Editoriale

P. Pancheri

III Clinica Psichiatrica, Università di Roma "La Sapienza"

Il tema del X Congresso della Società Italiana di Psicopatologia vuole rappresentare un momento di riflessione sulla situazione attuale della psichiatria.

Vi sono momenti infatti nella storia di ogni disciplina, in cui si sente la necessità di porre alcune domande. Ciò vale soprattutto quando vi è un apparente aumento delle conoscenze ma un parallelo incremento dei problemi ad esse correlato. Questo è il caso delle discipline psichiatriche. Nel caso della psichiatria la necessità di fare il punto è resa ancora più impellente dalla sua stretta dipendenza con i mutamenti economici e sociali che caratterizzano alcuni periodi storici, come quello che stiamo attraversando.

Globalizzazione della produzione e dei consumi, aumento diffuso e incontrollato dell’accesso all’informazione, invasività dei mezzi di comunicazione di massa, competitività spinta ed emarginazione ad essa correlata, crisi profonda delle ideologie, mutamento dei ruoli di genere, e degli equilibri familiari, percezione diffusa di un aumento della violenza, sono solo alcune delle variabili che caratterizzano questo momento di passaggio delle società occidentali. La psichiatria non può non esserne influenzata.

Vi è stato in questi anni un aumento crescente di richiesta di aiuto psichiatrico da parte della popolazione generale. Sono aumentate le diagnosi, soprattutto di disturbi d’ansia e di disturbi dell’umore, è aumentata drammaticamente la prescrizione di farmaci, si sono moltiplicate le richieste di psicoterapia.

Sorge il quesito se sia di fatto aumentata la patologia psichiatrica come conseguenza dell’aumento di insicurezza di un mondo in critica trasformazione o se ciò non sia piuttosto una conseguenza della migliore informazione psichiatrica delle popolazioni occidentali che spinge a chiedere un supporto psichiatrico anche quando esso non è strettamente necessario.

È lecito porsi a questo punto un interrogativo su ciò che viene da tempo definito come patologiasubsindromica” o patologia “sottosoglia”.

La nosografia categoriale, che ha raggiunto la sua massima espressione contemporanea con il DSM-IV, ha tentato di porre dei confini tra normalità e patologia attraverso criteri diagnostici operativi. Il criterio, comune a tutti i disturbi del DSM-IV, dell’alterato funzionamento è paradigmatico a questo proposito.

Nella richiesta di aiuto psichiatrico vi è tuttavia un crescente numero di casi dove la sintomatologia non risponde ai criteri minimi richiesti per una diagnosi categoriale secondo i criteri operativi richiesti dal DSM o dove il quadro clinico non permette un inquadramento diagnostico preciso. Nasce così il concetto di “disturbo sottosoglia” che ripropone il limite tra patologia e normalità e, di conseguenza, la necessità/opportunità di cura verso il non intervento. L’ovvio rischio è quello di una “psichiatrizzazione” generalizzata di tutta la popolazione e un proliferare senza limiti di interventi farmacologici o psicoterapeutici non necessari.

In medicina il confine tra patologia e normalità è basato su criteri biologici obiettivabili. In psichiatria i dati relativi ai correlati patofisiologici cerebrali dei disturbi psichiatrici sono in costante aumento ma non sono ancora sufficienti per una nuova nosografia categoriale. Non a caso la pubblicazione del DSM-V sarà probabilmente ritardata a oltre il 2010 nell’attesa di poter inserire, tra i criteri diagnostici, dati certi relativi alla genetica e alla patofisiologia cerebrale correlabili a cluster sintomatologici specifici.

La genetica è il campo della biologia dove si sono osservati i maggiori progressi scientifici negli ultimi anni. Ci si può chiedere quale sia il suo contributo attuale alla migliore conoscenza dei disturbi psichiatrici.

Dopo i classici studi sulla co-aggregazione familiare di numerosi disturbi psichiatrici che avevano suggerito una possibile componente genetica nella loro eziopatogenesi, a partire dagli anni ’80 l’interesse dei ricercatori si è spostato a livello della genetica molecolare. In una prospettiva teorica la possibilità di collegare particolari quadri sindromici a specifiche costellazioni geniche potrebbe rappresentare una delle basi per una nuova nosografia psichiatrica “obiettiva”.

Lo studio del poliformismo del DNA ha suggerito collegamenti tra schizofrenia e numerose ragioni cromosomiche indicando una serie di “geni candidati”. Dati analoghi sono stati riportati per il disturbo bipolare, per il disturbo da panico, per il DOC, per l’alcolismo e per altri disturbi.

Tuttavia le associazioni tra fenotipi categoriali e geni candidati sono in genere piuttosto deboli e i dati pubblicati nella grande maggioranza dei casi non sono stati replicati in studi successivi.

Il problema centrale della genetica psichiatrica va visto alla luce dell’evidente inadeguatezza dei fenotipi categoriali utilizzati per questo tipo di analisi. Le attuali categorie includono infatti casi molto eterogenei dal punto di vista sia etiopatogenetico che sintomatologico. Di conseguenza è altamente improbabile che una genetica basata sulle attuali categorie nosografiche possa dare in futuro elementi utili per la clinica.

Radicalmente differente è l’approccio della genetica basato sugli studi di collegamento tra geni candidati e i componenti principali della patologia psichiatrica. Gli studi condotti con analisi statistiche multivariate su ampi gruppi di pazienti hanno permesso di rilevare una serie di componenti principali che sottendono al quadro sintomatologico (dimensioni psicopatologiche) che possono rappresentare i nuovi fenotipi comportamentali (esofenotipi) meglio correlabili con i dati della genetica molecolare. Molti studi sono in corso in questo settore.

Un altro approccio attuale è dato dagli studi sul collegamento tra costellazioni geniche e dati biologici specifici che sottendono a sottotipi diagnostici categoriali o che possono sottendere a più raggruppamenti sindromici (endofenotipi e fenotipi intermedi).

È evidente che questi nuovi approcci della genetica psichiatrica sono destinati ad avere profondi influssi sulla clinica. La scoperta di un significativo rapporto tra componenti principali della psicopatologia (dimensioni psicopatologiche), correlati biologici cerebrali e costellazioni specifiche di geni candidati potrà porre le basi per una terapia più mirata soprattutto a livello farmacologico.

Allo stato attuale e nell’ambito della diagnostica categoriale dominante, va detto che la genetica molecolare ha dato solo modesti contributi rispetto a quanto già noto da tempo dagli studi familiari, gemellari e di adozione.

Qualche prospettiva si sta aprendo nel settore della farmacogenomica psichiatrica, soprattutto per le possibilità di intervento nella “resistenza al trattamento”.

La “resistenza al trattamento” è stata ed è oggetto di innumerevoli studi che hanno analizzato tutte le possibili componenti di questo fenomeno di comune osservazione clinica. La resistenza al trattamento varia, nella depressione tra il 20 e il 40%, nella schizofrenia tra il 50 e il 70% in rapporto ai criteri usati per definirla.

Il trattamento della “farmacoresistenza” si è basato fino ad oggi su criteri strettamente empirici basati su tentativi ed errori senza un coerente modello guida di tipo scientifico. Al di là di determinanti contingenti e facilmente controllabili come la diagnosi errata e la mancata anamnesi farmacologica, il punto centrale del problema è rappresentato dal polimorfismo genico che controlla sia la farmacodinamica che la farmacocinetica dei farmaci utilizzati in psichiatria.

Per molto tempo questo problema è stato considerato di difficile soluzione, ma del tutto recentemente è stata proposta una prima soluzione pratica, limitata per ora alla identificazione del poliformismo genetico che controlla il metabolismo dei principali farmaci di uso psichiatrico. La disponibilità di indagini genetiche relativamente rapide permette già oggi di dare indicazioni in merito alla velocità di metabolizzazione, e quindi dei dosaggi minimi terapeutici.

Un settore in rapida espansione ma ancora in una fase critica per quanto riguarda la sua ricaduta clinica è quello della patofisiologia cerebrale.

La possibilità di correlare quadri sintomatologici con alterazioni morfologiche o funzionali del cervello specifiche potrebbe sembrare la via maestra per passare dall’universo delle sindromi a quello delle malattie.

È un dato di fatto che chiunque voglia acquisire una aggiornata conoscenza sullo stato dell’arte, sia pure in ambito settoriale, della patofisiologia dei “disturbi psichiatrici” si trova di fronte ad una miriade di dati parcellari di difficile interpretazione e di ancora più complessa integrazione. Ancora più problematica è poi la ricaduta di queste conoscenze a livello clinico.

L’aumento esponenziale dei dati disponibili sui possibili correlati tra biologia cerebrale e disturbi psichiatrici che caratterizza lo stato attuale della ricerca “biologica” in psichiatria va visto in una duplice prospettiva.

Non vi è dubbio che i progressi negli strumenti e nella metodologia di indagine abbiano aumentato le conoscenze in questa area. Le indagini morfologiche, le variazioni metaboliche regionali in varie condizioni di stimolo, la misura delle alterazioni della composizione molecolare di varie aree cerebrali, i test di stimolo neuroendocrino e farmacologico hanno permesso una esplorazione del cervello vivente in varie condizioni normali e patologiche. Tecniche e metodologie perfezionate hanno contributo negli studi post-mortem a dare informazioni più precise sulle alterazioni neuronali e recettoriali in varie condizioni di patologia. Gli studi sugli animali hanno contribuito a gettare luce sui meccanismi di plasticità cerebrale che caratterizzano alcune condizioni patologiche e la loro terapia.

Va tuttavia detto che la massa crescente di dati disponibili rende sempre più difficile la messa a punto di modelli unitari della patofisiologia cerebrale e fa sorgere nuovi problemi sia al ricercatore che al clinico.

Il primo problema riguarda la relativa aspecificità dei dati raccolti con nuove tecniche disponibili. Nei confronti tra soggetti affetti da una patologia categoriale (ad esempio la schizofrenia) con controlli sani i dati, anche se statisticamente significativi, mostrano un’ampia area di sovrapposizione tra i due gruppi. Non solo ma i dati biologici considerati in un primo tempo come “caratteristici” di una patologia categoriale vengono in studi successivi riscontrati anche in altre patologie.

Il secondo problema è la carenza di dati relativi non tanto ai correlati biologici delle sindromi categoriali, quanto delle componenti principali latenti (dimensioni) della psicopatologia. In questa prospettiva, con più immediati riflessi a livello terapeutico, i risultati per ora parcellari e a volte contraddittori della ricerca biologica in psichiatria possono assumere un ben diverso significato. I lavori sui correlati biologici delle dimensioni transnosografiche sono ancora relativamente pochi. Contribuisce a questa carenza la politica scientifico-editoriale delle principali riviste scientifiche del settore che favorisce la pubblicazione dei lavori dove i correlati biologici sono cercati nell’ambito dei singoli disturbi categoriali e non nel campo certamente più fecondo ma meno definito dell’ottica dimensionale.

Il terzo problema dell’attuale psichiatria biologica è che oggetto quasi esclusivo del suo studio è ciò che possiamo definire come “hardware” cerebrale. Viene per ora trascurato il fatto che il cervello è essenzialmente un organo informatico dove l’hardware (neuroni, recettori, connessioni, modalità di trasmissione sinaptica, meccanismi postsinaptici di trascrizione del segnale e trascrizione genica) sono solo la base fisica di supporto per complessi programmi di elaborazione dell’informazione. È considerazione ovvia che nessuna macchina informatica può essere compresa nel suo funzionamento se non vengono analizzate le complesse interazioni tra hardware e software.

Una posizione particolare, tra le tecniche di esplorazione del cervello è quella della visualizzazione cerebrale.

Le indagini morfologiche (RMN) e funzionali (fRMN, PET, SPECT) ormai da tempo hanno un peso rilevante nelle riviste psichiatriche a massimo impact factor. Le ricostruzioni digitali a tre dimensioni morfologiche e funzionali sia in condizioni normali e patologiche sono di grande e spettacolare impatto visivo e sembrano aprire una finestra piena di luce sulla famosa “scatola nera” del cervello. Più recentemente, la trattografia in vivo ha permesso di visualizzare i fasci nervosi di connessione cerebrale sia nella normalità che nella clinica mentre la risonanza magnetica spettroscopica a protoni (1H-MRS) ha dato modo di “visualizzare” la composizione chimica del cervello a livello molecolare.

Non vi è dubbio che le tecniche di brain imaging in vivo abbiano dato un contributo sostanziale alla conoscenza della patofisiologia cerebrale, ma molti problemi restano aperti. Il primo problema è quello della risoluzione temporale delle tecniche di visualizzazione funzionale. Il secondo problema è quello degli artefatti connessi alla elaborazione statistica nella ricostruzione visuale dei dati. Ma il terzo e più importante problema non è tanto quello della loro validità a livello di ricerca quanto quello della loro concreta utilità nella pratica clinica psichiatrica. Mentre l’indagine morfologica (RM) è alla portata di molti centri clinici attrezzati, lo stesso non si può dire per le indagini funzionali più semplici (fRMN, SPECT) mentre, completamente al di fuori delle possibilità della normale prassi clinica, sono le indagini complesse come la PET, la trattografia e la 1H-MRS.

Al di là comunque della loro concreta fattibilità ci si può chiedere quanto la clinica possa oggi giovarsi di questi dati sul piano operativo. I dati del brain imaging in psichiatria non sono per ora patognomonici per nessun disturbo psichiatrico e non possono essere associati in modo bi-univoco a nessuna patologia psichiatrica categoriale. Le indicazioni in quest’area sono infatti per ora solo “probabilistiche” e a livello dei singoli casi vi può essere un elevato numero sia di falsi positivi che di falsi negativi. Lo studio morfologico e funzionale del cervello è possibile che possa dare risultati più promettenti in futuro ma solo quando verranno esplorati i correlati morfologici e funzionali di fenotipi non più categoriali ma dimensionali.

Sia gli studi di genetica che quelli di biologia cerebrale vedono quindi sempre più i loro limiti in una psichiatria basata su fenotipi categoriali sindromici relativamente stabili e non più adeguati all’inquadramento di una “psicopatologia che cambia” o che necessita comunque di una diversa sistematizzazione.

La nosografia psichiatrica attuale, costruita per analogia alla nosografia medica, ha le sua massima espressione contemporanea nel DSM-IV. A differenza della nosografia medica, basata su dati biologici obiettivi (anatomia patologica, patofisiologia organica e funzionale) la nosografia psichiatrica tuttavia ha dovuto costruire le su entità cliniche su base sindromica (covarianza di sintomi di stato e di decorso).

Non vi è dubbio che una nosografia basata su categorie sindromiche validate empiricamente, come nel caso del DSM-IV abbia facilitato il clinico a livello della comunicazione, della standardizzazione della diagnosi, dell’epidemiologia e della metodologia clinica. Tuttavia la classificazione categoriale ha mostrato i suoi limiti sia a livello della terapia che della ricerca dei correlati patofisiologico cerebrali dei quadri clinici psicopatologici. Il moltiplicarsi delle categorie ha reso sempre più difficile l’associazione di terapie specifiche a singole diagnosi categoriali soprattutto nelle molte diagnosi in co-morbidità mentre, a livello di ricerca, molti fenotipi categoriali sono risultati troppi eterogenei per ottenere risultati significativi a livello di indagine biologica.

L’approccio definito come “dimensionale” ha tentato di dare una soluzione sia conoscitiva che pratica al problema.

L’applicazione di tecniche di analisi statistica multivariata, in particolare di analisi fattoriale a gruppi di pazienti valutati con scale psicometriche ha permesso di identificare una serie di componenti principali indipendenti che possono essere presenti con peso diverso in ogni caso clinico, a prescindere dal suo inquadramento “categoriale”. Queste componenti principali possono essere identificate come “dimensioni psicopatologiche”, hanno un carattere “transnosografico”, sono meglio correlabili a variabili patofisiologiche specifiche e sono un più immediato obiettivo terapeutico. Oltre 50 lavori a tutt’oggi sono disponibili sull’analisi dimensionale per componenti principali di psicopatologia e il loro numero è in continuo aumento.

Alcune dimensioni psicopatologiche sono state derivate dall’analisi fattoriale su gruppi di pazienti inquadrati con diagnosi categoriali specifiche. Trasformazione della realtà, disorganizzazione cognitiva e impoverimento ideoaffettivo ne sono gli esempi più valicati e confermati. Queste dimensioni sono state rilevate, in varia misura, anche in altri gruppi diagnostici. Altre dimensioni sono state identificate esplorando varie popolazioni di pazienti e riscontrandone la presenza con carattere “transnosografico”. Aggressività, somatizzazione, ansia, ne sono alcuni esempi confermati.

Le dimensioni hanno dimostrato di poter essere correlate con la patofisiologia cerebrale con maggiore attendibilità rispetto ai costrutti categoriali e di poter essere un più preciso obiettivo terapeutico.

Il limite attuale dell’approccio dimensionale è dato tuttavia dal fatto che le dimensioni identificate su base statistica sono condizionate dagli strumenti di misura (scale di valutazione) utilizzate nella descrizione clinica dei casi.

Strettamente correlato al problema nosografico è quello degli interventi farmacologici.

La psicofarmacologia ha fatto solo modesti progressi, nonostante le apparenze, nel suo mezzo secolo di storia. Sono oggi disponibili oltre 100 molecole autorizzate al commercio per la cura dei disturbi psichiatrici ma tutte appaiono semplici varianti migliorative dei 3 farmaci fondamentali scoperti tra gli anni ’50 e ’60 che hanno mutato la terapia psichiatrica: cloropromazina, imipramina e clordiazepossido.

I meccanismi di azione sono fondamentalmente gli stessi nell’ambito dei tre gruppi farmacologici, sia per i farmaci capostipite che per quelli delle generazioni successive. Sul piano farmacodinamico non vi è infatti nulla di realmente nuovo rispetto all’antagonismo recettoriale DA, all’agonismo recettoriale GABA e al blocco dei trasportatori 5HT, NA e DA.

Anche l’efficacia terapeutica ha mostrato solo modesti progressi con i farmaci più recenti, rispetto al gruppo storico del decennio 50-60.

È certamente migliorata progressivamente, con nuovi farmaci la tollerabilità e la sicurezza con conseguente maggiore aderenza ai trattamenti, è mutato almeno in parte lo spettro delle indicazioni delle singole molecole, sono divenute più precise e codificate le procedure terapeutiche ed è certamente aumentato il numero di pazienti che accedono ai trattamenti farmacologici ma, sul piano dell’efficacia, non vi è stata nessuna rivoluzione paragonabile a quella degli anni ’50.

D’altra parte, il panorama dei farmaci di prossima autorizzazione al commercio non si presenta con reali novità rispetto a quanto è oggi a disposizione del clinico.

Alcuni agonisti parziali della dopamina per la terapia della schizofrenia, alcuni nuovi stabilizzatori, alcune molecole specifiche per l’ADHD e alcuni farmaci con buone prospettive nella terapia dell’Alzheimer appaiono come moderati progressi rispetto ai farmaci precedenti. L’attesa di nuovi farmaci ad azione mirata molecolare sui meccanismi di trascrizione genica è destinata a protrarsi nel tempo.

Per ora l’unico possibile progresso è dato dall’utilizzazione dei farmaci attuali nell’ambito di un approccio non soltanto strettamente “categoriale” e codificata da procedure derivate dai dati disponibili. Anche la classificazione dei farmaci psicoattivi o, basata sulle tradizionali categorie (antipsicotici, antidepressivi, antiansia e stabilizzatori) è destinata a passare ad un inquadramento basato sui sistemi recettoriali di primo impatto, più consona all’approccio dimensionale alla psicopatologia.

Un problema aperto è quello dell’utilizzazione di farmaci psicoattivi in età infantile.

Il punto centrale è l’assenza nella scheda tecnica di quasi tutte le molecole disponibili di indicazioni specifiche relative all’età dello sviluppo. Ne consegue che i farmaci, autorizzati all’uso nell’adulto vengono quasi sempre prescritti “off label” nei bambini. La mancanza di indicazioni pediatriche è, a sua volta, dovuta alla carenza di studi controllati (con alcune eccezioni come l’uso degli psicostimolanti nell’ADHD) difficili da realizzare in soggetti in età infantile per le giuste limitazioni poste dai comitati etici.

D’altra parte, va preso atto che esiste una letteratura scientifica assai ampia sull’argomento, che vengono pubblicate riviste scientifiche dedicate a questo tema e che, soprattutto, la richiesta di interventi efficaci per i disturbi in età evolutiva è andata assumendo un importanza sempre maggiore. Va osservato a questo proposito che non vi è mai stata, ne vi è, alcuna discussione in merito al trattamento farmacologico dei disturbi somatici nei bambini, anche quando si tratta, come nel caso dell’epilessia, di malattie al limite tra neurologia e psichiatria.

Non vi è motivo di ritenere che, per la terapia di questi disturbi, non valgano le stesse regole valide per la terapia dei disturbi dell’adulto. Come per qualunque disturbo psichiatrico, l’intervento è sempre una scelta ragionata tra farmacoterapia, terapie non biologiche e la decisione di non procedere ad alcun trattamento specialistico. I farmaci, in rapporto alla diagnosi, e alle caratteristiche del quadro clinico possono essere a seconda dei casi necessari, utili, superflui o dannosi. Ciò vale evidentemente per tutte le età della vita.

Sia il problema dei confini tra normalità e patologia che quello dell’inquadramento categoriale vs dimensionale della psicopatologia hanno una evidente ricaduta sia sulla diagnosi precoce che sulla prevenzione dei disturbi psichiatrici.

La prevenzione è uno dei cardini della medicina contemporanea da molto tempo, ma solo in tempi recenti ha coinvolto operativamente anche la psichiatria. Oggi l’attenzione dei clinici è sempre più centrata sui sintomi prodromici in soggetti ad alto rischio di ammalare ma in cui non sia ancora possibile effettuare una diagnosi. Un esempio è dato dalla schizofrenia, dove sono stati perfezionati sempre più i criteri predittivi per l’insorgenza della malattia. Alto rischio (High Risk), rischio molto alto (Very High Risk) vengono operativamente definiti sulla base del carico genetico e di alcuni sintomi prodromici. Gli strumenti attuali hanno una predittività nei confronti dell’insorgenza del primo episodio pari al 60-70%, con una tendenza alla riduzione progressiva dei falsi positivi. Analoghe considerazioni possono essere fatte a proposito dell’Alzheimer, del disturbo bipolare e di altri disturbi psichiatrici.

Sorge evidentemente il problema del trattamento dei soggetti ad alto rischio o in fase prodromica, prima che si manifestino i sintomi caratteristici che permettono di fare la diagnosi categoriale. Varie linee di evidenza clinico sperimentale (studi controllati) hanno dimostrato nel caso della schizofrenia che il trattamento, sia farmacologico che non biologico, in fase prodromica ad alto rischio può prevenire o comunque ritardare la comparsa dei primi episodi conclamati. D’altra parte vi è la possibilità, in una minoranza dei casi a rischio di effettuare un intervento inutile o potenzialmente dannoso data la necessità di protrarre a lungo il trattamento. La terapia preventiva della schizofrenia ha dimostrato la sua efficacia utilizzando bassi dosaggi di farmaci antagonisti 5HT2 > D2. Sono anche in corso numerosi programmi di intervento psicologico e psicosociale sui soggetti ad alto rischio di malattia. È evidente che la disponibilità crescente di markers biologici in fase prodromica potrà progressivamente ridurre la percentuale dei falsi negativi. Già oggi sono stati identificati alcuni markers presenti sia in fase prodromica che nella malattia conclamata.

Anche la psicoterapia sembra essere oggi giunta ad un punto cruciale della sua evoluzione storica. Oggi il termine tende a perdere la sua originale specificità e ad assumere il significato generico di intervento terapeutico “non biologico”. Si moltiplicano gli interventi non sostenuti dalla necessaria sequenza logica di ogni terapia: modello teorico basato sulla clinica Û tecnica specifica di intervento derivata dal modello Û valutazione dei risultati Û correzione o conferma del modello.

Molti soggetti con “patologia subsindromica” o con assenza di una reale psicopatologia ma con un semplice “disagio psichico” in parte determinato dalla rapida trasformazione della società attuale possono chiedere un ausilio psicoterapeutico spinti da alcune illusioni.

La prima illusione è che un intervento basato sulla parola e sulla comunicazione sia solo per questo un ausilio efficace ai problemi che affliggono ogni individuo. La seconda illusione è che una psicoterapia sia comunque efficace e mai dannosa al paziente benché evidenza ed esperienza non diano alcun supporto a questa aspettativa. La terza illusione è che, quando un intervento terapeutico è realmente necessario la psicoterapia sia l’unico intervento possibile ed efficace.

Queste illusioni determinano un aumento improprio della richiesta psicoterapeutica con relativo peso economico sia a livello del singolo che della comunità.

La psicoterapia sta oggi prendendo coscienza di questo dato di fatto e sempre più opera per definire, nell’ambito di ogni tecnica le indicazioni e le controindicazioni, i limiti dell’intervento e i suoi possibili effetti iatrogeni. Vi è inoltre una crescente attenzione per la valutazione degli esiti terapeutici e per l’integrazione, associata o sequenziale, con interventi farmacologici.

Sta crescendo l’interesse per i correlati biologici degli interventi psicoterapeutici con il superamento progressivo della storica e ingiustificata dicotomia tra “psichiatria biologica” e “psichiatria psicologica”. Paradossalmente, sono proprio le neuroscienze che hanno dato la base per questo superamento. Gli interventi “non biologici” hanno inevitabili (e dimostrati) correlati a livello della biologia cerebrale, fino a modificazioni della trascrizione genica analoghe a quello indotte da interventi di tipo farmacologico.

Manca ancora l’integrazione tra modelli biologici e modelli psicologici di intervento. Ciò si riflette su modalità ancora tra loro distanti di descrizione e di inquadramento psicopatologico.

Nell’ambito dei mutamenti che caratterizzano la psichiatria ci si può porre un quesito finale: cambia la psichiatria o cambiano gli psichiatri?

Certamente, una disciplina costruisce i suoi fondamenti, la sua struttura e le sue regole sulla base degli individui che la studiano e la praticano. Ma gli studiosi di una disciplina sono influenzati dal contesto storico e culturale di cui sono parte integrante e di conseguenza condizionano il modo di descriverla e di sistematizzarla.

Il culto della standardizzazione delle procedure e delle misure che permea la cultura del nostro tempo ha portato ad una diversa modalità di descrizione e di valutazione dei fenomeni psicopatologici rispetto al passato, quando l’inquadramento di un paziente si basava sulla psicopatologia descrittiva, sulla fenomenologia e sulla psicodinamica. Lo psichiatra clinico oggi tende sempre più a classificare, a semplificare la descrizione per fini operativi, a privilegiare la misura rispetto all’interpretazione. Ciò comporta una diversa prospettiva di analisi e di valutazione da parte dello psichiatra che, nei suoi aspetti positivi e negativi, influenza il modo di intendere la psichiatria.

L’ideologia della “medicina basata sull’evidenza” ha portato, anche in psichiatria a considerare solo ciò che emerge da studi condotti su gruppi di pazienti valutati con metodologie controllate sempre più sofisticate e complesse, ponendo in secondo piano l’analisi della complessità del caso singolo a favore del dato statistico. Sindromi psichiatriche descritte in passato con il nome di chi le aveva descritte o con nomi suggestivi da lui creati sembra non esistano più mentre nascono nuove categorie diagnostiche certamente più “operative” ma certamente meno descrittive. Pochi sanno cosa sia una sindrome di Munchausen, una sindrome di Fregoli, una sindrome di Briquet, ma tutti pensano che esista la sindrome da mobbing o la sindrome da stalking, quadri clinici che esistono da sempre ma ora sulla spinta del contesto socioculturale attuale tendono ad assumere dignità di disturbi psichiatrici.

In tempi storici ormai dimenticati l’interpretazione dei disturbi psichiatrici era profondamente permeata dalla ideologia religiosa dominante. Oggi la psichiatria si definisce laica e le variabili interagenti definite come “spiritualità” o “religiosità” non vengono prese in considerazione né nella diagnosi né nella terapia. Ma è certamente lecito chiedersi quanto la regola implicita che impone allo psichiatra nel suo operare un atteggiamento laico nei confronti di qualsiasi ideologia non influenzi in realtà il modo di far diagnosi e di effettuare terapie.

Per molto tempo quando il culto dell’individualità dominava sulla sensibilità sociale il termine assistenza psichiatrica significava essenzialmente carità, beneficenza, atteggiamenti compassionevoli e comprensivi di singoli. Erano i tempi in cui gli psichiatri avevano coniato i termini di “cronicità”, di “deterioramento”, di “follia morale” che riflettevano il modo di sentire collettivo di una società che aveva fatto dello stigma e dell’esclusione dei diversi il suo motto e la sua bandiera.

Oggi il termine assistenza psichiatrica, nel contesto della cultura occidentale ha assunto altri significati. Riabilitazione, recupero, reinserimento sociale sono i termini più attuali e i nuovi obiettivi. Non solo ma il concetto di assistenza si è allargato a comprendere la disponibilità di servizi psichiatrici efficienti ed economici per tutta la popolazione. In questo mutamento di prospettiva assume una minore importanza la particolare competenza o capacità clinica del singolo operatore di fronte alla organizzazione, all’efficienza e alla pronta disponibilità di intervento psichiatrico da parte delle aziende ospedaliere. Il ruolo manageriale dello psichiatra che opera nei servizi comporta ovviamente una diversa modalità di intendere la psichiatria, più spostata sulla comunità che sul singolo e più centrata sulla soluzione di problemi che non sulla psicopatologia e sulla clinica.

Anche in questo caso, è cambiata la patologia, sono cambiati gli psichiatri o è cambiato il contesto socioculturale in cui questi si trovano ad operare?

Il X Congresso della Società Italiana di Psicopatologia rappresenta, come sempre, un punto di incontro per tutti gli psichiatri. Certamente non vi saranno risposte definitive ed univoche ai molti problemi di una “psichiatria che cambia” ma le presentazioni scientifiche e la discussione di questi temi potrà aiutare tutti a fare il punto della nostra disciplina.