Psicopatologia: Umanesimo e Neuroscienze

A. Pazzagli

Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Sezione di Psichiatria e Psicologia, Universit� di Firenze

Il tema del Congresso della SOPSI � “Neuroscienze ed Umanesimo”.

Il riferimento alle neuroscienze � un doveroso riconoscimento della recente grande affermazione di queste branche della conoscenza che sono basilari per la Psichiatria e che prospettano – ed hanno permesso – grandi progressi anche nel nostro modo di definire, comprendere e curare i disturbi psichici.

Utilizzando il moltiplicarsi di conoscenze importanti su strutture, ultrastrutture e molecole si rischia per� di perdere la qualit� e la specificit� umana dello psichico e della psicologia della sua patologia. Naturalmente ci� non � direttamente dovuto ai progressi delle Neuroscienze n� a difetti intrinseci delle teorie che da queste aumentate conoscenze prendono avvio. Si pu� dire semmai che queste teorie presentano il rischio di cattive applicazioni in questa direzione positivistica, cos� come si pu� dire che le teorie psicopatologiche di marca psicoanalitica presentano l’analogo rischio di una applicazione generica, superficiale, come se fossero capaci di spiegare tutto.

Oggi, attraverso i dati e le ipotesi di molti ricercatori (1) si pu� pensare in modo ragionevolmente concreto, attraverso, ad esempio gli studi sull’attaccamento, che il sistema nervoso dei mammiferi sociali contiene un elevato numero di circuiti omeostatici aperti che richiedono input dal mondo esterno, in particolare dagli altri membri del gruppo. Si apre cos� la possibilit� di una “neurologia dinamica” (2), per la quale il sistema nervoso centrale � geneticamente costituito in modo tale da essere non solo aperto agli stimoli e quindi da questi modificato ma anche di avere bisogno di essi per organizzarsi e strutturarsi.

Queste scoperte aprono affascinanti connessioni fra biologia, neurologia, psicologia, evoluzionismo, sociologia e prospettano quindi importanti sviluppi per una psicologia ed una psico-patologia scientifiche (3) che siano, quindi, anche ponte fra le scienze della natura e quelle dell’uomo. Il titolo del nostro Congresso parla di “umanesimo”, rifacendosi ad una visione del mondo ed a un periodo storico, in cui certo Firenze ebbe un ruolo primario, nel quale la fiducia nell’uomo e nelle sue capacit� port� non solo a grandi scoperte, che oggi diremmo scientifiche, ma anche a realizzazioni artistiche ed a conquiste commerciali e sociali. Mi pare che la parola “Umanesimo” del titolo ci riporti a queste componenti anche nel campo della Psicopatologia.

Le prospettive teoriche e pratiche alle quali si � accennato presentano oggi e permettono di osservare tipi, modelli ed anche livelli diversi di psicopatologia, se si tiene conto dei metodi che si usano per l’osservazione e lo studio, delle teorie che da tali metodi e dati discendono e degli strumenti identificati per ottenere cambiamenti.

Schematicamente si pu� dire che:

a) un primo livello di psicopatologia � quello descrittivo dei disturbi;

b) un secondo livello � quello al quale si cerca di indagare cosa c’� dietro i sintomi, sia nella direzione del vissuto (la psicopatologia nell’ottica fenomenologica) che dei significati profondi, sovente inconsci (la psicopatologia psicoanalitica);

c) in un’altra prospettiva si indaga su come i sintomi si modificano nel tempo ed in relazione a “forze”, interne od esterne (la psicopatologia dinamica);

d) dalle indagini nell’ambito dei livelli sopra citati nascono considerazioni e sviluppi che indagano su aspetti e dimensioni basilari dell’esistenza, anche attraverso i suoi tipi psicopatologici di fallimento: si tratta della psicopatologia teoretica;

e) infine oggi appare sempre pi� rilevante quella che viene chiamata psicopatologia evolutiva nella quale confluiscono molti dati e conclusioni attraverso gli altri approcci della psicopatologia.

Infatti sono a non molto tempo fa la ricerca che riguardava, da ottiche diverse (biologiche, cognitive, dinamiche, ecc.), lo studio dei processi di sviluppo era tenuta abbastanza separata dalla ricerca psicopatologica, se si eccettua forse il grandioso ma parziale e schematico tentativo di Abraham, accolto in gran parte da S. Freud. Invece, nell’ultimo decennio, la psicopatologia evolutiva ha portato importanti contributi, attraverso ricerche empiriche, sulle correlazioni esistenti fra queste due aree. La psicopatologia evolutiva studia le origini ed i processi che conducono a modelli individuali di comportamenti maladattivi, indagando contestualmente sia i vari tipi di collegamenti evolutivi, che spiegano la continuit�, sia i processi di transizione, che spiegano la discontinuit� e che caratterizzano l’evoluzione dell’individuo attraverso tutto l’arco della vita. L’interesse della psicopatologia evolutiva non � quindi solo rivolto alla normalit� ed alla anormalit� in quanto tali, ma piuttosto ai legami – o alla perdita dei legami – tra comportamenti ed emozioni normali e disturbi clinici (4). L’importanza data allo studio delle interazioni che esistono fra sviluppo normale ed anormale, tra continuit� e discontinuit�, fra fattori e processi di rischio e fattori e processi di protezione e le loro influenze sull’individuo, sembra superare i confini tra diverse discipline (confini che appaiono sempre pi� culturalmente determinati e non naturali), attingendo a modelli e contributi di ricerca che provengono dalla psichiatria, dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalla genetica, dalla biologia e dalla neurologia. Ci� ha prodotto un fertile terreno comune, che � necessario per muoversi al di l� dei fatti descritti, verso la comprensione dei livelli e dei processi che caratterizzano le linee di sviluppo normale e patologico (5) e che prospetta una sorta di “neo darwinismo” individuale, legato allo sviluppo o, viceversa, alla scomparsa di possibilit� evolutive del singolo individuo nel corso di tutta la vita, in relazione a fattori esterni ed interni, sociali, biologici ed intrapsichici e si collega, al livello biologico, al “darwinismo neuronale” di Edelman (6).

Il primo tipo, o un primo livello, di psicopatologia � quello descrittivo. Si identificano i sintomi soggettivi, li si collegano in sindromi, ed anche in dimensioni, spettri, ecc. Ci� rappresenta indubbiamente la base, necessaria ma non sufficiente, per una psichiatria scientifica; si descrive, si discrimina e si confronta. Il rischio, tuttavia, � quello riduttivo, che si finisca col pensare che la psicopatologia clinica � “niente altro che” questo, cos� come, in modo correlato, la terapia � solo questo, una lotta ai sintomi come se essi fossero tutta la malattia ed il toglerli, di per s�, fosse la guarigione. Mentre, in medicina, i farmaci sintomatici (analgesici, antipiretici) tolgono i sintomi ma non sono considerati soddisfacenti, anche se a volte i soli disponibili, come cura della malattia e della lesione che stanno dietro i sintomi, in questa prospettiva, in psichiatria, si pensa spesso che i sintomi siano la malattia e si separano dall’uomo che soffre, confondendo eventuali meccanismi patogenetici noti (o pi� spesso ipotizzati) con la lesione che causa la malattia. Questa visione dei sintomi, in altri termini, abbandona la clinica, come attivit� colta in medicina, che cerca qualche cosa di altro e di pi� profondo nella malattia ed abbandona l’umanesimo, lasciando solo, nei casi e nei momenti migliori, un atteggiamento “umanitario”, che separa l’uomo dalla sua sofferenza.

Se invece accettiamo che i sintomi, in psichiatria come in medicina in generale, non sono tutto ma rimandano a qualche cosa che “sta dietro”, questo, in psichiatria, � costituito dal mondo mentale, interno, quel mondo nel quale poniamo i vissuti personali ed i significati individuali e collettivi. Con una metafora spaziale possiamo dire il “profondo”, con una temporale il “remoto”. Mentre il corpo, alle cui lesioni i sintomi medici rinviano, � qualche cosa che si tocca, si apre, si osserva, si pesa ecc., il mondo mentale �, per sua natura, basato sulla materia ma si esprime e comunica in modi non direttamente percepibili come materiali. Per questo la sua considerazione presenta il rischio di genericit�, di indicare modalit� di comprensione e condivisione che rischiano contemplazioni estetizzanti, valide per tutti e quindi non specificamente utili per quella patologia e per quella persona. In questo senso l’”umanesimo” rischia di divenire una appetizione di principio, vaga e cos� generale da divenire generica.

Per evitare ci�, sembra indispensabile che i sintomi psichici siano valutati sia come manifestazioni di un modificato funzionamento biologico (e quindi “spiegati”, nel senso indicato da Dilthey) che per il loro possibile significato comunicativo (e quindi “compresi”), all’interno di quella specifica relazione nella quale il loro senso ed il loro significato emergono in atto; in quest’ottica, poi, essi possono essere di nuovo “spiegati” alla luce di ipotesi psicologiche. Per ottenere ci� occorre negli psichiatri una formazione alla relazione ed all’ascolto che sia rispettosa delle comunicazioni del paziente, in modo da non arricchirle, per cos� dire, di troppi significati personali dell’operatore. Anche dalla consapevolezza di questo rischio nasce la necessit� di strutturare uno specifico setting. Per un ascolto ed una attribuzione di significato di questo tipo occorre che l’operatore disponga di una teoria sul significato che sia solida, valida, ma nel contempo non totalizzante, abbastanza aperta da non coprire ogni possibile senso personale. A tal fine teorie psicopatologiche che si rifacciano allo sviluppo sembrano utili, validabili con studi empirici e sperimentali (negli animali) e sufficientemente aperte in quanto ogni sviluppo individuale � unico ma si rif� a caratteri generali, comuni.

� questa, come si � detto, la base della “psicopatologia dello sviluppo”, un livello, un tipo di lettura della psicopatologia che pu� considerarsi, per certi aspetti, una parte della psicopatologia dinamica, ma dotata di caratteristiche tali da permettere di considerarla dotata di identit� propria.

Un eccellente esempio di tale tipo di approccio alla psicopatologia � dato dalla possibile lettura del significato degli affetti e della loro patologia alla luce della teoria dell’attaccamento.

Su questo tema Amini e Coll. (1), nel 1996, hanno compiuto un interessante tentativo teorico clinico, basato su possibili collegamenti con la memoria, attraverso una integrazione psicobiologica. Da un lato gli affetti sono considerati non pi� derivanti da frustrazione o soddisfacimento di pulsioni – e quindi come tali, in definitiva, riportati al concetto metapsicologico di pulsioni – ma nemmeno se ne vedono i soli aspetti biologici, separati da quelli psicologici ed interpersonali. Seguendo le iniziali intuizioni di Darwin (7), poi sviluppate da altri ricercatori, gli affetti sono visti originarsi e persistere negli animali sociali, fra i quali gli esseri umani, a causa della loro capacit� di migliorare la sopravvivenza dell’individuo e della specie, capacit� innate ma suscettibili di importanti modificazioni nella loro espressione e nella comprensione del loro significato durante lo sviluppo.

La presenza degli affetti negli animali sociali costituisce la base di un meccanismo che facilita gli scambi di informazione con l’ambiente e fornisce importanti segnali nella comunicazione e percezione di stati interni del soggetto con gli altri membri del gruppo sociale. Si comunicano cos� tristezza, rabbia, disgusto, disprezzo, sorpresa, felicit�, paura, cio� quel “catalogo”, limitato ma fondamentale, di emozioni base che si ritrovano in tutti gli esseri umani, anche appartenenti a culture che non hanno avuto contatti con altre (8,9). Questa espressione di affetti comunica al soggetto ed agli altri membri del gruppo importanti informazioni sullo stato interno del soggetto; da ci� possono discendere scelte comportamentali adeguate. Si tratta, come detto, di una serie di affetti geneticamente determinati ma il cui sviluppo � legato, in origine, al rapporto col caregiver, come dimostrano gli studi sull’attaccamento (10-12) e quelli sugli effetti a breve e lungo termine della deprivazione sociale, quella che Kraemer (13) ha chiamato “sindrome da isolamento”. Gli animali nei quali tale quadro sia stato empiricamente causato sono socialmente incompetenti, non usano le espressioni facciali degli altri membri del gruppo come guida del loro comportamento, sono incapaci di impegnarsi in normali reciproche interazioni, come l’accoppiamento e l’allevamento dei figli, hanno modelli imprevedibili di aggressivit�, mostrano comportamenti anormali autodiretti, fra i quali attivit� autoerotiche ed autoaggressivit�.

Questi sono i risultati di una carenza assoluta; essi richiamano alcuni comportamenti e caratteristiche umane, come il comportamento di madri adolescenti cresciute in condizioni di abbandono affettivo e quello dei pi� gravi disturbi borderline di personalit�.

Accanto a carenze, quasi mai assolute, spesso relative, nell’uomo si hanno soprattutto “dis-sintonie” nella comunicazione e percezione dei segnali affettivi fra bambino e caregiver. Tali dissintonie porteranno a modelli di attaccamento adattivi per questo tipo di comunicazione ma, in definitiva, disadattivi al di fuori di questa, nel gruppo sociale e generanti quella sofferenza che �, direttamente od indirettamente, alla base della richiesta di molti interventi psicologici o psichiatrici.

Queste modalit� di attaccamento, che si comunicano attraverso il linguaggio degli affetti, si collegano, secondo Amini e Coll., alla “memoria implicita” (14-17), le cui basi biologiche sembrano situate nei nuclei della base e che comunica attraverso il significato condiviso affettivo-emotivo, senza raggiungere la consapevolezza. Il sistema della memoria implicita risulta, infatti, essere capace di estrarre e conservare prototipi e regole complesse di comportamento e di lettura delle esperienze sulla base di importanti esperienze passate.

Ci siamo soffermati su questo aspetto di questi studi attuali di psicopatologia perch� esso rappresenta un buon esempio delle basi della psicopatologia dello sviluppo e fornisce un modello integrato di lettura di importanti quadri psicopatologici, sia a livello biologico che psicologico ed interattivo, scientifico ed umanistico nello stesso tempo. Ovvie le conseguenze anche sui trattamenti, poich� un simile approccio fornisce le basi razionali per la prevenzione nell’infanzia, per i trattamenti centrati sulle basi biologiche, dei quali vedono le basi ma anche i limiti e per gli interventi psicologici e psicoterapeutici.

A questo riguardo vi � da sottolineare l’assurdit� di separare cognizioni ed affetti. La “scimmia terapeuta” (18), che aiuta la scimmia allevata in isolamento a migliorare i suoi comportamenti sociali, si pi� supporre che non abbia soltanto veste cognitiva ma stabilisca una solida “alleanza terapeutica” con l’altro animale, del quale deve anche tollerare l’inadeguatezza sociale, l’aggressivit� imprevedibile ecc.

Se passiamo alle pi� sottili manifestazioni della sofferenza dell’uomo, appare di nuovo la necessit� che questo, se vuole essere terapeuta, non solo sappia comunicare nel campo degli affetti, ma sappia anche tollerare la comunicazione inadeguata del paziente, comprendendola attraverso l’empatia e comunicando al paziente stesso sulle difficolt� del suo mondo affettivo e cognitivo, mentale. Deve cio� essere capace, ad un tempo di creare e mantenere “alleanza terapeutica” con un soggetto che la ricerca ma ha difficolt� anche in questa area e di tollerare la nevrosi di transfert, usandola come via di conoscenza e di terapia, essendo essa frutto delle angoscie, delle difese e, in definitiva, della patologia (19-23).

A questo riguardo dobbiamo sottolineare come la Psicoanalisi abbia costituito il pi� complesso e difficile ma razionale sistema di comprensione e di cura dei problemi psicopatologici nell’area degli affetti, sia di alcuni di quelli di interesse psichiatrico che di quelli legati alla “psicopatologia della vita quotidiana”, al malessere del vivere, che sono di pertinenza psicologica. La psicoanalisi ha anche identificato un sistema di formazione dei terapeuti che, lungo, complesso e solo parzialmente efficace, � tuttavia il migliore di cui oggi disponiamo per quel paradosso clinico che nasce dalla necessit� di stabilire, mantenere, modificare un rapporto, una prolungata interazione fra umani, con soggetti che soffrono proprio di difficolt� in questa area di relazioni contemporaneamente interpersonali ed intrapsichiche.