Umberto Saba: un poeta contro la depressione

Umberto Saba: poet against depression

R. Rossi, B. Masnata

Psichiatra, Dipartimento Scienze Psichiatriche, Ospedale S. Martino, Università degliStudi di Genova

Correspondence: Prof. Romolo Rossi, Psichiatra, Dipartimento di Scienze Psichiatriche, Ospedale San Martino, Università degliStudi di Genova – Tel. +39 010 3537663 – E-mail: r.rossi@unige.it

Olim meminisse … Tanti anni fa, uno di noi si era occupato di Saba, di Oreste e del matricidio (l’altro di noi non era ancora nato). Ci ha stimolati il ritornare assieme al problema: che ne è stato del matricidio oresteo negli ultimi anni della vita del poeta?

Dopo un’analisi, effettuata tra i 45 e i 50 anni, iniziata nel 1928, a distanza di circa vent’anni, Saba scrive alcune lettere significative, proprio nel mese del suo sessantaseiesimo compleanno, da cui emergono le tinte melanconiche del suo umore e, tramite le quali, è possibile dedurre l’effetto del processo analitico su di lui, ritrovando le caratteristiche del rapporto instaurato con il proprio terapeuta.

La prima è una lettera scritta il 1� marzo 1949, indirizzata a Joachin Flescher.

Nelle prime righe emerge chiaramente la difficoltà del poeta a tollerare le critiche nei confronti del proprio analista (Weiss), vissuto come oggetto introiettato e quindi parte del proprio sé. L’attacco è infatti vissuto come lo colpisse direttamente, tanto da alimentare “l’antico sintomo”. Il sintomo a cui fa riferimento è l’ossessione per il matricidio, già affrontato nei “Versi militari” del Canzoniere […].

Procedendo nella lettura si può rilevare, invece, la notevole ambivalenza nei confronti della terapia analitica, indice di un rapporto ancora irrisolto, con l’analista stesso (“una persona affascinante” […] con “strani scotomi davanti alla realtà”).

Saba inizia con una celebrazione di Freud, come riscattatore della stirpe ebraica, dopo il “peccato originale-Gesu”; è colui che è intervenuto sul nodo di tutte le nevrosi, la religione, ma forse introducendo una razionalità eccessiva, che lo spaventa. Il poeta teme drammaticamente di poter perdere la propria creatività, e forse, con questa, la propria identità; domanderà al proprio interlocutore se un artista guarito potrà “fare ancora dell’arte”. Sembra convinto che la salute psichica sia inconciliabile con la capacità di sognare e che, essendo necessaria un’introversione con il “calore degli alti forni”, per creare poesia, la cura di questo aspetto essenziale della propria personalità potrebbe compromettere in toto la sua natura d’artista.

Afferma, in conclusione, che se avesse fatto più precocemente l’analisi non sarebbe mai diventato poeta e addirittura forse sarebbe diventato lui stesso analista. Forse perché sarebbe andato perduto quel proibito a cui sempre l’arte si volge?

Ma la sensazione che suscita nel lettore è che per quest’uomo null’altro esista, se non la propria arte tanto che, se a ventitré anni gli fosse stata tolta, vien da chiedersi cosa ne resterebbe ora.

Quello che egli stesso conclude è che forse nulla si potrebbe ritrovare, ma il problema non si pone, la garanzia che la sua arte sia ancora intatta è proprio il fatto che sia ancora malato, non completamente guarito. Sembra che l’unica certezza, l’unica consapevolezza che ha sia di essere ancora sofferente, ancora poeta, ma ciò gli costa vivere una “vita che gli si è rivoltata contro e lo soffoca” […] tanto che “se avesse un mezzo rapido e sicuro di affrettare la fine, lo userebbe senza esitare”. È un Saba melancolico e lo afferma esplicitamente.

Nella seconda lettera, scritta il 19 Marzo del ’49, Saba si rivolge direttamente al proprio analista, dopo anni dalla fine del rapporto terapeutico. All’inizio dello scritto ancora si riscontra la notevole ambivalenza nei confronti di Weiss: nelle prime righe il poeta fa una dichiarazione d’amore al terapeuta “le ho voluto e le voglio sempre bene” e lo investe di un’importanza assoluta e positivamente determinante nei suoi riguardi, egli “una persona affascinante che [per lui] ha fatto più di ogni altra persona al mondo”. Ma dall’idealizzazione passa subito, inevitabilmente, all’attacco (“durante la mia analisi furono commessi degli errori”) nei confronti dell’oggetto prima idealizzato; questo, però viene poi anche salvato e conservato, neutralizzando l’aggressività espressa, grazie alla minimizzazione dell’entità degli errori commessi dal terapeuta, e mettendo la colpa del non poter “ottenere nulla più di così” nella gravità del proprio caso, nella propria età e nella propria “situazione”.

L’autore può quindi proseguire con un’idea di rinnovamento totale e la fantasia ideale di rinascita (anche artistica) la cui origine attribuisce alla relazione analitica, anzi già al primo incontro con Weiss. E l’idealizzazione continua fino a giungere ad una ammissione di dipendenza, ancora totale, con dichiarazione di possesso da parte dell’analista delle opere stesse dell’artista (“Scorciatoie sono quasi tutte sue”). Ed anche qui, solo alla riga successiva, si trova l’ala opposta dell’ambivalenza: “detto fra parentesi, Scorciatoie non ha avuto nessun successo”.

Dopo questa premessa, focalizzata sul terapeuta, Saba inizia a parlare di sé e si delineano chiaramente i tratti di un disturbo dell’umore.

Inizialmente il paziente sembra tentare di dare una giustificazione al persistere (dopo l’interruzione dell’analisi) del proprio malessere, facendo riferimento alle persecuzioni razziali e alla guerra: “neanche in un incubo mi sarei potuto immaginare una cosa simile”, mentre successivamente fa un’ammissione di bipolarità, in cui la fase espansiva incominciò con la “Liberazione: furono i sei mesi più felici della mia vita”, in cui si verificò il suo “successo”, anche letterario; per poi precipitare di nuovo nel silenzio.

Nella parte centrale della lettera si ha una chiara ammissione di un attuale stato melancolico in cui il poeta si descrive come impassibile agli eventi circostanti, disinteressato, con l’incapacità di prendere posizioni e impegni (“né coi preti né […] con certi altri, lettere di rifiuto a destra e sinistra”); parla di una propria sensazione di disgusto, “schifo”, nei confronti del proprio lavoro, e di rifiuto da parte di tutti nei propri confronti per cui “nessuno vuole sentire e neppure pubblicherebbe […] le tante cose che avrei da dire”.

E la visione cupa e nera, depressiva, della propria esistenza si estende anche al mondo esterno, a “questa povera Europa [… che] non si sa come andrà a finire”. Nelle righe successive nelle parole dello scrittore si configura un quadro cottardiano in cui Trieste non è solo “malata”, ma “non esiste, si può dire più”; e come Saba stesso, abbandonato e non più apprezzato da nessuno, non vale più la pena di essere frequentato, anche la città non val più la pena di essere visitata, “nemmeno in qualità di turista”.

Lo sconforto del poeta viene portato anche nelle righe in cui fa riferimento alla moglie dell’analista, vista nel ruolo di madre in quanto associata al ricordo dal “piccolo Emilio” che era “semplicemente il figlio del dottor Weiss”, cosa che egli non ha potuto né potrà mai essere, restando, “ormai molto vecchio”, frustrato nel desiderio di essere adottato dal terapeuta.

Infine compare anche la colpa, che affligge il poeta, il quale “confessa”, e giustifica, la propria relazione epistolare con Flescher, quasi come fosse il tradimento ad un amante, arrivando anche a chiedere, seppur per scherzo, a Weiss, di non essere geloso.

Nella conclusione si raggiunge un’immensa amarezza in cui, per parlare ancora di sintomi, si riscontrano profondi vissuti di inguaribilità e perdita di speranza. Il poeta sembra non vedere alcuna via di uscita, il suo “nemico” ineluttabile, infatti, è dentro di lui, è l’oggetto deteriorato contro il quale inutilmente combatte senza “mai riuscire ad ucciderlo”.

Le conclusioni di queste brevi note sono interessanti: intanto, il poeta in qualche modo dà una visione positiva dell’insuccesso della sua analisi: solo con il fallimento di questa idea di “sterilisatio magna” intrinseca nell’analisi, e solo con il mantenimento di grandi istanze conflittuali è possibile mantenere la “condizione” poetica. L’analisi potrebbe disattivare la poesia, questo è ciò che chiaramente pensa qui Umberto Saba. Tutta l’aggressività verso il padre, tutta l’ambivalenza verso la madre, che flotta di nuovo in superficie in queste ultime lettere, diretta verso l’analista, è la radice e l’ispirazione, per così dire, dei grandi momenti poetici: “mio padre è stato per me l’assassino …”, “sempre, quando ritorna primavera”, “va la terribile frustata”.

Ossessione matricida, dipendenza, melancolia e poesia sono indissolubilmente legate. Solo la spinta di un conflitto così potente e angoscioso, e mai risolto, può condurre, per Saba, alla parziale soluzione della sublimazione, e quindi alla poesia. Ci pare che qui, anche se indirettamente, il nostro poeta echeggi la tesi di Freud in “Analisi terminabile e interminabile”, che riguarda l’irresolubilità finale del conflitto, e la possibilità di dover trattare, ogni volta, il “currently active conflict”.

Ma la sublimazione, come si struttura nell’opera d’arte, può sotto certe spinte pulsionali, o patologiche nel senso corporeo, o senili, destruttrarsi. È la tesi di Kohut, che legge la storia di “Morte a Venezia” (e dello stesso Thomas Mann), come la storia di una destrutturazione della sublimazione, sotto la spinta di pulsioni arcaiche omosessuali. Non dimentichiamo il romanzo postumo di Saba, “Ernesto”, capolavoro inimitabile del sorgere e confermarsi delle pulsioni omosessuali. Sembra che anche qui la caduta della sublimazione sia il momento centrale della situazione espressa da queste lettere, dove tra i frammenti e i detriti di difese sublimanti ed idealizzanti, compare, amara e disperata, l’ombra sinistra della perdita ineluttabile, della melancolia e della dipendenza.

Letture consigliate

David M. Psicoanalisi nella cultura italiana. Milano: Boringhieri 1966.

Freud S. Analisi terminabile e interminabile. Milano: Boringhieri 1980.

Kohut H. “Death in Venice” by Thomas Mann; a story about the disintegration of artistic sublimation. Psychoanal Q 1957;26:206-28.

Rossi R, Matteini M. Il matricidio – mito di Oreste e U. Saba. In: Dalla parte di Freud.

Rossi R, Nanni S. L’Adagetto della quinta di Malher. Gli Argonauti 1991;XII(50).

Saba U. Il canzoniere. Torino: Einaudi 1945.

Saba U. Ernesto. Milano: Boringhieri1975.

Saba U. La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957. Milano: Mondadori 1983.