Eterogeneità dei farmaci antidepressivi: venlafaxina vs SSRIs. La metanalisi come strumento discriminante

Antidepressants heterogeneity: venlafaxine vs SSRIs through the lens of the metanalysis

M. Mauri, M. Miniati

Dipartimento di Psichiatria, Neurologia, Farmacologia, Biotecnologie, Universit� di Pisa

Key words: Venlafaxine • Metanalisys

Correspondence: Mauro Mauri, M.D., D.P.N.F.B. Universit� di Pisa, via Roma, 67, 56123 Pisa, Italy

Introduzione

La clinica dei disturbi dell’umore ha subito, nell’ultimo decennio, una progressiva evoluzione. La procedura diagnostica � stata affinata grazie all’applicazione di due modelli operativi: la �comorbidit� e lo �spettro�. La comorbidit� � da considerare la regola, piuttosto che l’eccezione, quando si parla di disturbi dell’umore: sia gli studi epidemiologici che gli studi clinici hanno dimostrato elevati tassi di comorbidit� lifetime e cross-sectional tra disturbi dell’umore e disturbi d’ansia, abuso di alcool o sostanze in particolare. Pi� recentemente, il modello di spettro dell’umore, ridefinito e modificato dalle osservazioni di Akiskal et al. (1) e di Cassano et al. (2) (3) ha consentito di inquadrare in modo pi� esteso la complessa fenomenologia dei disturbi dell’umore e di considerare in una nuova luce il ruolo delle manifestazioni sottosoglia, attenuate o atipiche che costituiscono l’alone di ogni singola categoria diagnostica (4).

I modelli di comorbidit� e di spettro hanno fornito la spinta per promuovere una migliore definizione della fenomenica, della risposta al trattamento e delle �outcome measures� dei disturbi dell’umore. In quest’ultimo campo, tuttavia, il processo evolutivo non � stato altrettanto rapido. Se � vero che l’attenzione dei clinici si � progressivamente spostata dalla cura del singolo episodio al trattamento delle ricadute, dalla risoluzione delle forme a piena espressione sintomatologica al trattamento delle forme residue, attenuate o sottosoglia, � altres� vero che la misura dell’efficacia di un trattamento si basa ancora, in larga parte, sulla risposta ai singoli farmaci in trials clinici, la cui artificiosit� e limitatezza � oramai da pi� parti criticata.

Negli ultimi venti anni sono stati sviluppati diversi farmaci per la cura della depressione e dei disturbi dell’umore in genere (dagli SSRIs, alla mirtazapina, al bupropione, alla reboxetina, alla moclobemide, alla venlafaxina) con un’efficacia d’azione superiore al placebo ed, in genere, un miglior profilo di effetti collaterali rispetto ai farmaci di precedente sintesi.

Tuttavia, la capacit� da parte di questi farmaci di ridurre la disabilit� individuale, in termini di una minore frequenza delle ricadute, di un minor numero di ospedalizzazioni e di un ritorno ai livelli di funzionamento premorboso, costituisce un’informazione difficile da acquisire con i trials clinici, sia a causa delle ridotte dimensioni dei campioni analizzati, sia per l’artificiosit� delle condizioni di trattamento superimposte dai disegni sperimentali (5). La maggior parte dei trials clinici continua, infatti, a fare riferimento al concetto di �risposta � intesa come un miglioramento di almeno il 50% del punteggio della Hamilton Rating Scale for Depression (6). Questa definizione si � dimostrata utile per discriminare i farmaci attivi dal placebo; ha soddisfatto l’esigenza di dover introdurre un criterio riproducibile in studi diversi perch� di semplice applicabilit�. Non corrisponde per� a quanto si osserva nella pratica clinica, nella quale l’obiettivo ottimale per l’esito di un trattamento � il ritorno al funzionamento premorboso, ossia il raggiungimento della �guarigione � clinica individuale. Inoltre, i pazienti reclutati negli studi controllati sono selezionati sulla base di criteri di inclusione che mirano a produrre, ai fini statistici, campioni quanto pi� possibile omogenei, senza comorbidit� internistica n� psichiatrica, spesso considerate tra i criteri di esclusione.

Fonti alternative di informazione si sono rese, pertanto, necessarie: dalla stesura di linee guida di trattamento e di valutazione delle misure di outcome derivanti da consensus meeting, alla rivalutazione dei settings naturalistici i cui trattamenti siano registrati in databases integrati, all’impiego della metanalisi. Quest’ultimo metodo consente di ampliare le dimensioni dei campioni osservati e di considerare un pi� ampio numero di variabili cliniche. L’utilit� della metanalisi, solo apparentemente da considerare un’�astrazione statistica�, consiste nella possibilit� di individuare elementi discriminanti tra farmaci apparentemente �simili �, tutti superiori come efficacia al placebo ed accumunati da percentuali di risposta sovrapponibili. Un farmaco antidepressivo, per essere commercializzato, deve aver dimostrato la sua efficacia e la sua sicurezza nella terapia della depressione in sperimentazioni cliniche controllate, su pazienti selezionati secondo i criteri dei manuali categoriali (DSM o ICD) e il cui miglioramento viene valutato con le medesime scale, di ubiquitaria diffusione (per es. la HRSD o la Montgomery-Asberg Depression Rating Scale, MADRS). Tale procedura standardizzata ha come conseguenza che tutti i farmaci in commercio risultano teoricamente sovrapponibili tra loro in quanto ad efficacia terapeutica, se osservati nell’ambito del singolo trial clinico. La metanalisi dei dati ottenuti da diversi studi clinici pu�, in parte, ovviare a questo processo di �omogeneizzazione � dei farmaci tra loro, come dimostrato nel caso del primo farmaco della classe SNRI, la venlafaxina, confrontata con gli SSRIs (7).

L’omogeneit� degli studi clinici sul primo farmaco della classe SNRI: la venlafaxina

La venlafaxina � un farmaco di sintesi relativamente recente, con caratteristiche farmacodinamiche specifiche. Il suo meccanismo d’azione consiste nell’inibire il riassorbimento sia della noradrenalina sia della serotonina, con una lieve prevalenza di attivit� sul reuptake di quest’ultima. � un farmaco dotato di scarsa attivit� sui recettori muscarinici, istaminici H1, alfa-1 adrenergici e dopaminergici. Questo profilo recettoriale permetterebbe, in teoria, di ottenere un indice terapeutico elevato, per la scarsit� di effetti secondari dovuti al blocco di questi recettori. I dati sull’efficacia di venlafaxina nella terapia della depressione maggiore derivano da numerosi studi clinici che hanno fornito risultati relativi a parametri differenti: l’efficacia terapeutica, il dosaggio ottimale, la modalit� di somministrazione, la latenza di risposta, la specificit� ed efficacia sui disturbi dello spettro dell’umore.

I primi studi condotti su pazienti ambulatoriali hanno valutato l’efficacia di venlafaxina sia vs placebo che vs alcuni farmaci di riferimento, quali imipramina, clorimipramina e fluoxetina. Si trattava, nel complesso, di studi di breve durata (4-6 settimane) in cui la venlafaxina, a dosi variabili tra 75 e 375 mg/die, ha dimostrato efficacia superiore al placebo e sostanzialmente sovrapponibile a quella dei farmaci di confronto (8)(14). In questi studi sono state utilizzate per la valutazione della risposta al farmaco la HAM-D , la MADRS e la CGI, somministrate a pazienti con diagnosi di Depressione Maggiore, secondo i criteri del DSM-III-R. Si trattava di studi tra loro analoghi, in cui le differenze maggiori si evidenziavano nella diversa latenza di risposta con dosi differenti di venlafaxina (correlazione dose-risposta con grado di miglioramento statisticamente significativo nei pazienti che ricevevano le dosi pi� alte-150-200 mg/die; risposte clinicamente significative fin dalla prima settimana di trattamento a dosaggi ancora pi� elevati, fino a 375 mg/die).

In particolare, in due degli studi elencati, la venlafaxina � stata confrontata con l’antidepressivo serotoninergico allora di riferimento: la fluoxetina (14) (15). In uno di questi studi (15) il confronto � stato effettuato su pazienti ricoverati e sono state utilizzate dosi di fluoxetina di 40 mg, con l’impiego di dosi di venlafaxina di 200 mg/die. Lo studio ha evidenziato un pi� ampio miglioramento del quadro depressivo nel gruppo di pazienti trattati con venlafaxina rispetto al gruppo trattato con fluoxetina, fin dalla seconda settimana di terapia. Le differenze di miglioramento valutate rispetto al gruppo di confronto sempre con la MADRS e la HAM-D, sono divenute significative dalla quarta settimana in poi (74% vs 47% p < 0.024 con MADRS e 74% vs 41% p < 0.006 con HRSD).

L’altro studio – venlafaxina vs fluoxetina a 20 mg – � stato effettuato su pazienti ambulatoriali. Il miglioramento del quadro depressivo, valutato ancora con la HAM-D risultava significativamente superiore (p < 0.05) nel gruppo trattato con venlafaxina per i pazienti che dalla seconda settimana di trattamento ricevevano un aumento di dosaggio fino a 150 mg/die (14).

Tre studi hanno valutato l’efficacia a lungo termine di venlafaxina a 12 mesi dall’inizio della terapia, evidenziando riduzioni significative dei punteggi delle scale di valutazione con dosaggi di mantenimento tra i 75 e i 225 mg/die (16)(18); in uno studio condotto nel medesimo periodo, sono state esaminate anche le percentuali di ricaduta (relapses) e di nuovi episodi (recurrences) dopo 6 e 12 mesi di trattamento con venlafaxina (dose media 170-181 mg/die), imipramina (168-179 mg/die), trazodone (285 mg/die) e placebo. I risultati ottenuti hanno confermato per la venlafaxina una buona efficacia a lungo termine con un minor numero di pazienti che hanno manifestato ricadute (11% a 6 mesi e 20% a 12 mesi) rispetto al placebo (rispettivamente 23% e 34%) 64 (19). Quando venlafaxina � stata impiegata in un campione di pazienti affetti da �depressione resistente� a tre precedenti trattamenti antidepressivi (due antidepressivi di classe differente e terapia elettroconvulsivante) alla dose media giornaliera di 245 (� 99 mg/die) il 46% dei pazienti � stato definito �parzialmente o totalmente responder�, sempre sulla base dei punteggi di HAM-D, MADRS e CGI, con un miglioramento che si � mantenuto per almeno i tre mesi di osservazione (20).

Gli studi successivi (21)(23) non sembrano aver introdotto particolari elementi di novit� o originalit�, visto che hanno mantenuto disegni sperimentali molto simili ai primi, con confronti vs fluoxetina e placebo ed in un solo caso vs paroxetina e placebo (Salinas, 1997). La risposta era sempre valutata con la HAM-D o con la MADRS, in osservazioni a breve termine (8 settimane), con dosi di farmaco sovrapponibili a quelle degli studi precedenti.

Recentemente, � stata effettuata una metanalisi su 8 studi clinici in doppio cieco di confronto tra venlafaxina e SSRIs, nel tentativo di evidenziare limiti, analogie e, se possibile, nuove informazioni clinicamente rilevanti per l’impiego di questo farmaco nella terapia dei disturbi dell’umore (7). L’analisi ha incluso dati di 4 studi che sono stati pubblicati (14) (15) (22) (23), due che sono stati presentati come abstracts (21) (24) e due non pubblicati (studi 347 e 349 Wyeth-Ayerst Laboratories, Philadelphia, PA) su complessivi 2045 soggetti: 851 trattati con venlafaxina, 748 con SSRI (fluoxetina, paroxetina, fluvoxamina) e 446 randomizzati con placebo. Le scale di valutazione utilizzate per valutare la risposta al trattamento sono state la Clinical Global Impression-Severity of Illness (CGI-S), la Hamilton Rating Scale for Depression (HRSD) e la Montgomery-Asberg Depression Rating Scale (MADRS) con la definizione di remissione effettuata con il punteggio HRSD ≤ 7.�

Considerazioni conclusive

Gli studi clinici controllati per valutare l’efficacia dei farmaci antidepressivi seppur necessari sembrano insufficienti e scarsamente sensibili per la determinazione delle differenze nel profilo di risposta tra antidepressivi diversi. Le cause di questo fenomeno sarebbero da ricercare principalmente nelle ridotte dimensioni dei trials monocentrici, che non raggiungono la potenza statistica sufficiente a individuare differenze modeste ma comunque clinicamente significative (7) (25). Di contro, i trials multicentrici, pur raggiungendo dimensioni numericamente superiori, mostrano il limite di una maggiore eterogeneit� dei pazienti e di una minore affidabilit� nella determinazione delle misure di efficacia. Infatti, la differente composizione dei gruppi di pazienti reclutati e il disomogeneo background dei valutatori hanno determinato differenze anche notevoli nella risposta allo stesso farmaco in studi simili tra loro. La distanza dalla realt� clinica degli studi controllati � anche aumentata dalla relativa rappresentativit� di campioni selezionati in genere con criteri di inclusione che tendono ad escludere la comorbidit� di Asse I, la comorbidit� di spettro e, frequentemente, la comorbidit� con patologie internistiche non stabilizzate.

Pur con notevoli limitazioni, il metodo della meta-analisi potrebbe consentire di ridurre in parte questi problemi, con l’aumento della sensibilit� statistica e l’ampliamento della definizione di remissione attraverso le misure fornite dai diversi disegni sperimentali.

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