Gli psichiatri vittime di pazienti molestatori segugi assillanti

Psychiatrists victims of stalkers

L. Lorettu, P. Milia, G. Nieddu, A. Nivoli, L.F. Nivoli, G.C. Nivoli

Clinica Psichiatrica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Sassari

Key words: Stalker • Pathological attachment • Therapist • Therapeutic approach
Correspondence: Dr. Liliana Lorettu, Clinica Psichiatrica, Università di Sassari, Villaggio San Camillo, strada 200, 07100 Sassari – Tel. +39 79 254406 – Fax +39 79 228350 – E-mail: llorettu@uniss.itclinpsic@uniss.it

Introduzione

L’incontro tra lo psichiatra ed alcuni particolari pazienti che dimostrano nei suoi confronti un attaccamento patologico di gravità tale da assumere la caratteristica di essere diagnosticati “molestatori segugi assillanti” (stalkers), è un’evenienza non rara (1)-(3). Questi pazienti manifestano, nei confronti del loro terapeuta, un comportamento di attaccamento intrusivo ed aggressivo protratto nel tempo: desiderano prolungare il colloquio oltre l’orario la visita; si recano a trovare il terapeuta quando non hanno appuntamento, o presso la sua abitazione privata; lo seguono, lo assillano con telefonate inopportune; lasciano in continuazione messaggi intrusivi, invadenti, aggressivi sulla segreteria telefonica; scrivono decine di lettere ora affettuose, ora minatorie, ora rivendicative. Nonostante il tentativo di contenimento ed il fermo rifiuto da parte del terapeuta di continuare il rapporto professionale e personale, perseverano nella ricerca di un contatto, tentando di avvicinarlo continuamente con la scusa di chiedere spiegazioni, chiarire la situazione ecc. Questi pazienti possono poi minacciare, insultare, rimproverare al terapeuta di non averli capiti ed aiutati, di averli trattati male, di aver ricambiato con odio egoistico il loro amore sincero, di non aver accettato l’amicizia offerta, di aver compiuto gravi errori professionali nei loro confronti ecc.

Il comportamento di questi pazienti molestatori segugi assillanti influenza il terapeuta suscitando in lui reazioni diverse (4).

Nei casi clinici più lievi il terapeuta può accusare una leggera ansia a causa della continua e silenziosa presenza in studio di questi pazienti o della loro pressante richiesta di attenzione e di aiuto. A volte il terapeuta può percepirsi francamente irritato e spaventato qualora questi pazienti si presentino presso l’abitazione privata, profferendo minacce o compiendo passaggi all’azione vandalica su beni materiali (come la macchina, il giardino, il gatto, il cane ecc.).

Il passaggio all’azione del paziente molestatore segugio assillante nei confronti del terapeuta può coincidere con l’inizio del ciclo terapeutico, verificarsi a fine terapia e può manifestarsi addirittura molti anni dopo l’interruzione della cura. Non sono infrequenti i casi in cui un soggetto, ricaduto in una crisi psicotica, si ricordi di un reale o presunto torto, sgarbo o abbandono subito, secondo la sua interpretazione della realtà, decine di anni prima dal terapeuta, e quindi incominci a perseguitarlo (5)-(7).

La durata di azione di questi pazienti molestatori segugi assillanti nel tempo è molto varia: alcuni di essi perdurano nelle loro azioni di disturbo per decine di anni, nonostante le vivaci reazioni di difesa del terapeuta; altri invece risolvono il loro attaccamento patologico al terapeuta nel giro di pochi mesi e dopo la prima reattività difensiva di quest’ultimo (8)-(10).

Obiettivo del presente studio è la descrizione clinica di dieci comportamenti non funzionali o genericamente errori (non intesi in senso medico legale o legati a responsabilità professionale), in senso generale di un inadeguato approccio terapeutico, che possono essere commessi da uno psichiatra allorquando si trova a gestire un paziente con attaccamento patologico del tipo molestatore segugio assillante.

Il terapeuta che confonde fantasmi personali ed esigenze terapeutiche

Come vi sono terapeuti che tendono a sottovalutare i pazienti con attaccamento patologico e comportamento da molestatore segugio assillante (“tutti i pazienti debbono ben affezionarsi al terapeuta, è normale, e cercano spesso di utilizzarlo per i loro bisogni”), così vi sono terapeuti che tendono a sopravvalutare i pazienti con attaccamento patologico e comportamento da molestatore segugio assillante (“Quasi tutti i pazienti cercano di svuotarti di energie e cercano di sfruttarti al massimo”).

Quest’ultima tipologia di terapeuti che gestisce con più difficoltà fantasmi di onnipresenza di pazienti troppo attaccati e troppo sfruttatori, troppo “molestatori”, può trovarsi in particolare difficoltà quando si trova di fronte a pazienti che hanno necessità, per una loro patologia specifica, di particolare accudimento e attenzione terapeutiche.

Ad esempio, i pazienti che soffrono di disturbo di panico, non presentano solo i classici sintomi di paura di morire, ma tendono anche a stabilire con il terapeuta un rapporto particolare: egli talvolta, deve divenire per loro un “caro amico”, sempre disponibile ad essere disturbato nelle ore più impensate: a notte fonda, durante le feste più importanti dell’anno. In questi casi il terapeuta deve comprendere, a livello di esperienza clinica e di sapere scientifico, che il paziente con disturbo di panico non necessariamente presenta sempre attaccamento patologico, stigmatizzandolo così come molestatore segugio assillante. Questo tipo di paziente abbisogna invece di una particolare attenzione e soprattutto di una specifica psicoeducazione non solo all’uso del farmaco, ma anche all’uso dello psichiatra.

Un terapeuta che confonde i suoi fantasmi (“essere molestato e perseguitato”) con le esigenze terapeutiche di certi pazienti, non solo crea nella sua fantasia molestatori segugi assillanti che non esistono, ma può anche creare problemi nella pratica, con un comportamento professionale scorretto ed inadeguato al sapere scientifico e all’esperienza clinica.

Il terapeuta che non sa gestire la propria ambivalenza

Il terapeuta, nell’approccio con un paziente che presenta un attaccamento patologico e si comporta come un molestatore segugio assillante, può essere confrontato con due sentimenti opposti. Da un lato, il terapeuta cerca di far prevalere il suo desiderio professionale di intervenire con modalità terapeutiche, avendo quindi cura del paziente, anche se difficile, invasivo, intrusivo e con manifestazioni di comportamenti minacciosi e violenti; dall’altro lato il terapeuta può essere spaventato ed irritato ritenendo, talvolta con saggezza, che sia opportuno interrompere il rapporto terapeutico e denunciare il paziente, divenuto ormai un pericolo obiettivo, attuale e concreto per la propria integrità fisica e psichica.

Tra questi terapeuti si può verificare, almeno a livello manifesto, una grande confusione di sentimenti non diversi da quei pazienti vittime di molestatore segugio assillante che chiedendo consigli allo psichiatra affermano: “Non voglio più vedere quella persona, domani vado all’avvocato e lo denuncio, non parlerò mai più con lui”.

La settimana seguente, confideranno allo psichiatra: “Non ho avuto il coraggio di denunciarlo, mi fa pena … e poi penso che sia dovere mio aiutarlo, in fondo è una brava persona, non posso abbandonarlo crudelmente al suo destino …”.

Nei confronti di un paziente con attaccamento patologico di tipo molestatore segugio assillante, il terapeuta che continua a tergiversare e non gestire in modo corretto la propria umana e fisiologica ambivalenza d’intenzioni, realizza, in concreto, la figura del terapeuta vittima. Solo un attento studio vittimologico di questa tipologia di terapeuti potrà fornire un approfondimento clinico utile a spiegare la sua apparente incapacità di non gestire in modo corretto e funzionale la sua ambivalenza per il paziente molestatore segugio assillante.

I terapeuti che creano volontariamente pazienti molestatori segugi assillanti nei confronti degli altri terapeuti

Pretendere che l’eterogenea popolazione di terapeuti si esprima sempre nei confronti dei colleghi se non con lodi e simpatia almeno con una pacata empatia e con ponderato equilibrio di giudizio, sarebbe un desiderio che la realtà di tutti i giorni pare non rispettare. Non raramente anche contravvenendo al codice deontologico, non pochi terapeuti, di fronte allo stesso paziente, criticano volontariamente, coscientemente, in modo grossolano ed aggressivo l’operato di un precedente terapeuta.

Allorquando queste critiche sulla competenza professionale del collega terapeuta che li ha preceduti nella cura del paziente, ventilano anche un grave danno per il paziente, quest’ultimo può ritenersi ingiustamente vittima sfruttata e danneggiata e mettere in atto comportamenti sul terapeuta “incriminato” di tipo molestatore segugio assillante: si tratta in questi casi di terapeuti che creano volontariamente pazienti molestatori segugi assillanti nei confronti di altri terapeuti.

Non pochi terapeuti tendono per motivi personali (invidia, insicurezza, aggressività, frustrazione ecc.) a criticare in modo inadeguato e grossolano i terapeuti che li hanno preceduti nella cura del paziente. Questi terapeuti non solo cercano di demolire l’immagine professionale del terapeuta precedente, ma riescono anche a ventilare e a comunicare che l’interessato è stato vittima di veri e propri errori professionali che non solo possono, ma dovrebbero essere risarciti. Queste richieste di risarcimento possono essere formulate attraverso varie modalità, dalle più sofisticate e nebulose alle più chiare e smaccatamente rivendicative. Da segnalare che nei casi più patognomonici non si tratta affatto di danni psichici obiettivi e di accuse valide sotto il profilo medico legale, ma semplicemente di differenti approcci terapeutici non sempre facilmente valutabili in modo chiaro ed obiettivo nei risultati che pur tuttavia, sono artatamente, callidamente e disonestamente utilizzati in una lotta interpersonale che avviene tra i due terapeuti. In questo senso è come se il terapeuta che critica si servisse del paziente, come di un arma per aggredire il precedente collega che lo ha preceduto nella cura del paziente.

Creare volontariamente e callidamente, in modo ingiustificato e delinquenziale pazienti molestatore segugio assillante nei confronti di colleghi rispecchia dinamiche personali e conseguenze terapeutiche chiaramente differenziabili dalle giuste e doverose chiarificazioni ed eventuali denunce, nei tempi e nei modi più adeguati, di errori professionali che implicano danni reali e concreti ai pazienti.

I terapeuti che ignorano il dilemma dell’intervento terapeutico

I terapeuti che ignorano il “dilemma dell’intervento terapeutico”, soprattutto in tema di prevenzione della violenza e di gestione delle minacce dei pazienti molestatori segugi assillanti, non sono consapevoli che ogni intervento attivo, che è compiuto dal terapeuta può far registrare conseguenze pratiche molto differenti tra loro (terapeutiche, ma anche non terapeutiche). Nel caso di molestatori segugi assillanti che minacciano atti violenti, uno stesso tipo di intervento attivo del terapeuta può inibire, scatenare od essere del tutto indifferente all’attuarsi dell’agito violento del soggetto.

Non pochi psichiatri, infatti, sono stati aggrediti e denunciati per omissione di soccorso dal paziente e dai familiari per non aver richiesto un trattamento sanitario obbligatorio. Altri psichiatri sono stati aggrediti e denunciati per sequestro di persona da pazienti e familiari per aver richiesto un trattamento sanitario obbligatorio. Uno stesso atto, a prescindere dalla sua correttezza, può essere diversamente percepito dagli interessati.

Nel caso specifico dell’attaccamento patologico del paziente, l’adozione di un intervento attivo, soprattutto se gravido di conseguenze ad opera della giustizia ufficiale, deve essere attentamente valutato, non solo perché non può costituire, da solo, una panacea universale che protegga in modo assoluto dalla violenza del protagonista attivo, ma anche perché potrebbe avere, in casi specifici, una funzione provocatoria e scatenante sulla produzione della violenza. L’arte di trattare e ridurre il comportamento violento non è ancora perfezionata, e le variabili che determinano, nel paziente, il passaggio all’atto violento non raramente possono sfuggire a chi è preposto a trattarla. Essere a conoscenza del dilemma di base, per ciò che concerne l’intervento terapeutico nelle situazioni di violenza non sta affatto a significare che il terapeuta deve assistere passivo, disperato e bloccato nel ruolo di vittima. Conoscere che un’azione posta nell’ambito di un intervento terapeutico potrebbe anche sortire l’effetto opposto, è un’altra variabile che il terapeuta deve adeguatamente vagliare nella sua necessità di assumere le decisioni professionalmente più adeguate.

I terapeuti che pensano che tutti i problemi che lo psichiatra debba affrontare si possono risolvere con la psichiatria

Alcuni terapeuti pensano che tutti i problemi che lo psichiatra debba affrontare si possano risolvere esclusivamente con la psichiatria. Non sono in grado di valutare con sufficiente apertura mentale e realizzare in concreto che molti problemi portati all’attenzione dello psichiatra possono e debbono usufruire non solo della psichiatria, ma anche di altre competenze pluridisciplinari. Nel caso di soggetti violenti che minacciano, soprattutto allorquando si tratta di casi clinici gravi, omicidari, il terapeuta non può non confrontarsi con competenze che esulano dalla psichiatria come specialisti che si occupano, ad esempio, delle strategie del contenimento della violenza, esperti in legge, amministratori della Giustizia, forze istituzionali preposte all’ordine pubblico, istituzioni addette alla vigilanza, alla difesa personale ecc.

I soggetti malati di mente che minacciano in modo concreto la vittima anche nel corso di un attaccamento patologico, e quindi nel caso del molestatore segugio assillante, non possono non essere considerati dal terapeuta tramite una valutazione di équipe di esperti di differente estrazione. Non solo debbono essere considerate le valutazioni psichiatriche, ma anche i provvedimenti più elementari che la vittima deve mettere in atto per non farsi aggredire, per difendersi a livello giuridico, in sede civile, penale ecc.: ad esempio debbono essere attentamente considerati i sistemi di difesa personali: le misure di prevenzione al proprio domicilio, al lavoro, in viaggio, le modalità per avvertire nello spazio di breve tempo l’ordine pubblico; la capacità di strutturare una denuncia per un rapido e concreto interessamento dell’autorità giudiziaria (incarcerazione del soggetto ecc.).

Quanto precede, non sta certo a significare che il terapeuta debba diventare, ad esempio, un esperto tecnico dei sistemi d’allarme nelle case od un valente istruttore di arti marziali specializzato nella difesa personale. Piuttosto sottolinea la necessità dell’intervento di un’èquipe multidisciplinare nei casi in cui si debba trattare con individui che minacciano di compiere violenze sulla persona, soprattutto nei casi in cui si tratti di malati di mente.

I terapeuti che non conoscono la sindrome della falsa vittimizzazione

I terapeuti che non conoscono la sindrome della falsa vittimizzazione, non sono in grado di affrontare con adeguatezza i problemi diagnostici e terapeutici legati ad individui che si proclamano vittime pur non essendolo. Inoltre, questi terapeuti possono, in modo diretto o indiretto, rendersi complici delle false vittime che accusano ingiustamente persone innocenti causando in queste ultime gravi danni psicologici, sociali, economici ed anche giudiziari.

Questi terapeuti (per ignoranza, inesperienza clinica, credulità ingenua, assenza di preparazione e di metodologia forense, problemi personali di identificazione alla vittima ecc.) non si servono di un approccio critico e professionale alla vittima che lamenta di aver subito episodi di violenza. In particolare l’incapacità professionale può manifestarsi allorquando il terapeuta si trovi a contatto con pazienti molestatori segugi assillanti che si dichiarano falsamente vittime. Questi casi specifici di sindrome della “falsa vittimizzazione” in pazienti molestatore segugio assillante, necessitano di un approccio critico e di approfondimenti nei confronti della presunta obiettività dei fatti, così come sono raccontati dalle persone che si dichiarano vittime.

A livello professionale, il terapeuta deve essere in grado di conoscere e applicare i numerosi criteri clinico psichiatrici che possono aiutare a porre una diagnosi di sindrome di falsa vittimizzazione. Nelle false vittime (quei pazienti cioè che asseriscono di essere vittime, non essendolo in realtà), possono essere messe in luce, con maggior frequenza, le seguenti osservazioni cliniche:

– assenza di sentimenti di colpa per il fatto avvenuto;

– assenza di empatia verso la visione punitiva del presunto colpevole;

– assenza di preoccupazione e di ansia circa la propria vulnerabilità al momento dei fatti;

– maggior presenza ed intensità di guadagni secondari;

– la narrazione di fatti eccezionali che esulano dalla norma per casualità o fortuna;

– la presenza di situazioni personali o familiari di crisi o particolarmente stressanti;

– la presenza nell’anamnesi di precedenti personali con simulazioni o bugie patologiche;

– la presenza di psicopatologia di tipo borderline, istrionico, mitomanico, immaturità ecc.

Emerge quindi la necessità da parte del terapeuta di un triplice approccio nei confronti dei pazienti che si proclamano vittime di violenza, in particolare, dei pazienti molestatore segugio assillante con attaccamento patologico.

In primo luogo, infatti, è necessario un esame approfondito ed attento dell’accaduto, della situazione e dei dati di fatto presentati ed illustrati dalla vittima.

In secondo luogo, è importante che il terapeuta applichi i criteri clinici per sospettare ed eventualmente avvalorare in modo critico i sintomi di una falsa vittimizzazione (anche allo scopo di evitare ingiuste accuse verso innocenti).

Infine è importante che il terapeuta curi la sintomatologia psichica specifica, sia delle “vere” che delle “false” vittime. Ricordiamo, infatti, che l’intervento psicoterapico sulle vittime è diventato sempre più professionale e implica tecniche psicoterapeutiche di approccio specifico in relazione al tipo di vittima.

Terapeuti che non sanno gestire l’idealizzazione del terapeuta da parte del paziente

I pazienti borderline molto facilmente possono idealizzare la figura del terapeuta rendendolo, nella loro fantasia ed aspettativa, una persona estremamente saggia, sempre disponibile, pronta ad aiutarli in ogni momento unicamente e costantemente preoccupata per il loro benessere.

Allorquando quest’immagine così idealizzata è abbruttita e distrutta dalla realtà dei fatti, cosa che avviene regolarmente, questi pazienti sono colti da gran rabbia, rancore, desiderio di vendetta. Questi pazienti, infatti, in questa fase del rapporto terapeutico, si percepiscono truffati, manipolati e traditi dal terapeuta che cominciano a perseguitare, minacciare e punire.

È quindi necessario che il terapeuta, allorquando idealizzato, sia in grado di compiere due distinte operazioni: in primo luogo deve indagare a fondo le caratteristiche di quest’idealizzazione di cui è oggetto. Il terapeuta non può esentarsi dal dubbio che il processo di idealizzazione nei suoi confronti possa essere molto più intrusivo e profondo di quanto non appaia a livello manifesto. In secondo luogo deve riuscire a gestire, in modo adeguato al reale e con opportune tecniche, l’idealizzazione che mette in atto il paziente e non cadere nel tranello delle identificazioni, sentendosi gratificato in modo ingenuo e superficiale.

I terapeuti quindi che non sanno riconoscere di essere oggetto di profonde, intrusive idealizzazioni da parte del paziente non sono in grado né di approfondirle né di gestirle e mettono in atto errori professionali che favoriscono l’attaccamento patologico del paziente al terapeuta.

I terapeuti che rimangono ammaliati dall’intimità terapeutica

I terapeuti che rimangono ammaliati dall’intimità terapeutica non sanno gestire il clima di confidenza, rilassamento, reciproca fiducia, mutualità d’aiuto ecc che si stabilisce in una relazione terapeutica.

Si tratta di terapeuti che compiono una sopravvalutazione ed un abuso del clima di intimità e vicinanza affettiva presenti nel rapporto terapeutico. Questi terapeuti creano ed abitano col paziente un mondo virtuale di costante accettazione, di mutuo aiuto immediato, di reciproca gratificazione e dipendenza ecc. Quando poi il paziente non riesce a progredire nelle difficoltà del mondo esterno, e continua ad essere bersagliato dalle frustrazioni, può allora percepirsi abbandonato, tradito ed illuso dal suo terapeuta al quale si rivolge con rabbia, recriminazioni, accuse, persecuzione, minacce ecc.

Il terapeuta non può non ritenere, a livello razionale ed emotivo, che l’intimità del contesto terapeutico abbia un valore di panacea universale per risolvere i problemi psichiatrici, sociali, economici ecc del paziente.

Il clima dell’intimità terapeutica è proprio di una situazione specifica di aiuto, di regressione e dipendenza temporanea. Può essere una forma di prestazione professionale con carattere d’urgenza che deve poi preparare a lasciare il posto alla capacità del paziente di confrontarsi in modo realistico, personale, autonomo e gratificante con il mondo esterno.

I terapeuti accecati dal complesso del “salvatore a tutti i costi”

I terapeuti accecati dal complesso del “salvatore a tutti i costi” non sono in grado di scorgere e diagnosticare con sufficiente chiarezza aspetti clinici pericolosi del paziente con attaccamento patologico (ad esempio, la possibilità di comportamenti violenti, i desideri di vendetta, le tendenze sadiche al controllo, la assenza di adesione al trattamento, ecc.) essendo esclusivamente orientati a salvare e guarire il loro “protetto”.

Si può trattare, nel caso specifico dell’attaccamento patologico del paziente, di terapeuti che sono caratterizzati da un invasivo zelo terapeutico e desiderano salvare a tutti i costi, in modo pregnante e totalizzante, il paziente dalle sue sofferenze. Generalmente questi terapeuti investono tanto più convincimento acritico nella loro opera salvifica quanto più, ad esempio nella loro vita personale, hanno avuto disagi e sofferenze personali e familiari. Tra queste ultime eventualità sono da segnalare come ad esempio un padre alcolista o familiari affetti da disturbi psichici, tutti casi che il terapeuta avrebbe desiderato curare e guarire e che allo stato attuale per proiezione e spostamento identifica nel paziente.

Questi terapeuti così accecati dal loro “zelo terapeutico”, usano tutti i possibili meccanismi psicologici di difesa per negare, minimizzare, razionalizzare il pericolo che presenta il paziente affetto da attaccamento patologico (invasivo, minaccioso, prevaricatore) verso chi lo sta curando: “Questo paziente smetterà da solo di importunarmi”, “questo paziente è molto malato, non sa cosa sta facendo”, “con questo tipo di paziente è logico aspettarsi che sia intrusivo e minaccioso”, ecc. Il terapeuta deve essere sempre in grado di sospettare che il paziente possa stabilire un attaccamento patologico, possa essere anche fisicamente pericoloso e, in conseguenza di ciò, deve mettere in atto opportuni accorgimenti terapeutici e modalità di prestazione personale accortamente e tecnicamente

I terapeuti che accettano il ruolo del “terapeuta maltrattato”

I terapeuti che accettano il ruolo del “terapeuta maltrattato” non sono in grado di affrontare il problema dei pazienti intrusivi, aggressivi, minacciosi, violenti, ecc. Questi terapeuti continuano a sopportare, spesso con tratti masochistici quegli aspetti aggressivi e violenti dei loro assistiti comportandosi, a livello manifesto, come vittime inermi, passive ed anche, talvolta, disperate e senza speranza.

Questi terapeuti possono ricordare quelle donne vittime che sopportano, anche per anni, il marito violento che le maltratta, le umilia e le aggredisce fisicamente. Questo comportamento di accettazione, tanto nelle donne maltrattate quanto nel terapeuta maltrattato, può esser razionalizzato su diversi fattori: paura di un confronto fisico col protagonista attivo (“ho paura di affrontare la sua violenza fisica, potrebbe uccidermi“); timore di uno scandalo (“cosa diranno le persone?“); pregiudizio verso l’amministrazione della giustizia (“i giudici mi faranno solo perdere tempo, finirò sui giornali e non si risolverà nulla“); timore di una possibile vendetta dell’aggressore (“se lo denuncio, il mio aggressore si arrabbierà e diventerà ancora più aggressivo nei miei confronti“).

Di fronte ad un paziente che si dimostra particolarmente intrusivo, che profferisce minacce o mette in atto aggressività fisica, è necessaria una chiara comunicazione e la messa in atto – terapeutica – di contromisure realistiche. Il terapeuta deve verbalizzare, nel confronto diretto col paziente, che quest’ultimo lo sta disturbando, lo sta aggredendo, in modo contrario al contratto terapeutico ed alle leggi civili e penali.

Il terapeuta deve anche avvertire il paziente, già dalle sue prime manifestazioni intrusive ed aggressive, che se continuerà, egli adotterà le contromisure che riterrà più opportune, quali la immediata denuncia alle autorità giudiziaria.

Il terapeuta deve essere altresì cosciente che spesso il paziente, che ha manifestato un attaccamento patologico, non desisterà così facilmente dal perseguitarlo, anche dopo un confronto diretto la rescissione del contratto terapeutico e un avvertimento formalizzato delle contromisure che si ritiene adottare, anche se esse sono specificate, a volte, in modo ufficiale da un avvocato o da parte dell’amministrazione della giustizia.

In ogni caso, il terapeuta non deve restare “vittima inerme”, passiva, disperata e terrorizzata: egli deve essere cosciente di tutti i meccanismi psicologici di difesa che userà per contenere e ridurre l’ansia nei confronti delle sue possibili reazioni a contatto con un paziente molestatore segugio assillante caratterizzato da un attaccamento patologico aggressivo e minaccioso (“il paziente parla, ma non farà mai nulla“; “è solo malato e presto guarirà“; non è il paziente che parla ma la sua disperazione“; “il paziente mi minaccia, ma in fondo mi ama e mi rispetta, non avrà il coraggio di aggredirmi ecc.).

Il terapeuta quindi, anche e soprattutto nelle situazioni iniziali, deve saper usare la tecnica del confronto, l’adozione di adeguate contromisure verbalizzate e poste in atto ed essere così cosciente delle proprie resistenze e difendersi dal paziente con attaccamento patologico.

I terapeuti affetti da una concezione masochistica e deresponsabilizzante della professione di terapeuta

I terapeuti affetti da una concezione masochistica e deresponsabilizzante della professione di terapeuta presentano caratteristiche personologiche molto spiccate rispetto ad altri terapeuti, non masochisti e non deresponsabilizzanti. Essi tollerano (ma talvolta ricercano, in modo più o meno conscio), timori, ansie e frustrazioni dai loro pazienti, e considerano sempre e acriticamente che tutti i pazienti psichiatrici sono privi di responsabilità decisionale a causa della loro psicopatologia.

Questi terapeuti spesso presentano una concezione globale della vita, e quindi anche della loro professione, di tipo masochistico, ove il dolore e la sofferenza ne sono parte integrante che non può essere evitata e deve essere acriticamente accettata. A questa concezione di vita, si accompagna anche il pregiudizio che il malato di mente non possa non arrecare al terapeuta, ai familiari e ad altre persone, quasi una cieca volontà di un destino sadico ed immodificabile, una considerevole quantità di sofferenza e di dolore, pur non essendone, a livello individuale, responsabile e cosciente, a causa della propria malattia mentale.

Caratteristiche cliniche concrete di questi terapeuti sono, a prescindere dalla loro formazione, collocazione diagnostica o filosofico-esistenziale, soprattutto due: una eccessiva tolleranza al comportamento deviante del paziente ed una certa tendenza ad allargare la sofferenza da se stessi al proprio microcosmo, e cioè alle persone che vivono vicino a loro.

L’eccessiva tolleranza al comportamento deviante del paziente, si manifesta nel permettere al paziente di prendere quasi tutte le libertà che desidera, come qualità, quantità e tempo: il paziente può insultare, minacciare, rubare gli oggetti, telefonare a domicilio quando desidera ecc.

La tendenza ad allargare il numero dei sofferenti, si manifesta con la tendenza del terapeuta nell’implicare i propri familiari, amici e colleghi nel dramma che sta vivendo nei confronti del paziente. Così tutti possono soffrire con lui delle minacce, dell’aggressività, dell’intrusività del paziente, o perlomeno esserne disturbati, ansiosi e angustiati.

Nel terapeuta particolarmente masochista, poi, può essere non solo tollerata, ma ampliata, in modo talvolta inconscio, la sua fonte di sofferenza. In questi casi, il terapeuta, non solo si limita a sopportare il paziente con attaccamento patologico, ma è anche in grado di mobilitare i parenti e gli amici del paziente, che diventano altresì, un’altra fonte di aggressività e invasività nei propri confronti.

Questi terapeuti masochisti e deresponsabilizzanti, manifestano un importante segno clinico rivelatore, già all’inizio del rapporto col paziente: non sono, infatti, in grado di gestire il contesto terapeutico con precise limitazioni. Già dalle prime sedute, questi terapeuti permettono al paziente di non rispettare le regole del contesto terapeutico, favorendone così la psicopatologia, in particolare, quella legata ad un attaccamento patologico. La necessità, infatti, di un terapeuta di stabilire precise regole e di farle osservare nell’ambito di una relazione terapeutica, è una tra le variabili a maggior significato di prevenzione nei confronti di un eventuale attaccamento patologico del paziente.

I terapeuti che non accettano di trasferire il loro paziente ad un altro terapeuta

I terapeuti che non accettano di trasferire il proprio paziente ad un altro terapeuta possono incontrare notevoli difficoltà nel gestire pazienti con comportamento violento, ed in particolare i pazienti con un attaccamento patologico di tipo molestatore segugio assillante.

Si tratta di terapeuti che, pur in difficoltà con i pazienti, rifiutano di interrompere il rapporto e non li inviano, presso altri specialisti o altre strutture adeguate.

Il comportamento di “tenere stretto a sé il paziente a tutti i costi”, anche quando è inadeguato e pericoloso per lo stesso terapeuta, può trovare differenti motivazioni che variano da quelle culturali sino a più specifiche problematiche personali del terapeuta (ignoranza professionale, motivi legati allo sfruttamento economico, sentimenti di onnipotenza, scarsa tolleranza alla frustrazione ecc.)

Quando un terapeuta si trova in difficoltà con un paziente (soprattutto nel caso di un paziente violento, che minaccia, intrusivo, con attaccamento patologico ecc.) può essere utile la proposta, dopo che il caso è stato adeguatamente vagliato in discussione multidisciplinare, di trasferirlo ad un collega, ad una équipe, o ad un’altra istituzione. Se poi non si trova facilmente la soluzione, esclusivamente in campo psichiatrico, è utile ricorrere in un secondo tempo ad esperti nella strategia di contenimento del comportamento violento: rappresentanti della legge, avvocati o rappresentanti dell’amministrazione della Giustizia.

Nell’ambito delle scelte comportamentali più idonee al caso specifico, è utile sottolineare, a livello generico, la possibilità per il terapeuta di interrompere il contatto terapeutico col paziente (dopo un chiaro e fermo confronto interpersonale diretto di chiarimento), e trasferirlo ad altri terapeuti o istituzioni terapeutiche (dopo aver attentamente valutato e rispettato i principi medico legali alla base della responsabilità professionale, per evitare accuse di reati dei codici civile e penale).

In questi casi, l’esperienza insegna che talvolta, piuttosto che trasferire il paziente ad un singolo terapeuta, è più utile, ai fini terapeutici, trasferirlo ad una équipe di trattamento composta da numerose persone, allo scopo anche di diluire il più possibile le reazioni controtransferali negative nei confronti del paziente.

I terapeuti che non sanno gestire le richieste irrealistiche dei pazienti

I terapeuti che non sanno gestire le richieste irrealistiche dei pazienti possono stimolare in questi ultimi alte aspettative che, allorquando deluse, possono provocare vivaci reazioni di rivendicazione e di vendetta.

Le persone che esercitano professione medica si trova non raramente a dover affrontare richieste irrealistiche dei pazienti.

Vi sono pazienti, ad esempio uomini anziani con impotenza sessuale, che chiedono insistentemente una trasformazione chirurgica del loro sesso, perché stimolati dalla fantasia dell’apparato genitale “sempre pronto all’uso”. Questi pazienti, delusi da un pene che non raggiunge l’erezione, s’illudono che disponendo di una vagina creata chirurgicamente, possono essere “sempre pronti ad un rapporto sessuale”. Vi sono pazienti, donne anziane, che attraverso un intervento di plastica facciale, s’illudono di poter tornare giovani, belle, seducenti, corteggiate ecc.

Allo stesso modo vi sono pazienti psichiatrici che nutrono aspettative irrealistiche di guarire perfettamente, risolvere problemi emotivi gravi, vivere felici, contenti e spensierati dopo un breve, semplice ciclo di psicoterapia, ecc. Il terapeuta, deve essere in grado di gestire in modo adeguato le aspettative irrealistiche del paziente e trattarle in modo chiaro, fermo e convincente, in modo da non suscitare illusioni che esitino in frustrazioni, che a loro volta sollevano nel paziente depressione, aggressività e passaggio all’azione violenta verso lo stesso paziente od il terapeuta.

I terapeuti persecutori che “abboccano all’amo del paziente persecutore”

I terapeuti persecutori che “abboccano all’amo del paziente persecutore” non sono in grado di interrompere quei cicli “persecutore-perseguitato” che spesso diventano sempre più pericolosi, se non gestiti in modo adeguato.

Vi sono terapeuti che al primo accenno di molestie e di persecuzione da parte di un paziente, immediatamente, in modo grossolano e provocatorio, si adoperano per molestare e perseguitare a loro volta il paziente. In questo modo, il paziente ed il terapeuta possono entrare in un ciclo riverberante di reciproca persecuzione che può sfociare non solo in molteplici accuse a livello civile e penale, ma anche in pericolosi passaggi all’azione violenta nei riguardi dell’integrità fisica delle persone.

Il terapeuta, non solo deve essere in grado di giudicare in quali casi egli possa continuare il rapporto con il paziente, anche se questi verbalizza il desiderio di interrompere la terapia, ma anche essere in grado di sapere quando interrompere il rapporto col paziente anche se questi, a tutti i costi, vuole continuare i contatti ed i rapporti professionali.

Il terapeuta inoltre deve saper valorizzare, soprattutto nelle fasi iniziali del rapporto, la possibilità di chiarificazione, stabilire i limiti del contesto terapeutico ed operare così un intervento non solo terapeutico ma anche preventivo per evitare un attaccamento patologico del paziente. Anche se l’interruzione del rapporto terapeutico, nel caso di pazienti molestatori segugi assillanti, deve essere chiara e ferma, non può non tener conto della grande sensibilità ed adeguatezza che deve essere gestita in rapporto alla grande variabilità clinica del paziente, soprattutto se quest’ultimo presenta specifiche psicopatologie di interesse criminologico. Sono particolarmente a rischio, in queste difficili operazioni di interruzione del rapporto terapeutico, quei terapeuti che presentano problemi personali in tema di rivendicatività e persecuzione, che possono accentuare, in un circolo vizioso, la rivendicatività e l’atteggiamento persecutorio del paziente con attaccamento patologico.

Conclusioni

Non è stato compito del presente studio un esame approfondito della definizione di molestatore segugio assillante (stalker), delle complesse tipologie psichiatriche che detto termine contiene, delle complesse motivazioni che lo spingono ad agire e le sue possibilità di terapia psicologiche e psicoterapiche. Ugualmente, non è stato compito del presente studio una trattazione approfondita dell’attaccamento patologico del legame affettivo nei suoi difficili limiti tra normale e patologico e, specificamente, tra terapeuta e paziente; non è stato trattato la difficile e complessa relazione fra la psicopatologia del terapeuta e la psicopatologia del paziente, per cui si rimanda alla bibliografia (11).

Di fronte però alla realtà che spesso i terapeuti – e in particolare gli psichiatri – sono vittime per svariati motivi di pazienti con attaccamento patologico di tipo molestatore segugio assillante (non sono vittime quindi di molestie ma anche danni alla proprietà, agli animali e alla propria incolumità fisica, sino a tentativi omicidiari o omicidi attuati ), è parso utile segnalare una serie di errori (nel senso dell’inadeguatezza dell’approccio terapeutico e non, ripetiamo, nel senso medico legale con responsabilità professionale) nella gestione di detti pazienti. La conoscenza di queste inadeguatezze di interventi terapeutici sui pazienti, può portare in modo concreto a ridurre i rischi per un terapeuta di essere vittima di danni psichici e fisici o dell’eventualità che, al suo posto, i propri familiari o i propri beni materiali divengano l’obiettivo da punire e danneggiare.

1 Meloy RJ, The psychology of the stalkig: Clinical and Forensic Perspectives. San Diego: Academic Press 1998.

2 Pathè M, Surviving Satlking. Cambridge: Cambridge University Press 2002.

3 Mullen PE, Pathè M, Purchell, R. Stalkers and their victims. Cambridge: Cambridge University Press 2002.

4 Pathe M, Mulle. The impact of Stalkers on their visctims. Br J Psychiatry 1997;170:12-7.

5 Harmon R, Rosner R, Owens, H. Obsessional harassment and erotomania in a criminal court population. J Forensic Sci 1995;40:188-96.

6 Meissner WW. The paranoid process. New York: Jason Aronson 1978.

7 Rudden M, Sweeney J, Francis A. Diagnosis and clinical course of erotomanic and other delusional patients. Am J Psychiatry 1990;147:625-8.

8 Monahan J, Steadman H. Violence and mental disorder: Developments in risk assesment. Chicago: University of Chicago Press 1994.

9 Meloy JR. The clinical risk management of Stalking “Someone is watching over me �”. Am J Psychother 1997;51:174-84.

10 Meloy JR, Gothard S. Demografic and clinical comparison of obsessional followers and offenders with mental disorders. Am J Psychiatry 1995;152:258-63.

11 Nivoli GC. La patologia mentale del terapeuta e la patologia mentale del paziente: incontri e scontri. Milano: Hippocrates edizioni medico-scientifiche 2001.