Update article Il tarantismo: un fenomeno al confine tra rito e psicopatologia

Tarantism: a phenomenon at the border between rite and psychopathology

M. De Masi, E. Marchiori*, G. Colombo**

Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Università di Padova; * ULSS 12 Venezia, CSM Campo Santa Maria Nuova, Cannaregio, Venezia; ** Facoltà di Psicologia e Medicina dell’Università di Padova, Clinica Psichiatrica, Università di Padova

Key words: Tarantism • Dissociation • Abuse
Correspondence: Prof. Giovanni Colombo, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, via Giustiniani 2, 35128 Padova – Tel. + 39 49 8213829 – E-mail: ines.demiglio@unipd.it

Introduzione

Il tarantismo è un fenomeno tipico della cultura popolare della terra di Puglia del Salento. Esso si basa sulla credenza popolare che attribuisce al morso della tarantola, mitico ragno velenoso, un particolare stato morboso da cui si può essere liberati tramite la musica, la danza, i colori e l’intercessione di San Paolo.

Il tarantismo ha radici antiche, propagatesi sino ai nostri giorni; benché il ragno non morda più, sopravvivono nelle campagne contadini che sono stati “tarantati” e non mancano all’appuntamento a Galatina, il giorno di San Paolo, il 29 giugno, per pregare il loro santo punitore e salvatore; sono ancora innumerevoli i gruppi musicali e le scuole di ballo di “pizzica” ed a questo fenomeno continuano ad ispirarsi libri, quadri, spettacoli teatrali e film.

Il tarantismo ha molteplici sfaccettature ed è oggetto d’interesse in diversi ambiti: antropologico, teologico, sociologico, psicologico, psichiatrico.

Scopo di questo lavoro è fornire una lettura psicopatologica del tarantismo, che si ipotizza svilupparsi, attraverso una peculiare cultura popolare, come un fenomeno ad epigenesi traumatica.

L’universo magico contadino del Salento

Il fenomeno del tarantismo nasce e si sviluppa nel mondo culturale contadino dell’Italia del Sud, caratterizzato da una filosofia di vita in cui magia e religione si sono tra loro profondamente embricati. Secondo De Martino (1), antropologo napoletano che ha fornito notevoli contributi in quest’ambito, l’elemento costante di sfondo di tale filosofia è rappresentato dalla fascinazione, che definisce come “una condizione psichica d’impedimento e d’inibizione, un essere agito da una forza potente e occulta che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta […]. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima e, se l’agente è un essere umano, si tratta di malocchio, cioè di un’influenza maligna proveniente dallo sguardo invidioso. L’esperienza di dominazione può arrivare sino al punto che una personalità aberrante invade il comportamento ed il soggetto non sarà più un fascinato, ma uno spiritato“.

La possibilità magica di fascinare ed essere fascinati può coinvolgere, a qualsiasi età, tutte le sfere della vita, soprattutto quelle affettive e sessuali. Ancora oggi, l’ostinata sopravvivenza di tali credenze in individui appartenenti a diversi strati sociali è giustificata dalla persistenza di un pensiero di tipo magico, che si illude di controllare in modo onnipotente l’altro e le vicissitudini della vita. Nelle esperienze di fascinazione, possessione, fattura, esorcismo, il soggetto prova sentimenti di vuoto e depersonalizzazione, vive in uno stato crepuscolare che lo priva dell’autonomia e lo fa agire secondo il volere di qualcun altro, come accade nei deliri d’influenzamento.

In Puglia, in particolare, la cultura rurale è rimasta profondamente intrisa di elementi magici e mitologici; né il recente sviluppo industriale ha spiazzato l’agricoltura, la pastorizia e la pesca, tuttora largamente praticate, né la cultura di massa è riuscita a risucchiare nel suo vortice annientatore il patrimonio di questa gente d’altri tempi, ancorata tuttora ai misteri del mondo campestre (2). Nel Salento, la terra del sole, l’intera vita delle persone era scandita da una ciclicità programmata che determinava la cadenza di ogni evento, fosse esso amore, morte, salute, raccolto o vecchiaia. L’esperienza del magico era assorbita giorno dopo giorno e, come afferma la Epifani (3), “portava ad acquisire un codice conoscitivo che giustificava l’impossibile, proprio perché gli era in un certo senso estraneo l’uso della ragione, che forse poteva distruggere le antiche certezze, elementi di coesione sociale”. Le stagioni erano salutate con feste di celebrazione della natura, proprio perché dai cicli naturali dipendeva la stabilità economico-sociale e quindi la sopravvivenza delle persone: per l’inverno il Carnevale, per la primavera la Pasqua e i riti della Settimana Santa, per l’estate le feste dei patroni, in cui le figure dei santi sono connesse ai frutti raccolti al termine del ciclo produttivo (2). La devozione popolare, con queste forme di culto, i riti e le credenze, era un insieme inestricabile di cristianesimo, paganesimo e superstizione. Gli individui vivevano al ritmo delle stagioni, segnato a sua volta dal lavoro, dalla famiglia e dalle tradizioni. L’attaccamento a tali valori dava un valore all’esistenza e garantiva sicurezza a chi era povero (4) (5).

La struttura della famiglia era di tipo patriarcale e la condizione della donna era particolarmente difficile: succube del padre prima di sposarsi, con il matrimonio deciso dalla famiglia, successivamente lo diventava del marito. La sua vita era dedicata alle continue gravidanze, alla cura dei figli e della casa; era costretta a lavorare fino a pochi giorni prima del parto e poi a portare il figlio neonato in campagna. I rapporti sociali e relazionali erano così annullati o limitati per lo più ai soli parenti; gli unici momenti in cui la donna aveva la possibilità di incontrare qualcuno erano rappresentati dalla messa della domenica e dalle feste patronali. Così, la donna non solo era priva di qualsiasi potere decisionale nella sua vita, ma anche di qualsiasi possibilità di esprimere i propri bisogni (3) (6).

Il fenomeno del tarantismo colpiva proprio i contadini della terra del sole, analfabeti, che trascorrevano le loro giornate e spesso le notti nei campi dei ricchi latifondisti, accontentandosi di una paga che forniva loro lo stretto necessario per sopravvivere. Era più frequente nelle donne, generalmente nel periodo puberale e spesso si osservava tra i membri della stessa famiglia.

Il periodo del tarantismo coincideva con la stagione estiva, durante la quale si pensava che la tarantola si svegliasse dal letargo; era il periodo, come dice De Martino (7), della mietitura del grano, della spigolatura, del raccolto di ortaggi, della vendemmia, quando i contadini passavano più tempo nei campi, si sfidavano i raggi del sole, era deciso il destino dell’anno, si pagavano i debiti economici ed esistenziali: il tempo in cui riemergevano i conflitti.

In questa stagione poteva accadere il “primo morso” della tarantola, ma anche il suo “rimordere”, cioè il riprodursi della crisi, con tendenza a ripetersi nel periodo in cui era stato patito il primo morso; il veleno ogni anno tornava a far sentire i suoi effetti, fintanto che il ragno era vivo ed in grado di trasmettere la propria eredità anche alle generazioni successive.

Il morso della tarantola e l’esorcismo coreutico-musicale

Il ragno, dialettalmente detto taranta, era identificato con diverse specie: la lycosa tarentula, lo scorpione, l’epeira ed il latrodectus tredicim guttatus. Il tarantismo, d’altra parte, poteva manifestarsi anche in un soggetto “soffiato da una serpe” (7). Il morso della lycosa provoca una reazione locale lieve (edema, iperemia, necrosi circoscritta) e scarsi effetti generali, mentre il veleno del latrodectus tredicim guttatus ha effetti generali più marcati (mal di stomaco, debolezza generale, nausea, tachicardia, dispnea, pallore), ma del suo morso si registrano pochi casi (8).

Queste precisazioni rendono evidente che il tarantismo non è causato dagli effetti di uno specifico veleno, ma la sua epigenesi è d’altra natura.

L’immaginario popolare dipingeva con grande fantasia le caratteristiche del ragno velenoso. In effetti, si credeva nell’esistenza di diversi tipi di tarantole, che si differenziano per forma, colore, tonalità affettive e comportamento; potevano essere grandi o piccole, colorate o nere, ballerine, in altre parole sensibili alle danze, canterine, che rispondevano al canto, tristi e mute, che richiedevano nenie funebri, tempestose, che inducevano la vittima a “fare sterminio”, libertine, che stimolavano a mimare comportamenti lascivi o, ancora, dormienti, che resistevano a qualsiasi trattamento musicale. Ogni tarantola si pensava sensibile a distinte melodie e capace di indurre a danzare secondo il ritmo ad essa congeniale e a parlare con la tarantata, impartendole ordini e venendo a patti con lei, proprio come uno spirito che possiede e controlla l’esorcismo (7).

La tarantata era colta da sintomi, quali debolezza generale, senso di svenimento, nausea, tachicardia, dispnea ed impallidiva, cosicché era accompagnata a casa ed i parenti, con l’aiuto del vicinato, effettuavano la diagnosi di tarantismo e chiamavano i musicisti, gli unici in grado di poter guarire da questo stato di malessere. Se la tarantata era stata morsa di recente, giaceva nel letto in preda a lamenti, contorcimenti e urla; se invece la malattia era remota, appariva più calma.

Il veleno poteva essere espulso attraverso la danza chiamata pizzica-tarantata, ritmata dalla musica di quattro strumenti: il violino, la chitarra, il tamburello e la fisarmonica.

La musica permetteva alla vittima del morso di identificarsi con il ragno che la possedeva e di farle fare gli stessi movimenti che compiva nel tessere la sua tela. Tali movimenti costavano tali sforzi e fatiche da sfinire la persona e, di conseguenza, far “crepare” la tarantola, rendendo il suo veleno innocuo.

A questo scopo, sotto la guida della cosiddetta macara, una donna considerata in grado di stabilire se si trattasse di morso di tarantola, erano organizzati i preparativi per l’esorcismo coreutico-musicale: in una stanza sgombra veniva fissata sul soffitto una fune resistente, cui la tarantata si sorreggeva per non cadere durante la danza vorticosa; la donna veniva lavata, vestita di bianco e adagiata su un lenzuolo bianco, con accanto sia gli oggetti collegati all’esperienza del primo morso (ad esempio, grano se il morso era avvenuto mentre la persona stava mietendo), sia piante di basilico, cedro, menta e ruta, usati come stimoli olfattivi (9). I suonatori si disponevano attorno alla tarantata e iniziavano a provare diverse melodie, per identificare il tipo di tarantola (effettuata anche attraverso l’uso di nastri colorati, le nzacareddhe); alla melodia giusta la tarantata si lasciava, come si dice dialettalmente, scazzicare, cioè smuovere; essa poteva essere stimolata anche da canti a contenuto erotico.

Il ciclo coreutico, descritto da De Martino (7) come distinto in due fasi che si ripetevano, iniziava con un grido altissimo da parte della tarantata, il cui corpo si inarcava iperflesso a ponte, con i talloni puntati, la nuca ipertesa e le braccia semiflesse. È il riprodursi della ben descritta grande crisi isterica di Charcot. Quindi essa tornava supina ed iniziava a muovere le gambe, le braccia, la testa al ritmo della musica dando il via alla prima fase del ciclo, quella di “identificazione con il ragno”: cominciava a strisciare sul dorso, spingendosi con il moto delle gambe flesse e puntando al suolo alternativamente i talloni; la testa continuava a battere violentemente il tempo assieme al movimento delle gambe. Compiva così, a braccia allargate, qualche giro nel perimetro cerimoniale, poi si rovesciava bocconi, le gambe divaricate immobili, le braccia piegate sotto o davanti al busto, muovendo la testa aritmicamente. A questa fase seguiva quella detta del “distacco agonistico”, in cui la tarantata si levava in piedi di scatto, percorreva il perimetro cerimoniale saltellando e battendo i piedi per terra e con un fazzoletto in mano compiva alcune figure della tarantella tradizionale: la donna stava lottando contro la tarantola, immaginando di calpestarla e ucciderla. Alla fine di questo ciclo che durava circa un quarto d’ora, la donna sfinita crollava a terra, veniva distesa con un cuscino sotto la testa e rifocillata con un bicchiere d’acqua, mentre l’orchestrina smetteva di suonare per circa dieci minuti. L’intero ciclo si ripeteva uguale fino a tarda sera per circa tre giorni, finché San Paolo non avesse concesso la grazia.

S. Paolo, infatti, esprime l’elemento di collegamento tra la cultura popolare e la religione dominante che in essa ha posto radici; attraverso la figura del santo è stata possibile la conservazione di un culto pagano intriso di superstizioni.

S. Paolo è ritenuto il protettore dei tarantati per una credenza che trae spunto dalla sua vita. La leggenda vuole che mentre San Paolo era portato prigioniero in nave da Gerusalemme a Roma, a causa di una tempesta, la nave si incagliò in una secca. Tutti scesero e raggiunsero a nuoto la terra più vicina, Malta, credendo che la causa della disgrazia fosse S. Paolo. Era notte e faceva molto freddo, così con della legna si accinsero ad accendere un fuoco. Ma improvvisamente una serpe sbucata dal fascio di legna, si attorcigliò attorno al braccio di S. Paolo che se ne liberò senza ricevere alcun danno. Così egli fu considerato il protettore dei serpenti e di tutti gli insetti velenosi e fu lasciato libero. Si narra che giunto in Italia, sia stato ospitato nel Salento rivolgendo il proprio potere guaritore alle persone morse da animali velenosi ed anche quindi ai tarantati. Così in suo onore è sorta a Galatina, paese in provincia di Lecce e i cui abitanti sono ritenuti immuni dal tarantismo in ragione della presenza del santo, una cappella con attiguo un pozzo la cui acqua è ritenuta miracolosa e dove si recavano, ed ancora si recano, i tarantati nel giorno della sua festa per chiedere al santo la grazia della guarigione o per ringraziarlo del miracolo avvenuto.

Si dice che S. Paolo potesse concedere la grazia anche durante la terapia coreutico-musicale, evento che accadeva in ore precise (alle 12 o alle 13, alle 15 o alle 17) ed in cui la tarantata lo vedeva, lo ascoltava e gli parlava; in genere era lo stesso Santo che comunicava alla tarantata cosa fare per ottenere la grazia identificandosi con la stessa tarantola. L’arrivo del miracolo era anticipato da alcuni segni: la tarantata durante le pause mangiava ed i cicli coreutici diventavano più brevi; giunta la grazia, l’orchestrina cessava di suonare, la tarantata e tutti gli astanti si inginocchiavano per pregare e infine venivano raccolte le offerte da portare alla cappella del Santo.

Tali riti appunto, scanditi dalla stagionalità e officiati da mediatori sociali (la macara, i musicisti, le donne) fanno pensare ad un collegamento con quelli dionisiaci nell’antica Grecia in cui lo sciamano propiziava attraverso uno stato di trance il proprio contatto allucinatorio con il Dio (10).

Interpretazioni sul tarantismo

Il termine tarantismo, come sostiene Baglivi, medico dalmata del ’700, potrebbe derivare dal nome della città di Taranto perché essa era una città importante ai tempi dei Greci e dei Romani e quindi vi si recavano gli ammalati dalle regioni vicine per essere curati o perché, come sostengono altri autori, i primi casi di tarantismo sono stati osservati nei dintorni di questa città. Meràt trova invece un’analogia tra la denominazione di tarantismo e la danza chiamata tarantella in relazione al fatto che il fenomeno si manifesta con un irresistibile bisogno di ballare (8).

Le origini del tarantismo sembrano perdersi nella notte dei tempi. Carrieri (11) colloca l’apparizione del fenomeno nel periodo dell’impero romano e spiega l’esistenza della terapia musicale come retaggio dei culti greci nella città pugliese della Magna Grecia. Successivamente De Martino riporta testimonianze medioevali della sua esistenza. Egli rintraccia dei parallelismi con l’antico mondo greco (basti ricordare in questo i riti dionisiaci), ma insiste nel collocare la nascita del fenomeno nel periodo dell’incontro tra mondo islamico e mondo cristiano. L’analisi degli antecedenti classici del tarantismo fa emergere un collegamento con i riti catartici in cui la musica veniva usata in modo terapeutico, per liberare da disturbi fisici e psichici chi si credeva posseduto da demoni, spiriti di morti e eroi. Lanternari (12), cui si rimanda per ulteriori approfondimenti, ha invece svolto un importante lavoro di ricerca in cui emerge come il fenomeno del tarantismo possa richiamare gli stati di possessione rituali delle società tribali africane, afro-brasiliane, afro-cubane e afro-haitiane, ad esempio la Macumba e il Vodu. Questo Autore sottolinea la funzione che tutti questi fenomeni hanno a livello sociale: permettere agli individui poveri ed emarginati di essere al centro dell’attenzione e di far defluire i conflitti derivati dalle precarie condizioni esistenziali.

Una svolta decisiva ed innovativa nell’analisi antropologica del tarantismo è stata offerta da De Martino (7), che ha proposto un’interpretazione simbolico-culturale del fenomeno. Egli ipotizza che il tarantismo si sviluppi in un contesto sociale peculiare, in cui la vita delle persone, in particolare delle donne, si svolgeva tra gli stenti e le rinunce. Il tarantismo offriva una volta l’anno la possibilità di riscattarsi sul piano sociale, di essere qualcuno, di dimenticare le preoccupazioni, di sfogare la rabbia repressa, di superare i traumi subiti. Proprio la donna, infatti, era sottomessa a rigide restrizioni in campo affettivo e sessuale: essere tarantata permetteva una sorta di catarsi all’eros precluso, ai conflitti e ai dolori. La crisi, ritenuta causata dal morso, insorgeva in momenti critici dell’esistenza, quali la fatica del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un amore infelice o un matrimonio sfortunato. Il tarantismo, dunque, viene considerato da questo Autore non come un disordine psichico, ma come “ordine simbolico culturalmente condizionato”, nel quale trovava soluzione una crisi nevrotica culturalmente modellata sul latrodectismo. Il tarantismo permetteva di far defluire i conflitti psichici irrisolti e latenti dell’inconscio, consentendo di disciplinare e reintegrare la crisi nell’ordine culturale. In realtà l’antropologo, pur sostenendo l’importanza essenziale del condizionamento culturale del fenomeno, sembra riconoscere, pur non dichiarandolo, la presenza di conflitti sia sul piano sociale sia anche individuale ed una certa fragilità psichica di base del soggetto colpito, non discostandosi dalla nota relazione che è sempre stata riconosciuta tra isteria e ambiente.

Georges Lapassade (13), ancora in ottica antropologica, considera il tarantismo un culto di possessione, una forma di esorcismo e contemporaneamente di adorcismo, fenomeno in cui lo spirito che possiede la persona diventa un suo alleato. Egli associa il rituale della danza della tarantata alla macumba brasiliana ed alle cerimonie che si svolgono nelle case in Marocco, ipotizzando che tali riti terapeutici siano tutti “dispositivi ipnotizzatori”, in grado di provocare uno stato di trance. Quest’ultimo si otterrebbe attraverso i ritmi musicali, come comproverebbe il fatto che la tarantata, durante la danza, indugia vicino ai suonatori, come fascinata o “ipnotizzata” dagli strumenti, in particolare dal tamburello e dal violino. Secondo questo studioso, nella situazione di trance, il ritmo ossessivo, ripetitivo, apparentemente monotono, ma in realtà estremamente complesso, dei tamburi, in un primo tempo accolto come un fatto esterno, viene poi percepito come un prodotto all’interno della scatola cranica. Per Lapassade è il ritmo a provocare “l’esplosione” della coscienza, alterandone lo stato e portando alla trance. Egli inoltre sottolinea che in Puglia, come in Brasile e in Africa, la comunità diventa “gruppo terapeutico”, sostiene l’ammalato e collabora alla sua guarigione.

Un’importante corrente di pensiero sul fenomeno del tarantismo è quella medica, che ha subito nel corso dei secoli molti sviluppi e cambiamenti. Dal periodo medioevale fino al Rinascimento diversi studiosi, tra cui si distingueva Kircher, sostenevano che il tarantismo consistesse in un reale stato tossico provocato dal morso di un aracnide. Con l’avvento della scienza medica del 1600 e sino alla prima metà del 1900 viene portata avanti l’idea, sostenuta per la prima volta da Serao nel 1700 e dimostrata nel 1908 da De Raho, che il veleno del ragno fosse sostanzialmente innocuo. Secondo questo Autore (8), avvicinandosi a De Martino, il tarantismo è una forma di isteria dovuta ai traumi reali o immaginari, che si innesta su un terreno di personalità suggestionabile e si manifesta come tarantismo in virtù della superstizione e delle idee preconcette tipiche di una cultura contadina. Gli stessi tratti personologici e fattori culturali e sociali concorrono a produrre gli effetti terapeutici esercitati dalla musica e dall’acqua del pozzo e contribuiscono alla genesi dei sintomi somatici.

Già nel 1893 Carrieri considerava il tarantismo una nevropatia che si riscontra in donne tra i 15 e i 50 anni ed in cui si trova più facilmente l’”abito isterico”.

Nel 1957 Giordano ha pubblicato un lavoro in cui definisce il tarantismo una forma di psicosi collettiva. Studiando dal punto di vista clinico e con il test di Rorschach donne in età avanzata che erano state tarantate, ha rilevato che si trattava di soggetti con una mentalità primitiva, emotivi e suggestionabili, con scarsissima cultura. Egli ipotizza che l’esplosione della psicopatia trovi terreno fertile nel particolare ambiente socio-culturale in cui predominano idee false e paura (14).

Il tarantismo in ottica psicopatologica: ipotesi di un’epigenesi traumatica

Da quanto finora esposto si evidenzia come, secondo le ipotesi più accreditate, il tarantismo sia da considerarsi un fenomeno complesso, al cui sviluppo contribuiscono elementi socio-culturali, fattori psicologici ed eventi scatenanti di varia natura.

Considerando tale fenomeno secondo l’ottica della psichiatria transculturale esso, come già accennato, si può inserire nei rituali di possessione con le caratteristiche della trance. Questo termine deriva dal latino transire, che significa “andare al di là” ed indica uno stato alterato di coscienza che permette il “transito tra questo e l’altro mondo”. Il DSM-IV (15) descrive la trance all’interno di una categoria diagnostica “utilizzabile per ulteriori studi”, cioè il “Disturbo da Trance Dissociativa” e l’ICD10 la colloca tra le “Sindromi di trance e di possessione”. Per porre tali diagnosi è necessario che la sintomatologia descritta non sia prevista dalla cultura della persona come parte integrante di una pratica culturale o religiosa e la situazione deve essere vissuta dal soggetto come indesiderata e penosa.

Osservando il tarantismo da questi presupposti, esso pare collocarsi proprio al confine tra la malattia e la pratica culturale e religiosa: il soggetto, infatti, non ricerca attivamente di “essere morso dalla tarantola”, evento certamente vissuto consciamente come “indesiderato e penoso” e, contemporaneamente, quanto gli accade risulta accettato culturalmente, così come i rituali cui si sottopone per essere guarito. Inoltre, come sintetizza Frighi (16), “dal punto di vista clinico e descrittivo esso presenta indubbie caratteristiche di tipo isterico”.

Come ricorda Lapassade (17), è al medico viennese Mesmer cui si deve, attorno al 1774-1775, la prima induzione di trance convulsiva. Egli attuava così il passaggio dalla spiegazione della trance in termini soprannaturali alla teoria del magnetismo animale: i disturbi del paziente sarebbero causati dal blocco del “fluido animale” e vengono risolti grazie all’intervento del medico che, emettendo egli stesso il fluido, permetterebbe a quello del paziente di rifluire normalmente, grazie ad una crisi di tipo catartico. In quest’epoca, De Puységur (17) provocava in un suo paziente uno stato di sonnambulismo senza convulsioni né dolori e Bertrand (17) (18) proponeva un’interpretazione delle antiche trance religiose nel quadro di una teoria del sonnambulismo generalizzata.

Il legame tra trance, ipnosi e isteria, che, in ottica psichiatrica, si evidenziano come fenomeni che potrebbero sottendere il tarantismo, è stato posto per primo da Charcot (17) (19), verso la fine del 1800. Ricordiamo sinteticamente, in particolare, la descrizione classica della “crisi isterica”, suggestivamente assomigliante alla danza “pizzica-tarantata”. Essa è preceduta da segni precursori quali inappetenza, vomito, malinconia o, al contrario, sovreccitazione, allucinazioni con visioni d’animali, crampi, tremori limitati ad un arto e dalla cosiddetta “aura isterica”, caratterizzata da dolori ovarici, palpitazioni cardiache, perdita di coscienza. Seguono quindi le quattro fasi, epilettoide, del clownismo, degli atteggiamenti passionali e dei deliri.

Nella stessa epoca, Janet (17) (20) soffermava la sua attenzione sul tratto fondamentale del sonnambulismo: l’oblio al risveglio. Il fatto che nella veglia si dimentichi il vissuto di trance sostiene l’ipotesi che esistano due memorie, una propria dello stato di trance e una dello stato di veglia, che funzionano separatamente e sembra sostengano due “esistenze”, anch’esse autonome e separate. Egli propone il concetto di disaggregazione mentale, alla base della teoria della trance e del fenomeno dello sdoppiamento della personalità.

All’interno di tale prospettiva, si è sviluppata la teoria psicoanalitica freudiana che, inizialmente, ipotizzava nell’eziopatogenesi dell’isteria un trauma sessuale reale subito durante l’infanzia. Sviluppando il lavoro di Breuer con Anna O., Freud (21) enfatizzava che le reazioni al trauma potevano avvenire durante o dopo l’adolescenza, quando esso è vissuto come ricordo. In linea con i tali presupposti teorici, il trattamento consisteva nel provocare l’abreazione della percezione bloccata e legata al ricordo del trauma.

Il grande trauma singolo può essere sostituito, nell’isteria, “da una serie di drammi minori, tenuti insieme per affinità o perché parti di una stessa tribolazione” (22). Quest’ultimo passaggio prelude alla scoperta dell’importanza delle fantasie inconsce che portò Freud a rinunciare alla semplificazione di un rapporto causale lineare tra il trauma reale e le sue conseguenze, ampliando la sua ricerca alle caratteristiche generali del trauma psichico (23).

Freud ha proposto inizialmente un approccio quantitativo al trauma, basato sull’idea che l’impatto traumatico provocasse una rottura della barriera dell’Io contro gli stimoli esterni. Successivamente Freud (24) ha aggiunto, come fattore implicato nella situazione traumatica, la debolezza di una parte dell’Io di fronte all’accumulo d’eccitazione, sia interna sia esterna; egli inoltre gettò le basi per una comprensione qualitativa del trauma, articolando una sequenza evolutiva di situazioni di pericolo, che vanno dalla perdita dell’oggetto al senso di colpa.

Sugarman (25) evidenzia che i contributi sull’esplorazione psicoanalitica del trauma si sono sviluppati sulla combinazione di fattori quantitativi e qualitativi, facendo emergere le plurisfaccettate variabili che determinano l’esperienza soggettiva del trauma. Esso è costituito da elementi fondamentali, embricati tra loro: 1) il fattore precipitante (stimolo interno o esterno); 2) il processo traumatico che implica una rottura della barriera contro gli stimoli, con la perdita della possibilità di mediazione dell’Io; 3) l’effetto traumatico di tale processo, che si manifesta in uno stato di debolezza psichica; 4) lo sviluppo di affetti dolorosi.

Questo Autore ricorda inoltre la fondamentale importanza dell’ambiente e della relazione madre-bambino nel predisporre o determinare una situazione traumatica.

Una ricca messe di studi, di impostazione psicoanalitica e non, ha dimostrato che l’Io tende a gestire il trauma psichico con specifici meccanismi: rimozione, ripetizione, isolamento, regressione, somatizzazione, evitamento, identificazioni proiettive, dissociazione.

Dagli inizi degli anni ’80, con l’inserimento nel DSM dei Disturbi Dissociativi, l’interesse per questi ha avuto una notevole crescita, in particolare per quanto concerne la correlazione con eventi traumatici. Il DSM-IV (15) colloca tra i Disturbi Dissociativi l’Amnesia Dissociativa, la Fuga Dissociativa, il Disturbo di Depersonalizzazione, il Disturbo Dissociativo d’Identità (già di Personalità multipla) ed il Disturbo Dissociativo N. A. S. (tra cui gli stati di trance, lo stupor funzionale e la sindrome di Ganser), definendoli in generale come “espressione di rottura nelle usuali funzioni integrative di coscienza, memoria, identità e percezione dell’ambiente”.

La dissociazione di coscienza si esprime attraverso un difetto di collegamento ed integrazione tra vari livelli di coscienza di un soggetto, sia in senso trasversale, quindi la registrazione di più esperienze percettive ed emozionali contemporanee sembra avvenire su piani diversi di coscienza (solo uno dei quali rimane conscio), sia in senso longitudinale-temporale, determinando uno stato di discontinuità delle esperienze. Le esperienze sono vissute così come non integrate e integrabili, essendo correlate a due o più processi mentali (o aree cognitive) coesistenti, ma non in contatto, cosicché sistemi ideo-affettivi (rappresentazioni ed emozioni) rimangono separati dal resto della personalità cosciente (26).

Sintomi dissociativi possono far parte di quadri diagnostici raggruppati sia nella categoria dei Disturbi D’Ansia, quali il Disturbo di Panico, il Disturbo Post-Traumatico da Stress, il Disturbo Acuto da Stress, sia nei Disturbi Somatoformi, quali il Disturbo da Somatizzazione, sia, infine, nel Disturbo Borderline di Personalità.

I Disturbi Dissociativi, così come i quadri diagnostici sopra elencati che li comprendono, sono risultati correlati all’anamnesi positiva per abusi e violenze, in particolare a carattere sessuale e subiti soprattutto in età infantile.

In precedenti lavori di revisione della letteratura (27) (28) si è evidenziato che i risultati della ricca messe di studi pubblicati in quest’ambito ha dimostrato che la gravità di tali disturbi è collocabile in un range molto ampio. Questo è in relazione alle caratteristiche dell’abuso, all’identità dell’aggressore, alla vulnerabilità della vittima, al supporto familiare e sociale. I criteri prognostici negativi sono l’uso della forza fisica, la ripetizione del trauma nel tempo, il fatto che sia perpetrato da un genitore o un familiare e la giovane età della vittima.

Da un punto di vista epidemiologico, la reale entità del fenomeno è di difficile valutazione: si stima, infatti, che le violenze rilevate non costituiscano più del 10% di quelle perpetrate. Le percentuali riguardanti la prevalenza life-time delle aggressioni sessuali contro le donne adulte, nella popolazione generale, spaziano in un range che va dal 5% al 44%. Per quanto riguarda l’abuso sessuale sui bambini, le stime vanno dal 6% al 62% per le femmine e dal 3% al 31% per i maschi (29). Con una frequenza compresa tra il 7% e il 14% dei casi si tratta di violenze perpetrate nel contesto intrafamiliare (30).

I primi studi empirici sui possibili risvolti psicologici della violenza sessuale sono stati compiuti a partire dagli anni ’70, quando il movimento femminista stava costruendo le basi per una cultura più aperta alla presa di coscienza delle problematiche delle donne. È proprio in questo clima di rinnovamento che Burgess e Holmstrom nel 1974 giungono all’individuazione della cosiddetta “Sindrome del Trauma da Stupro” (31).

Da allora i moltissimi lavori pubblicati hanno costatato che la “Sindrome del Trauma da Stupro” si può considerare come precursore di una serie di quadri clinici oggi inquadrati nell’attuale nosografia del DSM IV.

I più frequenti sono il Disturbo Acuto da Stress, che si manifesta nel 94% delle vittime nella prima settimana dopo l’aggressione sessuale e nel 47% dei casi persiste a tre mesi dal trauma (32), e il Disturbo Post-Traumatico da Stress che ha una prevalenza che va dal 13 al 70% (33).

Anche per quanto riguarda specificamente le donne vittime di violenza domestica, non necessariamente di natura esclusivamente sessuale, i lavori più recenti hanno individuato in particolare la presenza di sintomi dissociativi in generale e, in particolare, di Disturbo Post-Traumatico da Stress (34)-(37).

Tra i fattori di rischio riconosciuti nella violenza domestica risultano centrali le condizioni economiche e sociali della famiglia ed il ruolo della donna (38) (39).

Benché la violenza domestica si possa considerare il risultato di interazioni complesse, è univocamente accettato che una struttura patriarcale della famiglia, dove il controllo e il dominio maschile sono prevalenti e la donna è in stato di totale subordinazione diventa scenario preferenziale per situazioni di abuso. In tali contesti, dove la donna è costretta al silenzio, all’obbedienza, alla repressione ed alla negazione, la realtà femminile può esprimersi solo attraverso forme culturalmente accettate approvate.

Nell’adulto, accanto ai disturbi già descritti, la violenza, in particolare di natura sessuale, può indurre sia precocemente, sia molto tempo dopo l’esperienza traumatica, altri quadri psicopatologici, sia nell’ambito dei Disturbi d’Ansia, sia dell’Alimentazione e dell’Abuso di Sostanze, spesso associati a Disturbi dell’Umore (27).

Per quanto concerne l’età infantile e adolescenziale, lavori recenti stabiliscono una correlazione tra le storie di abusi sessuali gravi e continuativi, e Disturbi di Personalità, soprattutto di tipo Borderline. Diversi Autori ipotizzano uno spettro di disturbi traumatici, in cui il Disturbo Dissociativo d’Identità (di Personalità Multipla) e il Disturbo Borderline di Personalità rappresenterebbero l’estrema risposta di adattamento all’abuso grave e cronico, mentre i Disturbi in Asse I, per esempio il Disturbo Acuto da Stress e il Disturbo Post-Traumatico da Stress potrebbero considerarsi la risposta ad eventi più o meno circoscritti e recenti (40)-(42).

Lo stato dissociativo, usato come difesa al momento dell’abuso, può diventare una difesa generalizzata in ogni situazione dove sono risvegliati forti affetti. Secondo Bliss (43), nel tentativo di proteggersi, la coscienza della vittima si auto-induce una sorta di “trance ipnotica spontanea”, ottenendo uno stato di analgesia o amnesia che gli consentono di non soccombere alla completa disgregazione.

Per Miti (44) l’amnesia post-ipnotica che può seguire ad un evento traumatico rappresenta una strategia per segregare l’esperienza in uno stato di coscienza parallelo e diverso da quello utilizzato in condizioni normali, ordinario che il soggetto conosce.

Fonagy et al. (45), sulla base dei risultati forniti da ricerche da loro condotte, confortate a loro volta da una ricca letteratura, hanno dimostrato che i bambini vittime di abusi, mentali, fisici e/o sessuali utilizzano la dissociazione per proteggersi dall’ambiente maltrattante, minando la loro capacità di mentalizzazione e disponendoli allo sviluppo di un Disturbo Borderline di personalità.

L’incesto è stato correlato da un’ampia letteratura a diversi fattori di rischio, quali le caratteristiche dell’organizzazione familiare, in particolare di tipo patriarcale autoritario, la classe sociale, il rapporto fra genitori, l’abuso di alcool da parte di questi, con risultati non del tutto univoci (46).

Alle ipotesi precedentemente descritte, avanzate da De Martino e dagli altri Autori, si potrebbe quindi aggiungere la possibilità che il tarantismo, per le sue caratteristiche fenomenologiche, possa essere espressione di un disagio connesso sia a situazioni drammatiche di sopravvivenza sia di maltrattamenti ed abusi subiti in età infantile e adolescenziale, anche di tipo sessuale (47). In quest’ottica, la sintomatologia ed il trattamento musico-coreutico che la comunità riservava agli individui che ne erano affetti ne rappresenterebbero una ripetizione e una ritualizzazione altamente teatralizzata, si potrebbe dire “isterizzata”.

Diversi fattori caratterizzanti il fenomeno del tarantismo avvalorerebbero l’ipotesi che alla sua epigenesi contribuissero eventi traumatici di tipo anche sessuale: il suo presentarsi durante la stagione estiva, in cui uomini, donne e bambini trascorrevano giorno e notte nei campi; la sua maggiore prevalenza in donne in periodo puberale; la sua possibilità di ricorrenza; l’alta simbologia di tipo sessuale che caratterizzava la crisi ed i rituali propri dell’esorcismo, con l’utilizzo di canti a contenuto erotico, lo stato dissociato della coscienza entro cui avveniva la crisi.

Per concludere, ricordiamo che la Epifani (3), sostiene che la posizione a terra con le gambe flesse e divaricate, con la testa che si muove a destra e sinistra, appare proprio un amplesso simulato agli occhi degli estranei, intimamente sentito e vissuto dalla donna, che di tanto in tanto emette delle urla che esprimono il piacere-dolore di un amplesso sostitutivo. Tale posizione, secondo l’autrice, ricorda la posizione naturale “donna sotto e uomo sopra”, cioè una posizione di sottomissione cui la tarantata reagisce alzandosi in piedi, opponendosi quindi alla condizione di passività ed avviandosi alla guarigione. Nella posizione orizzontale la donna rivivrebbe lo stato di sottomissione e integrazione all’ordine naturale, strisciando come l’animale, urlando, simulando un amplesso coatto; nella posizione verticale, invece, lotterebbe e si ribellerebbe a tale condizione, risolvendo la malattia.

Conclusioni

Oggi sono poche ed ormai anziane le vittime del morso della tarantola, restie a raccontare la propria esperienza: per loro e per i loro parenti, tuttavia, non vi è dubbio che il fenomeno sia collegato al morso del ragno (47).

Lo studio delle caratteristiche sociali e culturali dell’ambiente in cui si è sviluppato il tarantismo, la revisione delle ricerche antropologiche sull’argomento e le osservazioni fenomenologiche della crisi e dell’esorcismo coreutico-musicale, permettono di allargare la prospettiva con cui osservare il fenomeno in un’ottica psicopatologica.

Il tarantismo può, infatti, avvicinarsi, come abbiamo visto, all’isteria ed in particolare ad uno stato di trance dissociativa. Ne erano colpite in particolare le donne, in età puberale, durante la stagione estiva, quando tutti dormivano nei campi dove lavoravano duramente. La condizione della donna era di assoluta subordinazione, con la totale impossibilità di decidere della propria vita e di esprimere i propri affetti. L’essere morsa dalla tarantola poteva permettere una scarica delle proprie frustrazioni, un modo per affermare la propria individualità e la propria femminilità.

In ottica psicopatologica la crisi della tarantata e l’esorcismo coreutico musicale si evidenziano come fenomeni in cui il soggetto vive uno stato dissociativo in cui manifesta comportamenti molto evocativi del rapporto sessuale e la stessa pratica esorcistica è densa di simbologia erotica.

Su questi presupposti, è possibile ipotizzare che all’epigenesi del fenomeno possano contribuire non solo, genericamente, drammatiche situazioni di sopravvivenza e disagio psichico, soprattutto femminile, ma anche, più specificamente, eventi traumatici di natura sessuale.

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