Lo spettro della fobia sociale e lo spettro dei comportamenti fobico-sociali

Social phobia spectrum and social phobic behaviours spectrum

P. Castrogiovanni, A. Goracci, P. Bisconti, A. Della Pepa

Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Siena

Key words: Social Phobia • Social Avoidance Behaviours • Social Anxiety Spectrum
Correspondence: Prof. Paolo Castrogiovanni, Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Policlinico “Le Scotte”, viale Bracci 1, 53100 Siena – E-mail: Castrogiovan@unisi.it

Introduzione

La paura ed il conseguente evitamento di situazioni nelle quali l’individuo è esposto al giudizio degli altri, il disagio in situazioni interpersonali e l’ansia anticipatoria che lo precede, le intense reazioni emotive che il soggetto è incapace di controllare, il timore di agire in modo inadeguato e di mostrarsi goffo o ridicolo rappresentano il nucleo psicopatologico della Fobia Sociale Generalizzata (DSM IV-TR, 2000). I soggetti con Fobia Sociale temono di essere osservati e di divenire oggetto di scherno da parte degli altri; tale timore è sproporzionato rispetto alle situazioni da affrontare, quelle quotidiane, routinarie come chiedere informazioni, entrare in un bar, telefonare alla presenza di qualcuno.

Al momento in cui il fobico sociale è costretto ad esporsi, manifesta spiccati ed eclatanti sintomi di attivazione neurovegetativa tra cui palpitazioni, vertigini, tremori, rossore, sudorazione, vampate di calore. Il timore che possa sopravvenire un tale sconvolgimento emotivo (anche semplicemente il rossore del volto) monopolizza l’attenzione del soggetto che si concentrerà unicamente sull’atteggiamento dell’interlocutore, per capire se il disagio è stato percepito e, in questo caso, l’elevazione dei livelli di ansia aumenta la tensione così da determinare, realmente, difficoltà sul piano comportamentale, le quali, a loro volta, rinforzano i timori del soggetto.

A differenza di quella Generalizzata, che si estende a varie e molteplici attività ed è presente in tutti i contesti che richiedono interazioni con persone non familiari, la Fobia Sociale Specifica o Circoscritta si limita ad una o poche situazioni, riguardanti in genere azioni che il paziente deve eseguire mentre è osservato, ad esempio esibirsi o parlare di fronte ad un uditorio, o comunque di fronte ad un gruppo di persone, bere o mangiare in pubblico, scrivere in presenza di altri, utilizzare i bagni pubblici.

Comunemente nei pazienti con Fobia Sociale, sia essa Generalizzata che Circoscritta, le situazioni da evitare si delineano rapidamente e l’evitamento, che è esteso progressivamente a tutte le occasioni di contatto sociale, diviene una delle caratteristiche psicopatologiche nucleari del disturbo, mantenendosi stabile nel tempo e causando una grave compromissione della vita del soggetto (1) poiché la gran parte (85%) dei fobico-sociali tende a mettere in atto comportamenti evitanti (2).

Le difficoltà di stabilire adeguati rapporti sociali sono vissute in maniera distonica, ed anche nei casi più gravi il paziente si lamenta dell’isolamento e del ritiro in cui è costretto a vivere.

Ma, dal punto di vista clinico, anche in molte altre diverse condizioni psicopatologiche, il comportamento del soggetto è fortemente influenzato, come accade nella Fobia Sociale, dagli “evitamenti” e dal ritiro sociale, dalla vergogna e dal timore del giudizio. In altre parole i comportamenti, genericamente etichettati come fobico sociali, oltre ad esprimersi nella Fobia Sociale come elementi primari e nucleari (Spettro della Fobia Sociale) possono altresì ritrovarsi in condizioni ascrivibili alla normalità ed in molte altre patologie, riconducibili a raggruppamenti nosografici decisamente diversi in cui, comunque, comportamenti di evitamento sociale possono ritrovarsi, con maggiore o minore costanza, andando a costituire una sorta di “Spettro dei comportamenti Fobico Sociali”.

Il nucleo psicopatologico che accomuna queste condizioni, sia patologiche che non, è la sensibilità al giudizio degli altri anticipato come negativo. Il giudizio, da parte degli altri, è un concetto assai vasto che comprende quello, di natura morale, sull’operato, sulle azioni già compiute, che può rinforzare il senso di colpa e l’autosvalutazione (“penso che gli altri valutino negativamente ciò che ho fatto”), così come quello anticipato su ciò che si sta per fare, sulla prestazione, nella esigenza, socialmente determinata, di aver successo, di riuscire, di essere capace, di essere apprezzati per ciò che sappiamo fare. In quest’ultimo caso il giudizio riguarda la prestazione ed il suo prodotto; l’ansia che ne deriva è, appunto, l’ansia prestazionale ed è sottesa dall’insicurezza rispetto alle proprie capacità, alla propria preparazione specifica, all’essere all’altezza della situazione.

Nell’ansia sociale il giudizio temuto non riguarda né gli aspetti morali (l’azione già compiuta), né le capacità prestazionali (il prodotto dell’azione che si va a compiere), quanto l’intero essere, se stessi come persona, indipendentemente dai connotati morali e dalle qualità intellettive. Il dubbio che sottende l’ansia sociale è un generico: “che cosa penseranno di me?”, ove il problema non è quello di essere all’altezza nel senso del prodotto della prestazione, ma quello di essere adeguato nel momento della esposizione e della interazione sociale (3).

Quindi, a ben guardare, nell’ambito di questa sensibilità al giudizio che sottende la vasta gamma degli evitamenti che noi definiamo, in modo aspecifico, comportamenti fobico-sociali che si presentano in diverse condizioni, quella esperita dal fobico sociale si ritaglia una connotazione psicopatologica peculiare che ne permette una caratterizzazione e una differenziazione rispetto ad altre condizioni fenomenicamente simili, ma strutturalmente diverse.

La psicopatologia della Fobia Sociale e del suo spettro

La fobia sociale

Come abbiamo avuto occasione di sottolineare in altra sede (3), la vergogna, l’imbarazzo, il pudore sono le istanze fondamentali su cui si costruisce il mondo dell’ansia sociale. Tuttavia, se ci rifacciamo al significato corrente di questi termini, così come lo ritroviamo scheletricamente riassunto nel vocabolario, non cogliamo il nucleo del problema di colui che esperisce l’ansia sociale, tanto più se questa è a livelli di franca patologia.

La vergogna, nel vocabolario, è definita come un “senso di tristezza e di avvilimento che nasce dall’essere consapevole di aver commesso una cattiva azione”. Come sinonimi ritroviamo pudore, timidezza, così come disonore. Significativo il fatto che il sentimento di chi si vergogna traduca la parola latina “pudor”. In questa accezione, la vergogna è collegata alla colpa e, quindi, ad una azione già compiuta (“provo vergogna di aver fatto una certa cosa”).

La vergogna, nell’ansia sociale è, sostanzialmente, tutt’altro e concerne la sensazione che accompagna certe azioni nel momento in cui vengono compiute, specialmente se alla presenza di qualcuno (“mi vergogno a fare una certa cosa”). Si ricollega quindi al significato della parola imbarazzo.

Anche per imbarazzo la definizione del vocabolario (“un impedimento, un ostacolo che intralcia l’azione e il movimento, oltre che uno stato di disagio e perplessità”) è troppo ampia.

Nell’ansia sociale l’imbarazzo è il non sentirsi a proprio agio (disagio), ma lo è perché ci si vergogna, nel senso sopra detto, di ciò che stiamo facendo, ancora una volta in presenza di qualcuno.

Non vi è chi non colga il rimando di questi termini al pudore, definito come un “senso di riserbo e di ritrosia per tutto ciò che non è casto” e addirittura come un “sentimento di avversione verso cose che appaiono oscene e disoneste”; in latino, tra i significati del termine “pudor”, oltre che pudore, vergogna e riserbo, ritroviamo, infatti, il significato di “castità”.

Il “comune senso del pudore” è concetto assai vago e variabile, ma tende ad essere comunque riferito primariamente ad organi e comportamenti relativi alla sessualità e alle funzioni escretorie.

Nel caso della “fobia” dei bagni pubblici, forma particolare di fobia sociale, il problema dell’essere “scoperto”, della nudità, della esibizione dei genitali, della pubblicità delle funzioni escretorie è sostanzialmente esplicito. Ma non potremmo assumere la “nudità” come essenza della “Fobia Sociale”? Nel linguaggio metaforico diciamo “mettersi a nudo”, “scoprirsi”, quasi un togliersi una veste per mostrarsi così come siamo, difficilmente di fronte ad estranei, più agevolmente con persone di confidenza e degne della nostra fiducia.

Una nudità che, per il timido, riguarda l’esposizione dei sentimenti messi allo scoperto, mentre per il fobico sociale concerne il corpo come se fosse esposto senza ritegno!

Nell’ansia sociale il problema del mostrarsi non è relativo alle funzioni escretorie o sessuali, ma la sensazione che prova colui che ne soffre è certamente assai simile a quella che proverebbe una persona normalmente pudica quando dovesse esporsi agli sguardi altrui mentre compie certe funzioni. L’esposizione è la presentazione della propria persona, nella sua globalità, fatta di caratteristiche psicologiche, ma anche dotata di un corpo che, seppur animato da uno “spirito”, è ciò che viene esposto primariamente, è l’oggetto concreto che si interfaccia con gli altri, il “biglietto da visita” nelle relazioni interpersonali, l’oggetto privilegiato nell’osservazione altrui.

Esporsi vuol dire uscire allo scoperto, farsi vedere prima di tutto nel proprio essere corporeo e, inesorabilmente, essere sottoposto al giudizio degli altri.

Quasi un “imbarazzo” aspecifico e generico, quasi una “vergogna” dell’intero mio essere nel momento di uscire allo scoperto, quasi, quindi, un “pudore” che coinvolge tutte le azioni, anche le più banali e normali. Si va quindi al di là del “comune senso del pudore” tradizionalmente limitato a specifiche funzioni, escretorie o sessuali che siano, per entrare in un pudore che riguarda aspetti più generali, dove il senso di privato e personale, insito nel pudore, è più immediatamente condivisibile nel caso del “pudore” dei propri sentimenti e della vergogna che consegue al loro palesarsi ad altri, tipico del timido.

È più difficilmente comprensibile quando, come nel fobico sociale, il “pudore” e la vergogna riguardano il corpo nella sua globalità, nel suo essere artefice di gesti e di azioni, quindi nel suo muoversi nello spazio perché potrebbe essere giudicato goffo, impacciato, ridicolo.

Ed il vero “oggetto fobico” del fobico sociale, contrariamente a quanto la denominazione stessa lascerebbe intendere, non è rappresentato dalle situazioni sociali o di esposizione, ma l’oggetto che rappresenta il problema del fobico sociale è costituito da se stesso: le situazioni sociali sono solo le condizioni in cui il problema si palesa. Se ciò che mette in crisi il fobico sociale è il proprio corpo, il proprio corpo in movimento e in “esposizione” di fronte ad altri, le situazioni sociali sono, semplicemente, il contesto in cui ciò si verifica ed è per questo che sono temute ed evitate.

La timidezza

La differenza tra timidezza e Fobia Sociale, appare quindi sostanziale. Si tratta in tutti e due i casi di un’”ansia sociale” che comprende la vergogna e l’imbarazzo. Ma se nel fobico sociale la vergogna e l’imbarazzo riguardano il corpo, che si presenta nello spazio di fronte ad altri nelle sue espressioni comportamentali o gestuali, con il timore e con l’anticipazione di apparire ridicolo, goffo ed inadeguato, nel timido la vergogna e l’imbarazzo sono elettivamente centrati al campo degli affetti e invadono il soggetto nel momento in cui i suoi sentimenti traspaiono o dovrebbero essere espressi. Una vergogna e un imbarazzo – diremmo un pudore – nei confronti dei moti d’animo che la persona prova, e non tanto dei suoi comportamenti o atteggiamenti corporei, a meno che non siano espressivi di un sentimento.

Il fobico sociale, se dovesse esprimere i propri sentimenti senza modalità comportamentali (mimiche, gestuali ecc.) forse non avrebbe problemi, tanto quanto il timido probabilmente non avrebbe problemi in una relazione sociale nella quale non traspaiano i propri sentimenti (3).

La Fobia Sociale, si differenzia dalla timidezza per alcuni aspetti principali anche dal punto di vista strettamente clinico-descrittivo.

Innanzi tutto l’esordio sembra più precoce nella timidezza, che probabilmente compare nella fanciullezza, dove si esprime già un malessere relazionale, fatto di inibizione e di disagio; la Fobia Sociale fa il suo esordio, invece, più tardivamente, nell’adolescenza o nell’età giovane-adulta (4); inoltre se il soggetto timido si lamenta di essere solo, di avere dei problemi a farsi degli amici o dei confidenti, le difficoltà sono temporanee e contestuali, mentre il fobico sociale vede i suoi problemi generalizzarsi e cronicizzarsi.

Alcuni Autori riportano nella Fobia Sociale una minore presenza di pensieri positivi ed una maggiore frequenza di pensieri negativi, rispetto ai controlli, durante le interazioni sociali (2) (5), mentre in uno studio del 1983, Ludwing & Lazarus (6) hanno osservato che il bambino timido si preoccupa della valutazione sociale e del monitoraggio della propria performance tanto da compromettere la prestazione stessa.

Sia nella timidezza che nella Fobia Sociale possono essere presenti comportamenti di evitamento, secondari all’ansia sociale, capaci di produrre deficit sociali importanti.

Il Disturbo Evitante di Personalità

Dello spettro della Fobia Sociale (FB), da alcuni Autori definita Ansia Sociale (7), fa parte anche il Disturbo Evitante di Personalità, definito dal DSM-IV-TR (2000) come “una modalità pervasiva d’inibizione sociale, con sentimenti d’inadeguatezza e ipersensibilità alla valutazione negativa, che compare entro la prima età adulta”. Si tratta della rivisitazione di ben conosciuti quadri psicopatologici, variamente definiti, come il “sentiment d’incompletude” di Janet, la “depression d’inferiorité” di Pasche, il “carattere fobico con timidezza e comportamento improntato all’evitamento” di Widlocher e Basquin (8).

Il DSM definisce questo quadro in base alle modalità comportamentali (l’evitamento) anziché in riferimento alle caratteristiche della personalità (l’insicurezza di sé): scelta discutibile perché, come detto precedentemente, la condotta di evitamento può essere espressione di situazioni diverse. Inoltre è discutibile, e la diagnosi differenziale è difficile, anche la distinzione tra Disturbo Evitante di Personalità e FS, benché la FS sia circoscritta a situazioni specifiche ed il Disturbo Evitante di Personalità comprenda invece le relazioni interpersonali in generale (2) (9).

Se si accetta l’ipotesi del continuum dell’ansia sociale, riguardo alla collocazione del Disturbo Evitante di Personalità sono possibili due ipotesi: che questo rappresenti l’estrema, finale generalizzazione del quadro fobico (10), oppure che l’assetto personologico sia la matrice sulla quale i sintomi fobici si sviluppano.

Studi diversi (2) (11) (12) hanno dimostrato che la FS ed il Disturbo Evitante non sono diversi dal punto di vista psicopatologico e cognitivo, ma sul piano pratico i pazienti con Disturbo Evitante presentano un più grave disagio sociale, una maggiore tendenza all’evitamento, ed un livello più alto di sensibilità interpersonale.

Heimberg et al. (13) hanno sottolineato inoltre che, mentre i pazienti social-fobici vivono con grande disappunto il loro disturbo e quindi cercano in ogni modo di combattere la loro ansia sociale, i soggetti con il Disturbo Evitante accettano con maggior rassegnazione le limitazioni che esso comporta, e quindi finiscono per non mettere in atto alcuna strategia che possa favorire in qualche modo le loro interazioni sociali.

Questa differenza (qualitativa e non quantitativa, come ribadito da Widiger nel 1992 (14)) di carico psicopatologico tra i due disturbi porterebbe delle conseguenze anche sulla risposta alla terapia; infatti i soggetti social-fobici che soddisfano anche i criteri per il Disturbo Evitante rispondono con maggior difficoltà al trattamento di desensibilizzazione rispetto ai pazienti che presentano soltanto la FS (15).

Più recentemente Fahlèn (16) è tornato ad interrogarsi sulla validità della distinzione tra FS e Disturbo Evitante, avanzando il dubbio che l’aver diviso le due diagnosi possa in qualche modo aver limitato le ricerche riguardo alle caratteristiche della FS definite come “tratti”; sarebbe pertanto impossibile sapere se ed in quale misura parlare di Disturbo Evitante possa coprire certi tratti maladattativi appartenenti alla FS. L’autore ha avanzato quindi l’ipotesi che la FS possegga dei “tratti” duraturi, e che essi comprendano in definitiva anche i tratti del Disturbo Evitante.

Nel Disturbo Evitante il ruolo della sensibilità al giudizio, che rappresenta comunque il trait-d’union con gli altri disturbi dello spettro, appare meno centrale e meno primario. Sembrerebbe piuttosto che la catena, che esita nel suo anello finale nel comportamento evitante, ritrovasse il suo primo anello non tanto nel timore del giudizio così come nel fobico sociale e nel timido, quanto in una profonda e pervasiva insicurezza correlata ad una notevole quota di autosvalutazione. È da questo pattern che nasce il timore del giudizio degli altri che accomuna l’evitante al fobico sociale. Ma, nel caso del Disturbo Evitante, il timore del giudizio è ancor più esteso e riguarda tutti i comportamenti, comprendendo la vergogna della presentazione del proprio corpo, ma anche quella della esposizione dei propri sentimenti nonché il timore del giudizio sul risultato della prestazione. Ne consegue che non vengono evitate soltanto le situazioni di esposizione sociale, ma anche le interazioni che potrebbero comportare l’espressione dei moti d’animo, come nel timido, e le prestazioni che comportano un giudizio sulle capacità, come nell’ansia prestazionale. Il nucleo centrale insicurezza-evitamenti potrebbe far intravedere nel Disturbo Evitante una matrice di tipo ossessivo-compulsivo (primo stadio di Janet).

Lo “spettro” dell’ansia sociale

Come precedentemente accennato numerosi sono i quadri psicopatologici in cui si osserva una esasperata sensibilità al giudizio, che esita nell’evitamento delle situazioni di esposizione sociale, richiamando così i comportamenti che accomunano Fobia Sociale, Timidezza, Disturbo Evitante e in certa misura l’Ansia Prestazionale. Si viene così a costituire una sorta di spettro epifenomenico dove peraltro la caratteristica comportamentale che si verifica nei vari quadri (l’evitamento sociale, a causa della vergogna e del timore del giudizio) è sottesa da strutture psicopatologiche profondamente diverse. In altre parole, nelle condizioni psicopatologiche sopramenzionate la vergogna o il timore del giudizio si ritrovano a condizionare evitamenti sociali, ma il tipo di vergogna è ben diversa da quella esperita dal fobico sociale.

La dismorfofobia

Evitamenti sociali, spesso gravi, si hanno ad esempio nella dismorfofobia, caratterizzata dalla preoccupazione per un supposto difetto nell’aspetto fisico (DSM IV, 1996) e condizione nella quale il soggetto ritiene che una parte del corpo, più spesso il volto (ad esempio il naso o la bocca), sia talmente deforme da risultare agli occhi di un osservatore esterno ripugnante: è per questo che il soggetto dismorfofobico evita le interazioni sociali come il fobico sociale. In effetti il disturbo da dismorfismo corporeo insorge frequentemente in soggetti che nell’adolescenza avevano manifestato una fobia sociale ed erano caratterizzati da comportamenti di evitamento oltre che da una personalità ossessivo-compulsiva (17).

Secondo un’ottica cognitivo-comportamentale un’immagine del sé corporeo disturbata (come si ritrova nel disturbo da dismorfismo corporeo) (18) è la causa della genesi e del mantenimento della paura e del conseguente evitamento di situazioni sociali.

Ma, mentre nella fobia sociale l’immagine di sé è inerente alla disinvoltura, all’adeguatezza, alla naturalezza del porsi nello spazio del proprio corpo, indipendentemente dalla finalità dei comportamenti, il dismorfofobico teme l’esposizione del corpo nel senso estetico, polarizzato e fortemente limitato dal pensiero di poter suscitare negli altri sentimenti di disgusto e ripugnanza per il supposto difetto nell’aspetto fisico. Non si tratta quindi di un pudore nel mostrare il proprio sé corporeo “come se fosse nudo”, ma non per questo giudicato abnorme dal soggetto, ma di un “giusto” evitamento della esposizione di una parte di sé considerata repellente e disgustosa.

La Depressione Maggiore

Anche nella Depressione Maggiore il soggetto ha, come il fobico sociale, un comportamento schivo ed evitante dei rapporti sociali.

Il concetto di inibizione psicosociale nella depressione è basato principalmente su osservazioni cliniche e su dati della ricerca che documentano come questo quadro psicopatologico sia caratterizzato da una riduzione significativa e dall’evitamento di situazioni sociali (19): infatti tra i “markers comportamentali” per la depressione sono inclusi lo sguardo fisso, una mimica poco mobile del volto (soprattutto bocca ed occhi), l’inattività e soprattutto il ritiro sociale (19).

C’è, anche in questo caso, un sottofondo di vergogna, ma è la vergogna di non essere più quello di prima, di apparire depresso agli occhi degli altri: è la vergogna che deriva dalla autosvalutazione tipica dei pazienti affetti da depressione, oltre che dalla reale riduzione delle prestazioni indotta dai sintomi depressivi; non è quel tipo di vergogna che si rifà al concetto di pudore e di imbarazzo, che invece caratterizza i soggetti fobico sociali. Una vergogna che non riguarda il proprio corpo come se fosse nudo, ma tutto il proprio stato, la propria condizione di inefficienza e trascuratezza, che riconosce una più condivisibile razionalità, quand’anche patologica, una sorta di giustificazione spiegabile da parte del soggetto e in una certa misura comprensibile.

Anche dal punto di vista cognitivo un’organizzazione di personalità di tipo depressivo definisce un modo particolare di attribuzione di significati a sé stesso, agli altri e alle esperienze, che si struttura su sentimenti di inadeguatezza personale e solitudine. I sentimenti di rifiuto e la percezione di ostilità da parte del mondo esterno sono comprensibili sia nell’ottica di un’incontrovertibile assunzione di responsabilità sulla propria persona, sia di una interpretazione percettivo-negativa dell’altro. La modalità organizzativa di attribuzione negativa alla propria persona si correla ad atteggiamenti autosvalutativi e sempre più rinunciatari, prevalentemente caratterizzati da un marcato evitamento di relazioni sociali (20).

I fenomeni ossessivi-compulsivi

Una prospettiva diversa è rappresentata dai fenomeni ossessivi-compulsivi. È innegabile quanto, nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Asse I, la sintomatologia sia caratterizzata, oltre che dalle ossessioni e dalle compulsioni, indipendentemente dal contenuto delle stesse, dagli evitamenti a cui, necessariamente, consegue il ritiro sociale (21)-(23).

Il punto cardine, in questo caso, è il riconoscimento di una “dimensione” ossessivo-compulsiva, che assume nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) propriamente detto una “dignità sindromica”, ma che si manifesta in modo transnosografico in un’ampia gamma di disturbi psichiatrici inquadrati nosograficamente in modo diverso dal DOC.

Nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo la dimensione dell’ossessività, quella che può interferire nella esposizione sociale, che caratterizza gli evitamenti e che può condurre ad una fobia sociale secondaria, non è tanto quella caratteristica del terzo stadio di Janet, ovvero delle ossessioni e delle compulsioni che vengono a caratterizzare il disturbo ben inquadrabile nosograficamente, o quella che descrive i pazienti ossessivi come contraddistinti dall’evitamento del danno e da una bassa impulsività (24) (25), quanto piuttosto la dimensione della dubitatività, dell’insicurezza (26), del sentirsi comunque inadeguato alla prestazione. Più dell’imbarazzo è qui il dubbio di non essere capace che non consente, al soggetto insicuro, di essere tranquillo nel momento in cui deve fare una qualsiasi cosa che comporti un minimo di prestazione e di giudizio, sia degli altri, che di se stesso. È quindi un’agognata, quanto utopistica ricerca di perfezione assoluta, unita ad una pervasiva insicurezza sorretta dalla costante dubitatività, e non tanto la vergogna né tanto meno il pudore, che condiziona gli evitamenti sociali nel DOC.

Il disturbo narcisistico di personalità

Con la pubblicazione del DSM-IV (1994) è stato cancellato, tra i criteri per il disturbo narcisistico di personalità, quello che descriveva le “reazioni a critiche con sentimenti di rabbia, vergogna o umiliazione”, in quanto considerato aspecifico (27) (28). Ma la letteratura internazionale identifica un continuum nel disturbo narcisistico di personalità. Accanto al prototipo di paziente narcisista arrogante, invadente e presuntuoso, che richiede costantemente di essere al centro dell’attenzione, Cooper e Michels (29) descrivono un altro tipo di paziente narcisista schivo, caratterizzato da una estrema sensibilità al rifiuto, al punto da evitare costantemente i rapporti sociali e di essere al centro dell’attenzione. Già Kohut (30)-(32), in un recente passato, aveva descritto il paziente narcisista come estremamente vulnerabile a dispetto di quello definito da Kernberg (33) come invidioso, avido e con continue richieste di attenzione da parte degli altri. Da un punto di vista descrittivo i pazienti narcisisti si collocherebbero quindi tra i due poli di un continuum, ognuno rappresentato da un tipico stile di relazioni interpersonali, definiti da Gabbard (33) rispettivamente come “narcisista inconsapevole” e “narcisista ipervigile”. Il tipo inconsapevole corrisponde alla descrizione dei criteri del DSM-IV, mentre la caratteristica del narcisista ipervigile è quella di essere estremamente sensibile al modo in cui gli altri reagiscono nei suoi confronti. Sono pazienti inibiti, che evitano di mettersi in mostra e di porsi al centro dell’attenzione ed evitano le situazioni sociali perché sono certi che saranno rifiutati. Alla dimensione della vulnerabilità-sensibilità e a quella della grandiosità-esibizionismo, che coesistono nella struttura sfaccettata del comportamento narcisista, corrisponderebbe rispettivamente un narcisismo manifesto ed un narcisismo celato. Entrambi i sottotipi si presentano indifferenti verso gli altri, presuntuosi ed indulgenti verso se stessi, ma mentre il sottotipo grandioso-esibizionista è estroverso, sicuro di sé e aggressivo, il narcisista in cui prevale la dimensione vulnerabilità-sensibilità si presenta introverso, ansioso ed evitante le situazioni sociali (33). Ma le problematiche sociali del narcisista sono legate alla fobia sociale da una comunanza soltanto apparente, poiché l’elemento che determina l’evitamento sociale del narcisista è il timore di non essere al livello che il suo narcisismo pretenderebbe; è un problema che nasce dal confronto, legato ad un giudizio di valore sull’individuo e sulla sua prestazione. Più che di vergogna, si tratta di umiliazione, connessa al segreto desiderio di esibirsi con una modalità grandiosa.

Il Disturbo di Panico

Anche il soggetto affetto da Disturbo di Panico è caratterizzato ed inibito da sentimenti di vergogna, per la possibilità di esperire un attacco in pubblico, di poter perdere il controllo e di non sentirsi se stesso a causa dei fenomeni dissociativi, e per questo di attirare l’attenzione.

Lo sviluppo di evitamento delle situazioni in cui gli attacchi sono ricorrenti (spesso in situazioni sociali) è strettamente collegato agli attacchi di panico e spesso si sviluppa poco dopo l’esordio (34). La depersonalizzazione è spesso la chiave che maggiormente porta allo sviluppo dell’evitamento sociale ed alla rapidità con la quale questo evitamento si manifesta (35), in quanto essa è responsabile della paura di perdere il controllo e conseguentemente di poter compiere azioni sconvenienti o comunque inadeguate, dando “spettacolo” agli astanti.

La vergogna può quindi, anche nel Disturbo di Panico, portare ad evitamenti simili a quelli della Fobia Sociale (fobia sociale secondaria). La sovrapposizione sintomatologica dei due disturbi si evidenzia anche nelle intense reazioni ansiose con vistosi fenomeni neurovegetativi, simili all’attacco di panico, che caratterizzano il fobico sociale nel momento dell’esposizione.

Allo spettro panico-agorafobico appartiene il Disturbo d’Ansia di Separazione dell’infanzia caratterizzato da timidezza ed inibizione comportamentale, oltre che da riduzione della condotta esplorativa con conseguente, seppure lieve, ritiro sociale (36), che depongono per una diatesi comune tra disturbo di panico ed alcuni disturbi d’ansia nell’età infantile.

Il soggetto schizoide

Profondamente diverso da quello fobico sociale è il comportamento evitante del soggetto schizoide; per citare Gabbard (33): “… i pazienti schizoidi e schizotipici spesso vivono ai margini della società. Possono essere ridicolizzati come “strambi”, “toccati”, “disadattati” oppure … lasciati da soli a condurre un’esistenza solitaria e riservata. Il loro isolamento e la loro anedonia possono indurre gli altri a rammaricarsi per loro, ma non a ricercarli”.

La più specifica caratteristica dei pazienti schizoidi e schizotipici è il loro apparente non essere in relazione con gli altri ed è innegabile come il ritiro e l’evitamento sociale sia parte integrante della fenomenica che caratterizza i soggetti schizoidi (37)-(39), così come i soggetti affetti da altri disturbi di personalità del cluster A (40), oltre che i soggetti francamente schizofrenici (41) o autistici (42). Da un punto di vista clinico vari Autori (37) (42) hanno correlato la dimensione dell’isolamento e del ritiro sociale con la disorganizzazione cognitiva e con la perdita della comprensione delle risposte affettive degli altri. L’isolamento e il ritiro sociale sarebbero invece correlati negativamente con tratti di ansia e depressione.

Anche altri Autori (40) hanno sottolineato come le dimensioni nucleari che caratterizzano i disturbi di personalità del cluster A possano essere riassunte nel comportamento paranoico, nell’evitamento sociale e nella distorsione cognitiva percettiva.

Secondo un’ottica psicodinamica Appel (43) asserisce che i pazienti schizoidi vivono con un timore costante d’abbandono e di disintegrazione. Ne risulta che tutte le relazioni sociali sono vissute come pericolose e per questo evitate. Da un punto di vista meramente descrittivo invece, Akhtar (44) sostiene che “l’individuo schizoide” è manifestamente distaccato, autosufficiente, distratto e disinteressato, ma “segretamente” è molto sensibile, emotivamente bisognoso, molto attento e creativo.

Da un punto di vista psicopatologico e clinico è difficile pensare che i “sintomi negativi”, fra cui il ritiro sociale, siano sorretti da fenomeni che assomiglino alla vergogna e specialmente a quel tipo di vergogna che è legata al pudore, anche in ragione della loro egosintonicità. È qualcosa di sfuggente dal punto di vista psicopatologico: non è agevole immedesimarsi, in base ad un criterio analogico, con il mondo dello psicotico e con i suoi problemi di relazione con gli altri. Dietro questo tipo d’isolamento, c’è pur sempre qualcosa di più o meno nitidamente persecutorio per cui il timore è quello degli altri vissuti come invasivi, ostili, penetranti? Oppure l’evitamento sociale dello schizofrenico è legato ad una sorta di anaffettività, di disinteresse al rapporto, con conseguente ritiro nel proprio mondo, più o meno ricostruito in chiave delirante o allucinatoria? Non certo, comunque, la sofferta, egodistonica inibizione del fobico sociale.

Esistono anche condizioni deliranti in cui il soggetto vive fra il dubbio e la convinzione che gli altri lo osservino in modo malevolo e critico (delirio di rapporto sensitivo).

In questo caso il “sentirsi gli occhi addosso” è diverso dall’”essere al centro dell’attenzione” del fobico sociale, il quale non “si sente gli occhi addosso” in maniera malevola, ma teme di essere osservato. Il delirio di rapporto sensitivo non è tanto legato alla vergogna, quanto al timore di essere preso in giro che sfuma verso la percezione di un atteggiamento francamente ostile da parte degli altri.

Conclusioni

Il concetto di “spettro” è ormai entrato a far parte del linguaggio della psichiatria moderna, nel tentativo di superare una classificazione categoriale, a volte semplicistica e riduttiva, a vantaggio di una realtà psicopatologica dimensionale.

Generalmente, quando si parla di spettro, ci si rifà al concetto della scomposizione della luce della fisica, dove per spettro s’intende una luce policromatica che rappresenta l’insieme delle radiazioni monocromatiche in essa presenti: un fenomeno unitario complesso (la luce) che si rivela scomponibile in unità elementari dalla cui somma deriva il fenomeno stesso.

In psicopatologia occorre però considerare anche delle dimensioni che sono più definibili come qualcosa che riguarda non solo la “qualità” del fenomeno, o meglio, la struttura, ma anche la “quantità”. Se si parte da tali presupposti ci troviamo di fronte a nuove ipotesi psicopatologiche ed ad una situazione di ipotetici tipi diversi di spettro.

Un primo spettro sarebbe caratterizzato dalla presenza di un continuum lungo il quale si distribuiscono, a diversi livelli di gravità, forme che appartengono allo stesso “fenomeno”. In questa accezione la dimensione che qui entra in gioco è di tipo quantitativo, per cui lo stesso fenomeno si distribuisce a seconda dei livelli di quantità diversi. Tutto ciò che si ritrova in questo continuum appartiene allo stesso spettro.

Queste forme sono strutturalmente e fenomenicamente omogenee e si differenziano solo per l’aspetto quantitativo. Ne è un esempio lo “spettro depressivo” con i suoi aspetti nucleari, quelli necessari per la diagnosi categoriale, ma anche con i suoi aspetti atipici o attenuati: i quadri incompleti, i sintomi isolati, i disturbi sottosoglia, i fenomeni subclinici, i sintomi prodromici, che non configurano ancora il quadro completamente plasmato, ma appartengono allo stesso nucleo psicopatologico, i fenomeni anche ad esordio precoce che potrebbero essere interpretati soltanto come tratti personologici, ma che in realtà rappresentano espressioni dello stesso nucleo psicopatologico in età infantile, ed i sintomi residui che richiamano sintomi prodromici.

Ma c’è un secondo tipo di spettro in cui l’omogeneità è principalmente strutturale, mentre la fenomenica è diversa ed in alcuni casi addirittura profondamente diversa.

È questo il caso dello spettro ossessivo-compulsivo di Hollander (45) in cui si trovano riuniti dei disturbi che, pur assomigliandosi assai poco ad un livello fenomenico, possono essere considerati sovrapponibili ad un livello strutturale.

Basti pensare, ad esempio, quanto siano fenomenicamente diversi il disturbo di Tourette, un quadro tipicamente neurologico, rispetto al disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo psichiatrico, oppure alla Anoressia Mentale o alla Bulimia o ai Disturbi del Controllo degli Impulsi. È chiaro che si è di fronte ad un altro tipo di spettro in cui le fenomeniche sono diverse ma i disturbi che ne fanno parte hanno aspetti strutturali che li unificano, conferendo loro una certa omogeneità.

Un terzo tipo di spettro può configurarsi quando l’omogeneità è a livello fenomenico, mentre a livello strutturale i disturbi che ne fanno parte rappresentano condizioni profondamente diverse: ad esempio, i comportamenti di tipo fobico-sociale che si ritrovano in maniera piena nella Fobia Sociale, si ritrovano anche in molte altre condizioni patologiche a struttura profondamente diversa, indipendenti dalla Fobia Sociale e inquadrate nosograficamente in modo diverso. In questo caso i percorsi psicopatologici per cui si arriva allo stesso tipo di comportamento, in questa evenienza livello sociale, sono quindi profondamente diversi gli uni dagli altri.

Le considerazioni di ordine psicopatologico soprasvolte a proposito dei comportamenti di inibizione sociale e delle loro analogie e differenze, calate nella concettualizzazione dello spettro o meglio degli spettri, portano quindi alla possibile configurazione di uno spettro epifenomenico che si snoda, in una sorta di articolazione ad albero, secondo una gerarchia di analogie che va da somiglianze più superficiali, che permettono di raggruppare disturbi fenomenicamente omogenei, verso comunanze più strutturali via via che gli apparentamenti si compongono in insiemi più ristretti a costituire dei “sottospettri” sempre più strutturalmente omogenei (Fig. 1). In questa articolazione ad albero il punto di partenza è rappresentato dall’evitamento delle interazioni sociali che contraddistingue l’elemento di comunanza più superficiale e che si ritrova in tutta la serie di disturbi che compongono questa sorta di spettro.

Fra questi si isola, prima di tutto, l’evitamento sociale non imputabile al timore del giudizio, il quale si ritrova fra i sintomi negativi della schizofrenia e più in generale dei disturbi psicotici così come di quelli appartenenti al cluster A dell’Asse II.

Al di fuori dell’evitamento sociale di tipo autistico, rimane quello dipendente dal timore del giudizio, che a sua volta è ora legato alla validità della prestazione, ora ad un problema generico di vergogna. La dimensione del giudizio prestazionale contraddistingue tipicamente l’ansia prestazionale in senso stretto ove si riconosce un elemento di dubitatività del proprio valore nella specifica situazione, che troviamo, assai più pervasivo, nel timore del giudizio prestazionale correlato alla struttura ossessivo-compulsiva. Ben diverso, quindi, da un altro aspetto del giudizio sulla prestazione, quello che ritroviamo nel narcisista, ove il problema non è tanto quello del dubbio sulla propria capacità, quanto della propria prestazione in confronto a quella degli altri, nella necessità che essa sia sempre e comunque superiore.

Quindi, con sfumature diverse, gli evitamenti sociali nel narcisismo, nel DOC, nell’ansia prestazionale, sarebbero conseguenti ad un timore del giudizio che riguarda il risultato della propria azione in termini di efficienza e capacità.

Ancora diverso è l’evitamento sociale che nasce pur sempre da un timore del giudizio ma che riguarda, non tanto il risultato della prestazione, quanto la persona, e che si traduce nella sensazione soggettiva della vergogna. La vergogna può essere relativa al proprio aspetto, ora perché una parte di esso è giudicato dal soggetto, e quindi secondo lui anche dagli altri, repellente, come accade nel Dismorfismo Corporeo; ora perché degradato rispetto ai precedenti livelli, come nella Depressione Maggiore, ove si aggiunge alla vergogna di non essere più capace quella correlata ai sentimenti di colpa.

La vergogna è relativa invece al comportamento sociale in senso lato, e non quindi all’aspetto della persona, nel Disturbo di Panico ove essa si riferisce all’imbarazzo che deriverebbe dai comportamenti messi in atto quando, in una situazione sociale, il soggetto fosse colto dall’attacco specialmente se la correlata derealizzazione comporta la sensazione di non avere più il controllo sulla realtà e su se stesso.

Ma più “nucleare” è la vergogna che si ritrova nella timidezza, dove la vergogna è quella relativa al mettere a nudo i propri sentimenti, e ancor più nella Fobia Sociale, ove la coerenza fra la denominazione del quadro, gli aspetti fenomenici e il nucleo strutturale è massima. In questo caso la vergogna è quella del pudore, è la vergogna di esibire il proprio corpo (diremmo l’antitesi, il contropolo dell’esibizionismo) ove anche la persona è ovviamente sottoposta al giudizio, ma secondariamente al giudizio sul corpo. O meglio sulla corporeità, sul leib e non tanto sul Körper, su quel corpo che sono io, che mi rappresenta nell’esposizione sociale. Un corpo che si propone come impudico, imbarazzante, fuori luogo, inadeguato, “come nudo in un mondo di esseri vestiti”.

In questo senso la Fobia Sociale potrebbe entrare, insieme alla dismorfofobia, all’anoressia mentale e alla stessa rupofobia, a comporre un gruppo di disturbi in cui si riconoscono diverse condizioni concernenti tutte l’immagine del sé corporeo, uno spettro dell’immagine corporea.

Nella dismorfofobia il problema dell’immagine corporea riguarderebbe una parte specifica del corpo, nell’anoressia il suo volume, nel rupofobico la sua superficie, nel fobico sociale il corpo in movimento nei suoi aspetti mimico-gestuali (Fig. 2).

La Fobia Sociale, così come la timidezza, configurerebbero quindi dei quadri di inbizione sociale primaria, mentre gli evitamenti sociali negli altri disturbi sopramenzionati, quand’anche epifenomenicamente simili alla Fobia Sociale, connoterebbero delle sovrastrutture fenomeniche espressione della sottostante turba psicopatologica primaria.

Il comportamento fobico sociale pertanto si paleserebbe come via finale comune di nuclei psicopatologici diversi. Non quindi uno spettro che deriva dalle molteplici articolazioni della stessa struttura nucleare, ma al contrario molteplici strutture psicopatologiche che confluiscono nello stesso pattern comportamentale. Non sfuggono le implicazioni diagnostico terapeutiche di una tale distinzione: basti pensare che nel primo caso la terapia è la stessa per quadri assai diversi sul piano sintomatologico, nel secondo la terapia è diversa per quadri fra loro assai simili sul piano sintomatologico.

Fig. 1. Articolazione psicopatologica dei comportamenti di evitamento sociale. Psychopathological flowchart of social avoidance behaviours.

Fig. 2. DOC washer, anoressia nervosa, dismorfofobia e fobia sociale come disturbi dell�immagine corporea? DOC washer, nervous anorexya, dysmorphophobia and social phobia as body image disorders?.

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