L’ipomania farmacoindotta: una revisione della letteratura

Drug-induced hypomania: a review of literature

G. MAINA, G.E. MACCAFERRI, U. ALBERT, F. BOGETTO

Dipartimento di Neuroscienze, S.C.D.U. Psichiatria, Servizio per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino

Key words: Drug-induced hypomania • Bipolar disorder • Antidepressants

Correspondence: Prof. Giuseppe Maina, Dipartimento di Neuroscienze, S.C.D.U. Psichiatria, Servizio per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino, Via Cherasco 11, 10126 Torino – Tel. 011 6335425 – Fax 011 673473 – E-mail: giuseppemaina@hotmail.com

Introduzione

Per ipomania farmacoindotta si intende un quadro psicopatologico caratterizzato da abnorme elevazione del tono dell’umore ed altri sintomi ipomaniacali determinato da un agente farmacologico. A parte le sostanze psicoattive euforizzanti (quali gli amfetaminici o la cocaina, ad esempio), un quadro ipomaniacale può essere temporalmente in relazione con l’impiego di farmaci quali gli antidepressivi oppure agenti con diverso meccanismo d’azione ma che sono in grado di interferire anche sulle funzioni neurotrasmettitoriali (ad esempio i cortisonici o l’interferone).

Sia sul piano clinico che nosografico, l’ipomania farmacoindotta costituisce una questione aperta. Due sono i punti principali non definitivamente chiariti su cui si è accentrata l’attenzione dei ricercatori negli ultimi anni e che tuttavia appaiono ancora oggetto di discussione: 1. i criteri diagnostici per definire tale quadro clinico, in particolare per quanto concerne la differenziazione rispetto alla mania (discorso che vale in generale per tutti i quadri ipomaniacali, anche non in relazione con l’impiego di farmaci), e 2. più specificamente per l’ipomania farmacoindotta, se si tratti di una condizione peculiare in cui il farmaco è a tutti gli effetti l’elemento causale ovvero se si tratti di un quadro di ipomania in cui il farmaco ha al massimo il ruolo di fattore scatenante.

Definizione di ipomania e criteri diagnostici

Per quanto concerne il primo punto, va detto che non esistono ancora dei criteri univoci che definiscano l’ipomania indotta da farmaci. Diversi autori la riconoscono e l’hanno studiata, ma molto spesso i criteri che propongono non coincidono con quelli proposti da altri, soprattutto per quanto concerne la relazione temporale con l’assunzione di farmaci e la durata dell’episodio, mentre la descrizione sintomatologica appare identica a quella di altre condizioni ipomaniacali. Per la discussione di questo primo punto, quindi, faremo riferimento alla ipomania in generale.

Per quanto concerne i sintomi ipomaniacali, il corredo sintomatologico descritto dal DSM-IV TR (1) che definisce i confini dell’ipomaniacalità rispetto alla mania, da un lato, e ad una condizione non-patologica, dall’altro, non sono da tutti giudicati sufficienti. Il DSM-IV TR (1) definisce l’episodio ipomaniacale come un periodo di alterazione dell’umore durante il quale sono presenti tre o più (4 se l’umore è solo irritabile) dei seguenti sintomi: 1) autostima ipertrofica o grandiosa; 2) diminuito bisogno di sonno; 3) maggiore loquacità del solito, oppure spinta continua a parlare; 4) fuga delle idee o esperienza soggettiva che i pensieri si succedano rapidamente; 5) distraibilità; 6) aumento dell’attività finalizzata, oppure agitazione psicomotoria; 7) eccessivo coinvolgimento in attività ludiche che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose. Tra i criteri sintomatologici previsti, e su cui vi è ampio consenso, vi è la specificazione che gli aspetti caratteristici della ipomania precedentemente citati devono essere osservati da altri e rappresentare un cambiamento rispetto ad un ‘normale’ stato d’essere del soggetto (ciò permette di distinguere l’ipomania da condizioni non patologiche). Rispetto ad una condizione maniacale, invece, sempre per quanto riguarda la sintomatologia, l’ipomania si differenzia per l’assenza di sintomi psicotici (che se presenti definiscono un quadro maniacale); su tale aspetto vi è ampio consenso in letteratura. Il DSM-IV prevede inoltre che la mania sia definita da un quadro clinico di tale gravità da richiedere un ricovero (e questo aspetto riprende quanto identificato inizialmente da Dunbar che per primo identificò il disturbo bipolare di tipo II in quelle forme in cui il paziente veniva ricoverato per episodi depressivi maggiori ma mai per episodi di polarità opposta) o da compromettere significativamente il funzionamento del soggetto. Questi due ultimi punti appaiono meno facilmente e chiaramente definibili, e pertanto spesso una corretta identificazione e differenziazione tra episodio ipomaniacale e maniacale può essere difficile e richiedere una esperienza clinica notevole. Rimane la considerazione generale che i quadri ipomaniacali, talvolta, possono comunque non essere di per sé distruttivi come quelli maniacali e anzi adattativi (2) (3).

Due ampi studi sono stati condotti nel tentativo, tra altri, di descrivere clinicamente l’ipomania, uno a Memphis da parte i Akiskal e colleghi (4) (5) e il secondo, epidemiologico, nell’area di Zurigo sulla popolazione generale da parte di Angst e collaboratori (6). Akiskal e colleghi descrivono tra i sintomi caratterizzanti gli stati ipomaniacali: vivacità e giocondità, aumentata spinta e comportamenti sessuali, iposonnia, eutonia e vitalità, ipercoinvolgimento in nuovi progetti (2)-(4). In particolare, secondo Akiskal, un ruolo centrale e primario in senso psicopatologico, rivestirebbe l’iperattività rispetto al ruolo centrale riservato all’elevazione del tono dell’umore dal DSM-IV (e questo varrebbe sia per i quadri ipomaniacali che maniacali). Anche Angst (7) elenca tra i sintomi caratteristici dell’ipomaniacalità la maggiore energia, la mancanza di sonno, il maggior coinvolgimento in attività sociali (come telefonate, visitare altre persone), la facilità nello spendere molti soldi, l’avere numerosi progetti anche se mal definiti, l’aumentato consumo di caffè, sigarette e alcool.

Per quanto riguarda l’ipomania farmacoindotta (che diviene per la prima volta manifesta in corso di trattamento farmacologico) una descrizione ampia e specifica viene fornita da Bunney (8). Pur non essendo caratterizzata da alcun sintomo patognomonico, o differente rispetto a quelli che caratterizzano altri quadri ipomaniacali non associati all’impiego di farmaci, si tratterebbe, rispetto all’ipomania spontanea, di una forma più lieve caratterizzata da un più moderato aumento dell’attività motoria e verbale, da una più lieve fuga delle idee con moderata grandiosità, da un ridotto bisogno di sonno.

Per quanto riguarda invece la durata minima che deve avere un episodio ipomaniacale, sia esso spontaneo o farmacoindotto, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (1) definisce un episodio ipomaniacale come un periodo che dura ininterrottamente per almeno 4 giorni, mentre per l’episodio maniacale è richiesta una durata di almeno 1 settimana. Il termine fissato a 4 giorni dal DSM-IV per la durata di un episodio ipomaniacale risulta arbitrario e discutibile per molti autori, soprattutto non giustificato da alcun lavoro scientifico.

Gli autori che criticano tale indicazione di durata (scuola di Akiskal e di Angst) si rifanno a due grossi studi condotti prima della pubblicazione del DSM-IV, i già citati studi di Memphis e di Zurigo (4)-(6). Il primo studio ha utilizzato i criteri per l’ipomania descritti dalla lista dei segni e dei sintomi maniacali della Washington University (9), criteri sintomatologici che verranno poi recepiti dall’American Psychiatric Association e codificati nelle varie versioni del DSM fino al DSM-IV-TR, per identificare la proporzione di soggetti depressi che sviluppavano in un follow-up di 3-4 anni episodi ipomaniacali associati all’impiego di antidepressivi. Tuttavia hanno definito a priori una durata dell’episodio ipomaniacale superiore o uguale a due giorni, sulla base della loro esperienza clinica; in tale studio hanno rilevato che il 50% dei soggetti con diagnosi a posteriori di disturbo bipolare sviluppava episodi ipomaniacali farmacoindotti contro il 4,5% dei soggetti la cui diagnosi rimaneva di depressione unipolare anche al follow-up; tali episodi avevano una durata compresa tra 2 e 4 giorni, si verificavano tra il quarto e il dodicesimo giorno dall’inizio del trattamento e si risolvevano spontaneamente o con la riduzione del dosaggio dell’antidepressivo. Oltre al fatto che tali episodi ipomaniacali farmacoindotti erano altamente predittivi dello sviluppo di simili episodi spontanei nel follow-up, vale la pena sottolineare il rilievo, in tale studio, di una durata compresa tra 2 e 4 giorni. Secondo i rigidi criteri del DSM-IV tali episodi non potrebbero venire classificati come episodi di alterazione del tono dell’umore, indipendentemente dalla considerazione della loro associazione con l’impiego di antidepressivi, e da un punto di vista clinico, si perderebbe un importante elemento utile ai fini di una adeguata gestione del paziente.

Il secondo studio storico alla base della attuale proposta di revisione del criterio della durata di 4 giorni è uno studio epidemiologico condotto sulla popolazione generale dell’area di Zurigo fino ai 35 anni di età. In tale studio venivano indagati gli episodi di elevazione del tono dell’umore indipendentemente dalla loro durata, il che ha permesso di rilevare una significativa quota di episodi ipomaniacali cosiddetti brevi (2,8% del campione totale, oltre ad un 5,5% di prevalenza lifetime di episodi ipomaniacali e maniacali definiti con i criteri del DSM) (7); la durata modale (quella più frequentemente rilevata) di tali episodi ipomaniacali era di 1-3 giorni.

Questi stessi autori propongono oggi (in periodo DSM-IV) di non tenere conto dei 4 giorni ma considerare un limite di almeno 2 giorni per definire la durata di un episodio ipomaniacale, indipendentemente dalla associazione o meno del suo esordio con l’impiego di agenti farmacologici (10).

Una conferma indiretta a sostegno di questa posizione viene da uno studio italiano condotto sui bipolari tipo II (11): quando veniva usato il criterio di 2 giorni o più per la durata dell’episodio ipomaniacale anziché quello di 4 giorni proposto dal DSM-IV i soggetti così identificati come bipolari di tipo II avevano una familiarità per disturbi bipolari uguale a quella dei bipolari di tipo I e significativamente superiore a quella dei soggetti che rimanevano con una diagnosi di disturbo depressivo maggiore unipolare, mentre con i criteri del DSM-IV la familiarità per disturbo bipolare tra i soggetti con disturbo bipolare II era uguale a quella dei soggetti con depressione maggiore.

Altri due grossi studi epidemiologici, oltre a quello di Angst e colleghi, hanno impiegato recentemente i criteri di durata allargati e hanno così rilevato un aumento significativo della prevalenza lifetime di disturbo bipolare nella popolazione generale: il primo studio, condotto su un campione di adolescenti dell’Oregon, ha rilevato una prevalenza del 5,7% (12) e il secondo, condotto in Ungheria, del 5% (13). Anche numerosi studi clinici condotti recentemente hanno sottolineato l’importanza prognostica di rilevare la presenza di episodi ipomaniacali di durata breve, usando il limite temporale di 2 anziché 4 giorni (14).

Sulla base delle considerazioni precedentemente fatte e sui dati emergenti dai lavori precedentemente citati, una Consensus Conference internazionale tenutasi a Barcellona sul disturbo bipolare ha suggerito, tra altre cose, questo periodo di 2 giorni come il cut-off più appropriato per definire una condizione di ipomania (10).

Ipomania farmacoindotta

Per ipomania farmacoindotta si intende un quadro sintomatologico ipomaniacale il cui esordio è associato all’impiego di un farmaco, in genere un antidepressivo. Da un punto di vista sintomatologico, come già accennato nel paragrafo precedente, non sembra vi siano differenze tra quadri ipomaniacali farmacoindotti e spontanei (cioè esorditi spontaneamente in soggetti che non assumevano antidepressivi o altri farmaci); secondo Bunney (8) si tratterebbe, in certi casi, di forme più lievi rispetto alle ipomanie spontanee, caratterizzate da un più moderato aumento dell’attività motoria e verbale, da una più lieve fuga delle idee con moderata grandiosità, da un ridotto bisogno di sonno.

L’unico aspetto differenziale rimane la relazione temporale tra assunzione del farmaco ed esordio della sintomatologia ipomaniacale. Nel DSM-IV l’ipomania farmacoindotta rientra tra i Disturbi dell’Umore Indotti da Sostanze: il Manuale specifica che i sintomi ipomaniacali devono comparire entro un mese dall’inizio dell’assunzione del farmaco senza indicare la durata minima che deve avere l’episodio di alterazione patologica dell’umore (è previsto anche che i sintomi esordiscano entro un mese dalla sospensione di una sostanza, come ad esempio nel caso di un disturbo dell’umore da sospensione di cocaina). Akiskal stabilisce che tale condizione patologica di alterazione dell’umore viene soddisfatta se i sintomi precedentemente enunciati compaiono entro 4 settimane dall’inizio del trattamento farmacologico (4) (5) (15). Secondo tali descrizioni l’ipomania farmacoindotta configurerebbe una sindrome ipomaniacale il cui esordio è associato temporalmente all’inizio di un trattamento antidepressivo (e in questo caso il DSM-IV prevede che non si possa ‘contare’ tale episodio per una diagnosi di disturbo bipolare), mentre non è previsto che possa configurarsi un quadro ipomaniacale ad esordio temporalmente associato ad un incremento di dosaggio dell’antidepressivo, quasi che in questo secondo caso il quadro clinico-sintomatologico possa essere considerato indicativo di un disturbo bipolare.

Manca inoltre una discussione adeguata in letteratura sulla durata della relazione farmaco-ipomania: in altre parole, non è chiaro se l’ipomania farmacoindotta sia solo quella che regredisce con la sospensione del trattamento (o con la riduzione del dosaggio) oppure se si possa considerare tale anche quella che prosegue autonomamente, cioè indipendentemente dalla riduzione o dalla cessazione del farmaco. Il DSM-IV è ambiguo a tale proposito; è specificato che per la diagnosi di disturbo dell’umore indotto da sostanze non vi deve essere evidenza che i sintomi siano meglio interpretabili come non indotti da sostanze, e tra le evidenze in tal senso vengono citati: il fatto che i sintomi siano presenti prima dell’inizio dell’impiego del farmaco; che i sintomi persistano per un periodo di tempo sostanziale (ad esempio un mese) dopo la fine della intossicazione da sostanze; che, infine vi siano altre evidenze di un disturbo primario dell’umore come la presenza di ricorrenti episodi depressivi maggiori. Secondo Bunney (8), l’ipomania farmacoindotta può durare anche solo due giorni mentre la mania farmacoindotta si protrae a volte anche per alcune settimane, quasi che i quadri maniacali il cui esordio è associato all’impiego di antidepressivi siano da considerarsi quadri sintomatologici che si mantengono spontaneamente anche al di là dell’interruzione del trattamento antidepressivo (e quindi indicativi di un disturbo bipolare) mentre i quadri ipomaniacali rimangono scarsamente inquadrabili.

Tutti i dibattiti sulla esistenza o meno dell’(ipo)mania farmacoindotta e sulla sua definizione diagnostica sono questioni solo apparentemente teoriche, poiché concernono un cruciale problema della psichiatria: è possibile indurre la bipolarità oppure la si può scatenare solo in chi è costituzionalmente predisposto? È naturalmente un punto nodale della ricerca in campo psichiatrico che investe la nosografia, la clinica e la terapia della maggior parte dei disturbi psichici. Se la bipolarità è una condizione ‘acquisita’, indotta ad esempio da sostanze esogene, può interessare qualsiasi individuo in trattamento antidepressivo. In questo caso, si dovrebbe considerarla un possibile evento avverso di trattamenti molto diffusi di cui occorrerebbe conoscere meglio i fattori di rischio e i controprovvedimenti terapeutici. Nel caso invece in cui il farmaco avesse solo un ruolo scatenante di una condizione che richiede comunque una predisposizione ‘endogena’, questo comporterebbe il dover considerare affetto da disturbo bipolare l’individuo che presenti questa condizione con gli immediati provvedimenti terapeutici del caso. Significativi a questo proposito sono i risultati del già citato studio di Akiskal et al. (5); gli episodi ipomaniacali farmacoindotti erano in genere di breve durata (compresa tra 2 e 4 giorni), si verificavano tra il quarto e il dodicesimo giorno dall’inizio del trattamento e si risolvevano spontaneamente o con la riduzione del dosaggio dell’antidepressivo. Tali episodi non potrebbero essere considerati episodi ipomaniacali validi ai fini di una diagnosi di disturbo bipolare con gli attuali criteri del DSM-IV, anche se il 50% dei pazienti la cui diagnosi era, al follow-up di 3-4 anni, di disturbo bipolare (episodi ipomaniacali o maniacali spontanei durante il periodo di follow-up) risultava aver sperimentato ipomanie farmacoindotte contro solo il 4,5% dei pazienti la cui diagnosi era rimasta di disturbo depressivo maggiore.

Secondo tali risultati, quindi, l’ipomania farmacoindotta risulterebbe essere un forte predittore di sviluppo successivo di episodi ipo- o maniacali spontanei, e quindi altamente indicativa di una predisposizione ‘endogena’ alla bipolarità, piuttosto che da considerarsi come effetto avverso dei farmaci.

Ciononostante il dibattito rimane tuttora aperto, anche in considerazione del fatto che quadri ipomaniacali farmacoindotti (associati all’impiego di antidepressivi) sono segnalati in letteratura anche in altre condizioni psicopatologiche oltre alla depressione maggiore: sia in soggetti con diagnosi di distimia (16) (17) che in pazienti con disturbi d’ansia (fobia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo di panico) (18) (19).

Farmaci

Per quanto riguarda invece i diversi farmaci antidepressivi (AD) ed il potere relativo di indurre o meno episodi ipomaniacali, non tutti i farmaci AD si comportano nello stesso modo. Al momento attuale, tuttavia, gli studi sono focalizzati sulla potenzialità differenziale dei vari farmaci antidepressivi di indurre switch ipomaniacali o maniacali quando impiegati in soggetti con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva. Sono del tutto iniziali, come accennato nel paragrafo precedente, gli studi sulla capacità degli antidepressivi di indurre switch ipomaniacali in disturbi diversi da quelli dell’umore; inoltre, i pochi studi (alcuni dei quali descrizioni di singoli casi o di serie di casi clinici) condotti in disturbi non dell’umore, quali i disturbi d’ansia, non consentono al momento attuale di identificare fattori predittivi di switch, vista l’esiguità dei campioni studiati. Non è quindi possibile, per il momento, stabilire se in soggetti con disturbi diversi da quelli dell’umore trattati con antidepressivi gli episodi ipomaniacali associati all’impiego di farmaci siano da considerarsi un effetto avverso da farmaci o piuttosto identifichino soggetti con caratteristiche peculiari di predisposizione alla bipolarità. In tal senso Akiskal et al. (10) concludono che in una significativa minoranza di casi, che loro considerano bipolari di tipo II, la fase depressiva del disturbo potrebbe venir sostituita o mascherata da sintomi depressivi sottosoglia con importanti aspetti fobico-sociali o sintomi ossessivo-compulsivi. Lo sviluppo di ipomania farmacoindotta in tali soggetti rappresenterebbe dunque un marker importante di bipolarità e dovrebbe indurre alla impostazione di opportuni provvedimenti terapeutici.

Per quanto riguarda gli studi condotti su pazienti bipolari in fase depressiva, è provato che i trattamenti con inibitori del re-uptake della serotonina (SSRI) presentano un rischio minore rispetto ai Triciclici (TCA) di induzione di iperattivazione del tono dell’umore (20)-(22). Senza pretendere di fare una revisione approfondita degli studi sull’argomento, riportiamo alcuni esempi: Peet (21) ha riscontrato un tasso di switch maniacale statisticamente più basso quando vengono utilizzati paroxetina o sertralina (3,7%) al posto dei TCA (11,2%). Boerlin (20) sottolinea come gli antidepressivi triciclici, oltre ad indurre con maggior frequenza gli stati di (ipo)mania, sono anche associati con switch di intensità maggiore se confrontati con gli inibitori delle monoamine ossidasi (IMAO) o con la fluoxetina. Da questo punto di vista gli SSRI appaiono farmaci più sicuri come anche segnalato dai risultati di una analisi dei dati di letteratura condotta da Montgomery nel 1995 (23). Secondo questo studio, infatti, la percentuale di switch in corso di trattamento con SSRI è complessivamente del 2-3% versus 11% di switch indotti da TCA.

Sulla base di questi (come di altri) studi è ormai dato acquisito e condiviso dalla comunità scientifica che, tra tutti gli antidepressivi, gli SSRI rappresentino i farmaci di prima scelta, associati ad uno stabilizzatore del tono dell’umore, nel trattamento degli episodi depressivi di un disturbo bipolare (24) (25). All’interno poi della classe farmacologica degli SSRI, la fluoxetina sembra indurre un più severo e prolungato stato maniacale dovuto probabilmente alla sua lunga durata d’azione (26), ragione per la quale andrebbero preferiti altri farmaci della stessa classe.

Sono invece ancora scarsi gli studi su mirtazapina e venlafaxina utilizzati anch’essi nel trattamento degli episodi depressivi maggiori in soggetti con diagnosi di disturbo bipolare; i primi dati sembrano indicare che il rischio di switch (ipo)maniacale in pazienti trattati con mirtazapina o venlafaxina sia ancora più basso rispetto a quello esistente in corso di terapia con SSRI, anche se tale affermazione resta da validare in studi futuri. Ad esempio Montgomery, nel precedentemente citato lavoro del 1995, suggerisce che la terapia con mirtazapina comporti sintomi maniacali solo nello 0,25% dei pazienti (23). Anche la venlafaxina sembra indurre basse percentuali di (ipo)mania farmacoindotta (27) (28). Questa bassa propensione ad indurre switch ipomaniacali dei nuovi farmaci antidepressivi è confermata dai risultati di un recente nostro lavoro condotto su pazienti che avevano ricevuto un trattamento antidepressivo non per disturbo bipolare; su 164 trattamenti antidepressivi con SSRI, mirtazapina o venlafaxina in monoterapia, nessun caso di switch ipomaniacale o maniacale era associato ad un trattamento con mirtazapina o venlafaxina (29).

Conclusioni

Da quanto sottolineato nei precedenti paragrafi appare evidente come ancora molti aspetti riguardanti l’ipomania farmacoindotta debbano essere meglio approfonditi e supportati da ulteriori dati clinici. Rimangono infatti ancora aperte numerose questioni, sia riguardo all’ipomania che alla ipomania farmacoindotta; innanzitutto andrà approfondito lo studio delle caratteristiche sintomatologiche differenziali tra ipomania e mania; altro aspetto rilevante per la diagnosi di ipomania è rappresentato dalla definizione più appropriata di una durata minima per l’episodio ipomaniacale (2 o 4 giorni); per quanto riguarda nello specifico l’ipomania farmacoindotta rimane da verificarne la consistenza clinica: si tratta di un indicatore di bipolarità o va considerato un effetto avverso da farmaci indipendente da una predisposizione allo sviluppo di disturbo bipolare e non indicativo di futura evoluzione verso un disturbo bipolare manifesto? La risposta a tale quesito influenzerà in modo sostanziale la pratica clinica giornaliera e consentirà di trattare al meglio i nostri pazienti. Al momento attuale è positivo che la ricerca stia spostando la propria attenzione allo studio anche delle ipomanie farmacoindotte in disturbi diversi da quelli dell’umore quali i disturbi d’ansia.

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