diagnosi operazionalizzata, gli interventi terapeutici maggiormente basati sull’evidenza delle ricerche suddette. Benissimo: è stato più volte sottolineato che oggi il medico di famigli,a ma anche lo specialista, ben difficilmente hanno anche solo il tempo di tenersi aggiornati sui risultati della ricerca nel loro settore e, a questo scopo, le linee guida possono essere un utilissimo se non indispensabile strumento di riferimento. A patto di tenere conto che nelle linee guida l’area del “giudizio clinico” sull’unico e personalissimo modo in cui la sofferenza del nostro-paziente-della-pratica è vissuta, a noi comunicata e da noi percepita nella relazione terapeutica (sofferenza e relazione di sostegno da cui solo può partire una collaborazione per la guarigione, un cammino evolutivo ben diverso dai diagrammi di flusso), tende ad avere uno spazio assai ristretto.

Non stupisce, quindi, che anche programmi avanzati per l’educazione all’utilizzo di linee guida non abbiano portato a maggior successi nel riconoscimento e trattamento dei disturbi bersaglio. Un esempio significativo ci pare uno studio riportato in un numero di gennaio 2000 di Lancet (9). Di fronte agli esiti negativi di un esauriente progetto di ricerca avente come scopo l’educazione di medici di medicina generale al riconoscimento di disturbi depressivi e all’applicazione di una practice guideline stilata ad hoc, gli Autori concludono, tra l’altro, che è necessario ancora identificare le componenti, in termini di capacità e attitudine del medico e caratteristiche dei pazienti, che possano portare al successo questo tipo di interventi.

Nella discussione on-line seguita ad un editoriale di commento alla ricerca pubblicato sul British Medical Journal (10), una paziente con un linguaggio icastico esprime bene il suo punto di vista sulla possibile ragione del fallimento di questo ed altri esperimenti, sottolineando quanto sia difficile accettare di essere malati, ricevere una diagnosi di depressione, prendere farmaci con effetti collaterali. Elementi, questi ultimi, per niente specifici del disturbo depressivo, oggetto della practice guideline, ma attinenti al particolare rapporto del paziente con il suo disturbo, la diagnosi formulata e quello con il medico: elementi che con termini tecnici si definiscono consapevolezza di malattia, aderenza al trattamento e alleanza terapeutica che, certo, il medico dovrebbe avere il modo di valutare, “giudicare clinicamente” ed elaborare all’interno della relazione. Come sapere infatti a priori se per quel paziente che ho di fronte funzionerà meglio l’offerta di un modello esplicativo di malattia prettamente biologico (il famoso “squilibrio chimico”), uno più complesso di vulnerabilità/stress/coping o addirittura pratiche in apparenza anti-linee guida? Quanti, per fare un esempio della quotidianità, si sono trovati, per salvare l’alleanza terapeutica, ad attendere con sollecita preoccupazione il prevedibile scompenso di un paziente bipolare che rifiuta uno stabilizzante dell’umore per rendersi conto poi che per il paziente in questione sarà stata proprio la possibilità di aver vissuto insieme al suo terapeuta quell’esperienza di dissenso rispettoso e premuroso, dolorosa attesa e ricaduta, a convincerlo ad assumere il farmaco prima categoricamente rifiutato? Non riconoscere questi aspetti può portare a ricercare soluzioni “facili” e contraddittorie come, per riferirci ancora al forum di cui si diceva sopra, quella di proporre un cambiamento delle linee guida consigliando di utilizzare farmaci con meno effetti collaterali (ma anche i placebo ne hanno e, secondariamente, è proprio contro lo spirito delle linee guida affidarsi ai “consigli dell’esperto”, quando siano disponibili risultati di ricerche con grado di evidenza più elevato).

In un recente contributo Curci e Secchi (11) hanno richiamato l’attenzione sull'”atteggiamento psicoterapico” quale categoria fondante la prassi clinica in medicina e psichiatria. Atteggiamento psicoterapico come attitudine e condizione attiva che il medico e, soprattutto, lo psichiatra sono chiamati a mettere in atto nell’incontro con il paziente sin dal momento diagnostico per essere in grado, da una parte, di entrare in sintonia con la storia della sofferenza personale del paziente nella prospettiva collaborativa del sostegno e della cura e, dall’altra, di poter attingere a tutto il proprio patrimonio umano e professionale (a cui appartengono anche gli strumenti diagnostici operazionalizzati e le linee guida terapeutiche) per conseguire questo obiettivo. È all’interno della relazione terapeutica imperniata sull’atteggiamento psicoterapico che il disagio può essere riconosciuto come clinicamente significativo: cioè, capace non solo di dare all'”etichetta” il significato di diagnosi, ma anche di impegnare il diagnosta in un ruolo di clinico, finalizzato alla cura con quel preciso paziente.

Ritorna con evidenza, per quanto concerne l’operare clinico, il presupposto della centralità della relazione medico-paziente, nonché la necessità di un confronto a tutto campo fra la filosofia degli strumenti operazionalizzati e delle linee guida standardizzate, da un lato, e prassi clinica, dall’altro, nella prospettiva anche della formazione medica e specialistica. E perché il confronto non rimanga scontro sterile bisognerà che interlocutori a volte distanti e isolati nei loro ambiti operativi accettino di incontrarsi in un dialogo. Difatti, un dialogo così delineato configurerebbe proprio un discorso sul giudizio clinico, i principi e i modi del medico di pensare i problemi e le scelte nella relazione col paziente: una riflessione che trascende tanto le descrizioni operazionalizzate e le linee guida, tanto la singolarità di ogni relazione clinica, capace, tuttavia, di riverberarsi su entrambi i livelli, individuando forse così quel “ponte tra terreno neutro e avalutativo della scienza e quello ermeneutico e relazionale della pratica clinica” di cui parla Vineis (12).

Corrispondenza: prof. Paolo Curci, Dipartimento di Patologia Neuropsicosensoriale, Sezione di Psichiatria, Università di Modena e Reggio Emilia, via del Pozzo 71, 41100 Modena – Tel. 059 422361.


(a) Per descrizione operazionalizzata dei criteri si intende non soltanto una loro definizione il più possibile semplificata e non ambigua, ma anche il riferimento ad uno specifico percorso operativo (la testing operation secondo Hempel 2: nel nostro caso le specifiche domande da porre durante l’intervista clinica o un più o meno rigido algoritmo di un intervista strutturata), per arrivare a decidere univocamente se, in quel particolare caso, il criterio sia soddisfatto o no. Questo metodo ridurrebbe la variabilità dovuta alla discrezionalità e all’influenza del giudizio soggettivo nel prendere questa decisione, aumentando così la reliability in senso statistico della conclusione; tuttavia, esso non appare esente da obiezioni, a partire dal livello epistemologico. Anche limitandosi all’operazionalizzazione dei criteri sintomatologici dei disturbi, alcuni, che molti psichiatri continuano a giudicare come pregnanti (quale la bizzaria dei deliri o la qualità particolare dell’umore depresso nella melanconia), per motivi diversi si prestano male e sembrano venire arbitrariamente definiti e/o impoveriti di significato nel tentativo di una loro riduzione operativa.

(b) La somma è maggiore del totale per la presenza di soggetti con più tipi di sintomi.

(c) L’Institute of Medicine americano definisce le clinical practice guidelines come “insieme di affermazioni ricavate sistematicamente per orientare le decisioni del medico e del paziente circa il trattamento più appropriato di specifiche condizioni cliniche” 8. “Ricavate sistematicamente” implicherebbe, tra l’altro, un rigoroso processo – tuttavia variamente seguito per le diverse guidelines pubblicate – di meta-analisi degli studi clinici disponibili circa un determinato trattamento e la distinzione di diversi gradi di evidenza delle raccomandazioni secondo i vari gradi di rigore metodologico delle fonti.

1 Tasman A. Presidential address: the doctor-patient relationship. Am J Psychiatry 2000;157:1762-8.

2 Hempel CG. Fundamentals of taxonomy. In: Sadler JZ, Wiggins OP, Schwartz MA, eds. Philosophical perspectives on psychiatric diagnostic classification. Baltimore and London: The John Hopkins University Press 1994:319.

3 American Psychiatric Association. Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders. Fourth edition, DSM-IV. Washington D.C.: A.P.A. 1994.

4 van Os J, Hanssen M., Bijl Rv, Ravelli A. Strauss (1969) revisited: a psychosis continuum in the general population? Schizophr Res 2000;45:11-20.

5 World Health Organization. Composite International Diagnostic Interview (CIDI). Version 1.0. Geneva, W.H.O. 1999.

6 Spitzer RL, Williams JB, Gibbon M, First MB. The Structured Clinical Interview for DSM-III-R (SCID). I: History, rationale, and description. Arch Gen Psychiatry 1992;49:624-9.

7 Spitzer RL, Wakefield JC DSM-IV diagnostic criterion for clinical significance: does it help solve the false positive problem? Am J Psychiatry 1999;156:1856-64.

8 Committee to Advise the Public Health Service on Clinical Practice Guidelines (Institute of Medicine). Clinical Practice Guidelines: directions for a new program. Washington DC: National Academy Press 1990:38.

9 Thompson C, Kinmonth AL, Stevens L, Peveler RC, Stevens A, Ostler KJ, et al. Effects of a clinical-practice guideline and practice-based education on detection and outcome of depression in primary care: Hampshire Depression Project randomised controlled trial. Lancet 2000;355:185-91.

10 Kendrick T. Why can�t GPs follow guidelines on depression? Br Med J 2000;320:200-1. Discussione on-line consultabile al sito: www.bmj.com/cgi/eletters/320/7229/200#EL5

11 Curci P, Secchi C. L�atteggiamento psicoterapico: un fondamento per la diagnosi nella pratica psichiatrica. Nóos 2000;6:239-56.

12 Vineis P Prevenzione, modelli culturali e linee-guida. Nuova Civiltà delle Macchine 1995;XIII:141-6.